Una premessa letteraria
Nel dicembre del 1967 si tenne a Matera un convegno sul tema Il risanamento dei Sassi. All’epoca era un argomento dibattuto: nei primi anni cinquanta, infatti, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi aveva ripreso un’espressione già formulata dal segretario del Pci Palmiro Togliatti dopo una celebre visita nel 1948, definendo “una vergogna nazionale” la parte più antica della città di Matera – cioè le grotte e i tuguri della gravina abitati da uomini, donne, bambini e animali.
In seguito, ne aveva accelerato lo svuotamento con una serie di leggi speciali.
A far conoscere i Sassi all’Italia del dopoguerra e al mondo intero ci aveva pensato il romanzo Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, capolavoro uscito nel settembre del 1945 e diventato ben presto una sorta di long seller sul mondo contadino meridionale.
Il Cristo è incentrato sull’esperienza del confino fascista di Levi, militante torinese di Giustizia e libertà arrestato in Piemonte e spedito ad Aliano, nella Lucania interna.
Durante il confino, Levi, che era medico e pittore, non scopre solo un universo “sacro, arcano e magico”. Si accorge ben presto come il mondo ancestrale dei cafoni corra parallelamente, o sotterraneamente, rispetto alla storia ufficiale, rispetto allo stesso fascismo che lo aveva relegato al confino.
Non che la storia – e lo stato, e lo stesso fascismo – non fossero presenti nel sud. Lo erano eccome, ed erano incarnati per lo più da una piccola borghesia gretta, ignorante, eternamente trasformista, che fungeva da architrave del consenso e da ganglio del sottopotere. I due mondi, quello dei contadini e quello dei piccoloborghesi, della burocrazia locale, dei notabili (che Levi definisce “luigini”, da don Luigi, il podestà del paese), correvano paralleli. Facevano parte di due universi separati.
Il Cristo parla innanzitutto del confino ad Aliano (nel libro chiamata Gagliano), ma a un certo punto, nel mezzo del racconto, si incontrano una decina di pagine che descrivono i Sassi di Matera. In quella che Levi definisce la capitale della civiltà contadina, la vita si svolge in tuguri dove convivono uomini e animali, in spazi angusti e in condizioni igienico-sanitarie ignominiose.
Quella “capitale” del sud interno fu parzialmente abitata fino alla metà degli anni sessanta. Quando nel 1964 Pier Paolo Pasolini decise di girare qui il suo Vangelo secondo Matteo, facendo della gravina la sede della Gerusalemme biblica, lo sfollamento era ormai a buon punto.
Poi è faticosamente proseguito negli anni successivi, finché si tenne il convegno del dicembre del 1967. Ormai l’argomento di cui dibattere stava lentamente diventando un altro: cosa fare in futuro dei Sassi?
A quel convegno partecipò anche lo scrittore Giorgio Bassani, allora presidente di Italia Nostra.
Bassani si definì “estremamente pessimista” sul futuro dei Sassi. Disse che quando l’unica soluzione è quella di rendere la popolazione sfollata è praticamente impossibile arrestare lo svuotamento di senso e di vita di una città, o quanto meno di una sua parte essenziale.
Tuttavia, nel suo intervento, Bassani fece anche un’acuta osservazione in sottile polemica con Carlo Levi, intervenuto dal palco dei relatori poco prima:
Nel 1948, completamente schiavo, come ero a quel tempo, della magica suggestione del Cristo, vidi anche io, nei Sassi, la favolosa sede metastorica della civiltà contadina. Oggi, poche ore fa, i Sassi li ho visti in una luce sostanzialmente diversa. Mi sono trovato di fronte, non senza sorpresa, a un insieme urbanistico estremamente elaborato, ricco degli apporti più vari. C’è il fondo contadino e rupestre, d’accordo: il più antico, quello originario. Ma a esso si sono poi sovrapposti, nel corso dei secoli, inserendosi perfettamente nel contesto generale, gli elementi architettonici delle civiltà successive, da quella gotico-normanna, ‘cortese’ per eccellenza e colta, alla rinascimentale, alla barocca di derivazione spagnola: sotto il profilo linguistico non meno aristocratiche e ‘illustri’. Basta leggere con un minimo di attenzione il famoso ‘orrido’ di Matera, insomma, per rendersi conto della sua singolare, assoluta bellezza, e per convincersi che esso rappresenta qualche cosa di oggettivamente prezioso: un unicum, dinanzi a cui la cultura italiana, e non soltanto italiana, non può rimanere insensibile.
Questo unicum è diventato nel 1993, a seguito di una battaglia culturale condotta tra gli altri dall’architetto Pietro Laureano, Patrimonio dell’umanità. Da allora, i Sassi ormai svuotati hanno cominciato lentamente a ripopolarsi. E le presenze turistiche sono progressivamente aumentate.
È stato un crescendo, specie nel nuovo secolo. Oggi che Matera è stata nominata capitale europea della cultura per il 2019 si può dedurre che al successo della sua candidatura, abbia contribuito, oltre all’accuratezza del dossier presentato, proprio quel singolare ecosistema umano e architettonico racchiuso nei Sassi.
Che rapporto hanno con quell’unicum oggi gli abitanti di Matera e chi visita Matera? Cosa percepiscono della pluralità dei piani storici cui si riferiva Bassani nel suo intervento?
Non più “vergogna”, i Sassi sembrano essere posti da almeno un ventennio davanti a un bivio: essere un semplice “oggetto” di promozione turistica o tornare a essere “luogo di vita”, nel senso più pieno che possiamo dare a una simile espressione. In un senso o nell’altro, il cammino da percorrere da qui al 2019 porterà la città al di là del bivio.
A palazzo Lanfranchi
Dalla fine di luglio 2014 alla fine di gennaio 2015, il seicentesco palazzo Lanfranchi, da cui si scorge una vista mozzafiato sui Sassi, ha ospitato la mostra Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo cinquant’anni dopo.
La mostra è stata curata dalla direttrice del polo museale regionale della Basilicata Marta Ragozzino e dal critico Giuseppe Appella, con la collaborazione di Ermanno Taviani e Paride Leporace.
Stanza dopo stanza, il film che Pasolini girò in gran parte a Matera e nei paesi al confine tra la Puglia e la Lucania tra la primavera e l’estate del 1964, è stato sviscerato in ogni sua parte.
Tra i materiali video e audio forniti, a parte gli spezzoni del film che scorrevano a loop su grandi schermi posti alle pareti, c’erano le interviste – tra gli altri – ai critici cinematografici Goffredo Fofi e Virgilio Fantuzzi, i riferimenti alle opere precedenti del regista (come La ricotta), le dichiarazioni dello stesso regista. E poi, foto e ricordi delle riprese, testimonianze delle comparse, costumi di scena, gli appunti di Pasolini sulla sceneggiatura, le lettere scambiate con i frati di Assisi che fecero da consulenti.
Soprattutto, ampia parte della mostra è stata riservata alla fase preparatoria del film e alla scelta di Pasolini di girare il suo Vangelo – dopo un sopralluogo in Israele da cui era tornato deluso – proprio in Lucania, trovandovi volti, luoghi, anfratti più vicini al nocciolo del vangelo.
Quella di Pasolini non era la semplice scelta di un set cinematografico. Rileggendo le interviste rilasciate allora, e confrontando il film con la produzione poetica di quegli anni (per esempio Poesie in forma di rosa) appare fortissima l’idea, etica ed estetica allo stesso tempo, di individuare, in un’idea trasfigurata, del sud quanto di più vicino possa esserci al regno predicato da Gesù di Nazareth. E quella certa idea di sud aveva a che fare proprio con gli ultimi brandelli di una civiltà contadina, che lo stesso Pasolini vedeva sbriciolarsi davanti ai suoi occhi.
Per questo il Vangelo rimane ancora oggi un film profondamente diverso da tutti quelli girati successivamente nei Sassi. Si pensi in particolare a The passion di Mel Gibson, in cui Matera diventa l’asettico sfondo d’antan di una rielaborazione splatter (ai limiti del pornografico) della Passione di Cristo.
Quando ho visitato la mostra su Pasolini, ai primi di agosto del 2014, le stanze erano affollate, tanto che risultava difficile conquistare una cuffia per ascoltare le interviste realizzate o consultare i materiali di approfondimento conservati nelle teche a ridosso delle pareti.
Quella che Levi trasfigura in opera d’arte è innanzitutto la ‘vergogna’ dei primi anni sessanta.
Nei mesi successivi la mostra è stata visitata da più di 35mila persone, in buona parte stranieri. È stato uno degli eventi decisivi nella corsa di Matera alla candidatura di capitale europea per il 2019: un esempio concreto di come si possa interagire, al di là del solito binomio turismo-cultura, con la memoria dei Sassi e le letture precedenti di cui sono stati oggetto.
Sono tornato a Matera a un anno di distanza, i primi di agosto del 2015, per vedere un’altra mostra appena inaugurata a palazzo Lanfranchi e curata sempre da Marta Ragozzino: I sassi di Matera. Viaggio in Lucania con Carlo Levi. Fotografie di Mario Carbone.
Questa volta, oggetto di rivisitazione è un ritorno di Levi tra i Sassi nel 1960. Si tratta di un ritorno particolare. In quei mesi Levi si apprestava a realizzare per le celebrazioni del centenario dell’Unità di Italia una grande tela da esporre alla mostra delle regioni organizzata a Torino dall’amico Mario Soldati. La tela, poi ribattezzata Lucania 61 è una summa dell’opera pittorica di Levi e del suo incontro con il mondo lucano.
È esposta in modo permanente in un’ala a pian terreno di palazzo Lanfranchi. L’opera, lunga 18 metri e mezzo e alta più di tre, si sviluppa in tre scene. Nella prima e nell’ultima ci sono rispettivamente la veglia funebre e un comizio di Rocco Scotellaro, il sindaco-scrittore di Tricarico morto ad appena trent’anni, che Levi definì “il poeta della libertà contadina”. Nella scena centrale si snoda un corteo contadino nei Sassi.
Le tre scene si nutrono di una serie impressionante di minuzie, riferimenti, rimandi, dettagli che compongono un universo compatto. A prima vista, potrebbe sembrare un grande affresco fuori del tempo, una visione onirica in cui Levi ha voluto rielaborare la memoria del confino degli anni trenta, la storia della Lucania, la breve vita di Scotellaro.
Ma basta vedere le foto di Mario Carbone per accorgersi che le cose non stanno esattamente così. O meglio, non stanno solo così.
Levi volle vedere i Sassi prima di mettersi a dipingere e le decine di foto esposte nella mostra illustrano questo nuovo incontro, di poco precedente al film di Pasolini e al convegno cui prese parte anche Bassani.
La domanda sul rapporto con i Sassi, la loro memoria e che cosa farne, appare tutt’altro che asettica
Non sono però una semplice testimonianza di viaggio. Quegli scatti divennero per Levi materiale di lavoro, tanto che alcune scene di vita in esse immortalate sono state poi riprodotte nella grande tela. Insomma, quella che Levi trasfigura in opera d’arte non è solamente la memoria del confino degli anni trenta o l’universo della vita di Scotellaro, ma innanzitutto la “vergogna” dei primi anni sessanta.
Lucania 61 restituisce anche i volti e i corpi di chi all’epoca continuava a vivere in quei Sassi non risanati.
Tuttavia quando Levi dipinse la tela, così come quando aveva scritto il Cristo quindici anni prima, non volle fare un’opera di denuncia. Nel rendere visibile ciò che ai più era invisibile, volle mostrare tutta la carica umana e religiosa di un mondo che – a suo modo di vedere – non andava redento, ma solo liberato dal fardello delle costrizioni materiali, e dai diktat dei vincitori.
Uscito dalla mostra, sono sceso per i Sassi affollati di turisti. Gli antichi rioni sono stati ripopolati. Ma questo ripopolamento ha avuto soprattutto una finalità turistica.
Ogni venti metri ci si imbatte in un albergo o in un bed & breakfast, in bar e pub, in negozietti di souvenir, in automobili parcheggiate, che di primo acchito non riesci a capire come siano riusciti a portare giù, dal momento che le stradine che scendono verso il basso sono fatte quasi tutte di scalini. Ovviamente, c’è anche chi è tornato a vivere nei Sassi, soprattutto nelle aree meglio restaurate. Ma la percentuale dei nuovi residenti è decisamente inferiore rispetto a quella delle strutture alberghiere.
Giunto a metà della discesa, guardo la gravina che cala a strapiombo e in alto la città che sale per gironi concentrici. A ogni livello la strada fa da tetto alle case inferiori. Vedo questo set attraversato da sciami di turisti e penso che le foto di Carbone sono state scattate 55 anni fa. Solo 55 ani prima.
Dal punto di vista storico un’inezia, ma è esattamente l’arco di tempo in cui si è dipanato lo spopolamento, l’abbandono e il nuovo ripopolamento dei Sassi.
È un tempo relativamente breve, che racchiude gli ultimi decenni delle biografie individuali di un’ampia parte della popolazione materana. Anche per questo la domanda sul rapporto con i Sassi, la loro memoria e che cosa farne, appare tutt’altro che asettica.
Matera 2019
Nel dossier di candidatura a capitale europea della cultura 2019 il rapporto con il passato (individuato con la formula di “futuro remoto”) è centrale.
Ma ancora più citati sono i concetti di “cittadinanza culturale” e di “open culture”, che dovrebbero tracciare le linee guida per la città nei prossimi anni. Più che una serie di esempi concreti, il dossier individua dei possibili contenitori e laboratori culturali all’interno dei quali sia possibile “incrementare le relazioni internazionali, valorizzare un movimento emergente di creative bureaucracy, ma soprattutto fare di Matera la più importante piattaforma aperta del sistema culturale del sud Europa”.
Leggendo il dossier di Matera 2019 (nel comitato organizzatore appaiono come direttore Paolo Verri e come direttore artistico Joseph Grima) l’obiettivo sembra subito chiaro: non solo moltiplicare mostre ben fatte come quella su Pasolini o festival come Materadio (che ogni anno, per alcuni giorni, Radio 3 organizza nella città dei Sassi), ma provare ad allargare la partecipazione e gli scambi culturali seguendo due linee.
Da una parte puntare sul coinvolgimento della stessa città, dei giovani residenti e di quelli che ritornano; dall’altra sulla intensificazione di una rete internazionale gravitante su altri festival, fondazioni, centri culturali stranieri. In tal senso, per esempio, dovrebbe andare il progetto The tomorrow, con l’intento di collegare “una vasta rete di intellettuali, artisti, scienziati e ricercatori” in una serie di dibattiti sul futuro della cultura in Europa.
Oppure quello intitolato La più bella delle vergogne che “prevede l’esecuzione di opere d’arte performative, frutto del lavoro di committenze a lungo termine, concepite e messe in scena da registi e compagnie di fama europea in stretta collaborazione con artisti, gruppi di cittadini e promotori culturali locali, che affronteranno in modo diretto la sofferenza e la straordinaria bellezza della vergogna che in passato ha forgiato, e forgia ancora oggi, la città dandole la forza di riscoprire se stessa”.
La realizzazione di tutto ciò, come già accaduto per le città europee nominate negli anni passati capitali continentali della cultura, prevede un cospicuo investimento di milioni di euro.
Nel dossier approvato dell’Unione europea (e in precedenza condiviso da tutti gli enti locali) si parla espressamente di 52 milioni di euro da destinare alla realizzazione della programmazione culturale, e di circa 650 milioni di euro destinati alle spese in conto capitale, per gli interventi sulla città e l’area circostante: infrastrutture, trasporti, rigenerazione urbana, energia, agenda digitale, eccetera.
In realtà, dei 52 milioni destinati alla realizzazione degli eventi culturali, solo il 3 per cento dovrebbe provenire dall’Unione europea (benché per il momento siano escluse dal conteggio altre risorse derivanti dalla partecipazione a programmi comunitari). La fetta più grossa della torta (il 70 per cento) sarà garantito dal comune di Matera e dalla regione Basilicata, il cui contributo è rispettivamente di 5,2 e 25 milioni di euro.
Delle spese in conto capitale, la maggior parte dell’investimento pubblico riguarda progetti già finanziati o in corso di finanziamento nel campo delle grandi infrastrutture. Oltre a una metropolitana leggera per la città, le quattro opere principali dovrebbero essere: il collegamento autostradale Gioia del Colle-Pollino, il bypass viario Matera-Taranto, il potenziamento della Bradanica e – soprattutto – il miglioramento del collegamento ferroviario tra Bari e Matera.
Non è vero, come sostiene una sorta di leggenda contemporanea, che a Matera non ci sia una stazione ferroviaria. Il problema è che per raggiungere la stazione e l’aeroporto di Bari i treni delle Ferrovie appulo-lucane impiegano circa un’ora e mezza. L’obiettivo è raddoppiare la linea per portare i tempi di percorrenza a 55 minuti e far circolare cinquanta treni in più sulla linea Matera-Altamura-Bari. I lavori sono cominciati proprio nell’ultimo mese.
Ribaltoni elettorali
Tuttavia, il percorso verso Matera 2019, per come era stato delineato dal comitato promotore, ha subìto un brusco colpo con le ultime elezioni comunali.
La sera del 14 giugno il sindaco uscente del Pd, Salvatore Adduce, che aveva guidato la candidatura vittoriosa a capitale europea della cultura per il 2019, è uscito sonoramente sconfitto. Ha vinto Raffaele De Ruggieri, in passato segretario regionale del Partito repubblicano, e poi presidente della fondazione Zètema, alla guida di una variegata coalizione di centrodestra costituita quasi unicamente da liste civiche, in cui sono confluiti anche alcuni esponenti dello schieramento opposto.
I fili di quella che in Basilicata chiamano “l’operazione De Ruggieri” li manovra Nicola Buccico, storico esponente del Msi e di Alleanza nazionale, ed ex sindaco della città. Contro Adduce, e a capo dell’ampia coalizione organizzata da Buccico e gli altri, si è presentato un anziano e colto esponente della prima repubblica, già fondatore, oltre che di Zètema, dell’associazione del circolo culturale La scaletta e soprattutto artefice della riscoperta della Cripta del peccato originale, uno dei capolavori di quella che Levi definì “civiltà contadina”, a pochi chilometri dal centro della città.
Sulle sue pareti porose fu scoperto, nel 1963, un ciclo di affreschi sulle vicende del nuovo e del vecchio testamento realizzato nel nono secolo, talmente elaborato da fargli guadagnare la definizione di cappella Sistina dell’arte rupestre.
Tutta la campagna di De Ruggieri è stata caratterizzata da una critica feroce della precedente amministrazione e del modo in cui questa aveva condotto il progetto Matera 2019. La critica (poi risultata elettoralmente vincente) può essere racchiusa in poche parole: chi ha steso il dossier di candidatura rappresenta un’élite politica e culturale che poco ha a che spartire con la Matera reale. Per usare le parole dello stesso Buccico, dalle elezioni è uscito sconfitto “il club dei supponenti”.
La campagna elettorale ha raggiunto un livello di livore e conflittualità raro per una città di sessantamila abitanti come Matera.
Quanto al loro risultato, la sorpresa al di fuori della regione è stata enorme, tanto da far ritenere ai più che la tornata elettorale di maggio-giugno 2015 non sia un semplice capovolgimento di fronte politico, né la testimonianza di una crisi di consenso del Pd in una città chiave del Mezzogiorno, come se il partito faccia difficoltà a interpretare in tempo le mutazioni e le scosse telluriche di una società meridionale sempre più liquida.
Le elezioni segnano forse uno spartiacque più profondo. E permettono di avanzare una discussione sul rapporto tra la città di Matera e il progetto Matera 2019.
Un excursus. Mezzogiorno di fuoco
C’è un precedente storico, che occorre rivangare.
L’11 novembre del 1984, sul settimanale l’Espresso uscì un lungo reportage di Nello Ajello intitolato Mezzogiorno di fuoco. Matera era salita alla ribalta nazionale, perché nel feudo del potente viceré democristiano Emilio Colombo il partito da sempre al governo era stato mandato all’opposizione.
La Dc, che pure nelle elezioni politiche continuava a superare il 45 per cento in tutta la regione, aveva perso le elezioni amministrative in favore di una coalizione di partiti laici imperniata sul Psi, con l’appoggio esterno del Pci. Per Ajello, il piccolo terremoto materano annunciava la lenta corrosione del potere Dc: qualcosa, nel 1984, ancora inimmaginabile, che sarebbe però divenuto realtà nell’arco di meno di un decennio.
Tra i padri di quell’operazione politica vi era l’allora segretario regionale del Partito repubblicano, Raffaele De Ruggiero, che trent’anni dopo ha sconfitto il Pd. Allora disse ad Ajello di essersi accorto per tempo che “la caligine democristiana, dopo quarant’anni, poteva essere squarciata”.
La Dc perse le comunali anche a causa della lotta intestina tra le sue varie correnti (cosa che, su scala diversa, si è riprodotta anche con l’attuale Pd).
Ma Ajello non si fermò a questo dato di superficie. Al di là della crisi generale del potere democristiano, seppe scorgere in quelle elezioni-svolta i segni di una trasformazione lucana molto più profonda: il passaggio “da una società contadina arretrata a una civiltà urbana di serie B”, fatta di impiego pubblico che aveva accolto nelle sue file un nuovo ceto, per poi cominciare a erodersi, e di nuova disoccupazione tra i figli dei “luigini”.
Insomma il partito dominante non riusciva a più imbrigliare e a interpretare una società siffatta.
A grattare sotto la scorza della sconfitta di Adduce e, per estensione, del comitato promotore di Matera 2019, è possibile scorgere qualcosa di simile.
Non solo un segnale d’allarme per il Pd nel Mezzogiorno, o l’esempio di quanto sia difficile rappresentare la società meridionale, di come una politica fatta di annunci e programmazione, anche se ben costruita, rischia di non fare presa.
Accanto a tutto questo, è possibile riconoscere forse il delinearsi di una frattura sociopolitica molto più ampia. Diversa da quella di trent’anni fa, ma ugualmente profonda.
Dialoghi lucani
A parlare espressamente di “due Matere” è stato lo scrittore Andrea Di Consoli in un intervento apparso sul Quotidiano di Basilicata. Secondo Di Consoli, De Ruggieri (“figlio di una cultura severa, rigorosa, accademica, antichistica, anche retorica, per carità”) ha saputo interpretare il mal di pancia della città. Per essere più precisi: il voto di coloro che hanno guardato il boom dei Sassi con un misto di fastidio e frustrazione; e pensano che a trarne vantaggi, a beneficiare dei milioni di euro che arriveranno, saranno altri.
Questa “seconda Matera” non costituisce affatto un blocco omogeneo. Tra le sue file, ci sono i sostenitori della “materanità”, sospettosi nei riguardi di una programmazione per Matera 2019 ritenuta troppo aperta all’esterno, ci sono i settori culturalmente più conservatori, e ci sono ovviamente quelli che hanno inteso punire il Pd in generale (come tra l’altro già accaduto a Potenza), e Adduce in particolare.
Ma ci sono anche i figli e i nipoti, forse, di quella che Ajello aveva definito una “società urbana di serie b”. Cioè, una parte di città che tira avanti nel grigiore e nella solitudine dei rioni periferici, che vive con somma incertezza la crisi economica e la ridefinizione del distretto del divano (che ha proprio qui uno dei suoi epicentri) o che non riesce a intravedere alcun ingresso nel pubblico impiego.
Il turismo è la forma più potente di mediazione tra presente e passato rimasta sul campo
Questa parte di città, continua Di Consoli, è lontana anni luce da quella Matera “modernista” fatta di intellettuali, professionisti, studenti, giovani che ritornano in città aprendo una startup.
Di mezzo tra le due città, si assiste a un assottigliamento, o quantomeno a un rimescolamento, di quel ceto medio cresciuto nell’impiego statale e figlio per certi versi, come in molte parti del sud, della spesa pubblica.
Provo a seguire il paradigma delle “due Matere”, ma mi rendo conto di quanto il confine tra le due anime della città appaia in realtà mobile, incerto, difficile da cogliere. Alle spalle di questa complessità di posizioni c’è però, ancora una volta, mi pare, il rapporto di Matera con i suoi strati storici precedenti. E, in particolare, il rapporto con l’onda lunga del turismo, quale forma più potente di mediazione tra presente e passato rimasta sul campo.
Di Consoli è l’autore di un documentario prodotto da Clipper Media in collaborazione con Rai Cinema, Mater Matera, che uscirà a novembre. Quando lo incontro in uno dei pomeriggi più torridi dell’estate, torna sull’argomento più con più precisione:
Il realismo mi fa dire che Matera crescerà grazie al turismo e al benessere che ne deriverà. D’altra però scorgo altre tracce. Ho l’impressione di assistere alla morte di una città che era al centro di una grande civiltà, di una grande cultura e di una grande mitologia nella quale sono nato e cresciuto, quella contadina, una cultura che ha permesso a grandi scrittori, giornalisti e registi di ambientarvi o realizzarvi opere importanti. Matera è una città chiave per capire il Mezzogiorno e il suo futuro. Insomma, di cosa parliamo quando parliamo di turismo? La fruizione turistica della città è molto veloce, molto rapida, e questo di per sé non è un male, ma io mi chiedo: la gente, osservando per tre ore Matera, che tipo di appagamento trova?
Per questo, ribadisce Di Consoli, la città scegliendo De Ruggieri ha fatto “una scelta curiosa”. Adduce rappresentava forse meglio la città emergente, all’interno della quale sta nascendo una figura modernissima di “nuovo intellettuale” in linea con con ciò che avviene in qualsiasi città europea: trentenni che girano il mondo, progettano siti e startup, aprono bed and breakfast e parlano di crowdfunding per sostenere iniziative culturali. “Ma poi, ripeto, c’è anche l’altra Matera, quella che vive in rioni desolati come San Giacomo o Agnia. E quella che delle cose che piacciono ai trentenni non sa che farsene.”
Per Franco Vitelli, curatore dell’opera poetica di Rocco Scotellaro per Mondadori, e in passato animatore del Centro Levi, il cuore del problema è un altro: la città non riesce ad accettare “la propria fragilità”.
C’è stato un tempo, dice Vitelli, “più o meno dieci o quindici anni fa”, in cui era possibile gettare le basi per un maggiore equilibrio tra ripopolamento abitativo dei Sassi e nuovi flussi turistici, tra rapporto con il passato e ideazione di un nuovo futuro. “Purtroppo le cose sono andate in un’altra direzione. Certo, ci sono stati dei restauri fatti bene, ma la domanda principale rimane quella di sempre: come sarà utilizzato questo enorme patrimonio storico, culturale e artistico? Ho il timore che sarà lasciato semplicemente al consumo e al turismo più invasivo. Penso che la nuova giunta non avrà la forza culturale di mettere un freno a quel tipo di sviluppo e, allo stesso tempo, non riuscirà ad arrestare l’ondata di provincialismo di cui si è servita per vincere le elezioni”.
Nell’elenco di Vitelli delle cose che oggi mancano, e che contraddistinguono quella che definisce la “fragilità materana”, manca una rivista come Basilicata, fucina di idee, analisi, inchieste, animata per decenni da Leonardo Sacco. “In realtà”, prosegue, “la Matera che ha avuto una tradizione culturale era quella degli anni cinquanta, ma poi nessuno si è accorto che Matera ha perso il ruolo che aveva”.
Ancora due parole su Levi
Torno a vedere le foto di Mario Carbone a palazzo Lanfranchi. In un pugno di scatti, Carlo Levi che si aggira sorridente tra i Sassi, seguito, come fosse un dio omerico, da una coda di persone.
Oggi in Lucania, mi ha fatto notare Di Consoli, ha preso piede una certa avversione contro il Cristo e gli scritti leviani, come se Levi avesse inchiodato per sempre la Lucania a una dimensione preistorica, diventandone un denigratore sistematico. Pertanto “superare il levismo” è diventato una sorta di grido di battaglia sotterraneo, che alimenta idee e considerazioni diametralmente opposte a quelle contenute, per esempio, nell’intervento di Bassani sui Sassi.
Ma in fondo, penso, in questo non c’è niente di nuovo. È da quando il Cristo è uscito che una parte della società lucana (esattamente quelli che Levi aveva definito “luigini”) vede nel romanzo un libro falsificatore e oltraggioso.
Come racconta Giovanni Russo in Lettera a Carlo Levi (Editori riuniti 2001), questo avvenne già durante la campagna elettorale per la costituente nel 1946, quando Levi tornò in Basilicata per candidarsi nelle file di una lista di azionisti e repubblicani meridionali. Anche allora, per i notabili dei paesi della regione, Levi, colui che probabilmente aveva scritto il più grande atto d’amore nei confronti del mondo dei cafoni, era considerato alla stregua di un “provocatore” e i suoi comizi andavano pertanto osteggiati. Lungo un’altra linea di demarcazione, c’erano sempre due Lucanie.
Non è allora il fiume limaccioso dell’antilevismo la novità. Il punto piuttosto è capire come, nei prossimi anni – quelli che porteranno a Matera 2019 – la città elaborerà nuovamente il rapporto con gli strati del suo passato e con le letture che ne sono state date.
Più precisamente: che ne sarà del dossier grazie al quale Matera ha ottenuto lo status di capitale della cultura 2019? In teoria, se non fossero realizzati i progetti previsti, la mole dei finanziamenti non dovrebbe essere più assegnata.
In pratica, la nuova giunta comunale dovrà rivedere il suo piano per attuare la programmazione culturale e realizzare le opere necessarie. E allora sarà interessante vedere come reagiranno davanti ai primi passi tutti gli attori in campo: la classe politica di vario ordine e grado, i ceti emergenti e il popolo dei rioni, gli operatori culturali, i giovani che partono e quelli che tornano, i vecchi e i nuovi intellettuali. Chi nei Sassi ci ha vissuto, chi ci passa solo due ore, chi vorrebbe costruire qualcosa tra i suoi vicoli.
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