Nel 1995 usciva per Mondadori Il quinto passo è l’addio, di Sergio Atzeni. Io avevo 16 anni, andavo a scuola al liceo classico Siotto Pintor, a Cagliari, e i pomeriggi li passavo, in paese, a leggere folle e disperatissimamente, romanzi su romanzi: classici e contemporanei, stranieri e italiani. Dei sardi avevo letto: Grazia Deledda, Salvatore Satta, Giuseppe Dessì, Gavino Ledda. I vivi non li conoscevo, anche se già pubblicavano, in quegli anni, Salvatore Mannuzzu e Giulio Angioni.
La Sardegna era quella dei nonni, dei bisnonni, delle infanzie dei genitori: arcaica e immobile. Cagliari non c’era, non c’erano le periferie, i paesi del Campidano; e non c’era l’oggi, non c’erano le nostre giovinezze.
Cagliari era finalmente così bella da entrare in un libro
La narrazione di Il quinto passo è l’addio dura le dodici ore di un viaggio in nave da Cagliari a Civitavecchia; i pensieri del protagonista, Ruggero Gunale, i dialoghi con le persone che incontra, i sogni e i deliri, ci raccontano la sua storia e quella di Cagliari tra la fine degli anni settanta e i primi novanta.
La musica da ascoltare nei locali, da mandare in un programma radio; i muri del Lido, al Poetto, che separavano le adolescenze dei borghesi da quelle dei gaggi dei quartieri popolari, o piccolo borghesi. Una soffitta in cui coltivare e fumare marijuana, solitudine e tamburi. L’eroina sciolta nel fiume a Santa Lucia, quella di cui si fa la ragazza più bella della spiaggia. Atzeni mischia all’italiano il dialetto cagliaritano, mischia i registri, unendo il comico e il poetico, il tragico e il grottesco.
Cagliari era finalmente così bella da entrare in un libro, la sua lingua, la sua predisposizione all’ironia, i suoi abitanti, meritavano di essere narrati. Atzeni era Tondelli e Ammaniti, era John Fante e Irvine Welsh. L’isola era viva, pulsava, come il resto del mondo.
Sergio Atzeni era nato a Capoterra nel 1952, era cresciuto a Cagliari, prima nel quartiere di Is Mirrionis e poi in quello di Stampace. Aveva studiato, anche lui, al liceo classico Siotto poi si era iscritto a lettere e filosofia, senza laurearsi. Faceva politica, ascoltava molta musica, scriveva e partecipava alla vita intellettuale cittadina, aveva trovato lavoro all’Enel, si era sposato, era nata sua figlia. Sellerio aveva pubblicato il suo romanzo d’esordio, Apologo del giudice bandito (1986), che racconta di un processo alle locuste che avevano invaso l’isola nel 1492.
Danzatori delle stelle
Quindi, come Ruggero Gunale, aveva lasciato l’isola, si era trasferito a Torino dove aveva provato a vivere di scrittura e traduzione. In quegli anni era uscito, sempre per Sellerio, Il figlio di Bakunìn (1991), ambientato a Carbonia negli anni del fascismo e, per Mondadori, nel gennaio del 1995, Il quinto passo è l’addio.
Poco dopo la sua morte Mondadori ha pubblicato l’ultimo manoscritto che Atzeni aveva mandato al suo editor Antonio Franchini: Passavamo sulla terra leggeri, storia della Sardegna dai primi uomini che l’hanno abitata fino al momento in cui “i sardi riconoscevano il dominio straniero”, cioè fino a quando l’isola passa alla corona di Aragona, considerato “il giorno della perdita della libertà sulla nostra terra”.
C’è anche il passato, dunque, nei suoi romanzi: un passato romanzato, con il baricentro nella parte sudoccidentale dell’isola e l’attenzione rivolta agli ultimi, ai vinti, agli incroci e ai miscugli.
Passavamo sulla terra leggeri racconta la storia dell’isola dei “s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle”. La storia dell’isola in cui vivevamo, che, in quegli anni, sembrava molto lontana dal mondo, dalla storia e dalle storie importanti. Atzeni svelava le tracce di un passato lontano di cui sapevamo poco o molto poco, fortificava il mito, lo allargava e lo rovesciava, era Amado e Márquez, Faulkner e Gordimer.
Credo che la Sardegna vada raccontata tutta. Finora la zona maggiormente descritta nelle opere letterarie è la Barbagia, e si capisce perché: lì gli uomini sono più alti di quelli del sud, sono più forti, sparano. Insomma, c’è qualche differenza. Nuoro è l’Atene della Sardegna, a Nuoro nasce solo gente intelligente, mentre a Cagliari nascono più bassi e un po’ più scemi, è una città torpida che ama soprattutto mangiar bene. Però io credo che sia importante raccontare anche Cagliari, anche Guspini, Arbus, Carbonia; se avrò vita cercherò di raccontare tutti i paesi, uno per uno, e tutte le persone, una per una. Non credo che avrò vita per fare questo, ma cercherò di farlo perché tutto merita di essere narrato. Credo che le vite di tutti gli uomini meritino di essere in qualche modo ricordate, trasmesse. Questo è il compito che si devono assumere gli scrittori piccoli; gli scrittori grandi creano le grandi metafore, i capolavori; gli scrittori piccoli hanno il compito molto più modesto di raccontare, così come sono capaci, le persone che hanno conosciuto”. (Il mestiere dello scrittore)
Atzeni è morto in quello stesso 1995; era il 6 settembre, mancavano pochi giorni ancora e i giorni d’estate in Sardegna sarebbero finiti, sarebbe tornato a Torino. La immagino calda e grigia, quella giornata, il vento forte, esattamente come questa.
Immagino lui nel mezzo di questa stessa mia inquietudine all’idea di ripartire, pensando alla vita divisa, che non è più altrove, né qui, ma ovunque. Il mare era mosso, un’onda più alta delle altre, più grande e forte, l’ha inghiottito, più indietro stavano gli amici, la donna che amava. Era sull’isola di San Pietro, a sudovest dell’isola di Sardegna.
Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro”. (Passavamo sulla terra leggeri)
Stefano Giovanardi, nella prefazione all’edizione della Illisso, del 2001, racconta un incontro avvenuto a un premio letterario: “Mi colpì molto che non facesse nulla per dissimulare il suo sentirsi fuori posto, e se ne stesse anzi quasi sempre in disparte, silenzioso e a occhi bassi, salvo ogni tanto alzarli a guardarsi intorno come per una muta richiesta di aiuto”.
Uno “scrittore piccolo” che “ha storie da raccontare, e sa come raccontarle” (Antonio Franchini), che dava molta importanza alla creazione stilistica, alla ricerca di una lingua, fatta di molte lingue, all’ironia, all’alternanza di registri, dal comico al tragico, dal poetico al grottesco.
Si definiva “sardo, italiano, europeo”, mischiava le lingue come in quegli anni ancora in Italia non si usava e come già invece facevano gli scrittori postcoloniali, cioè quelli che scrivevano in contesti linguistici segnati dalla compresenza di una lingua locale e di una lingua imparata da un altro popolo che aveva dominato la loro terra. Come Patrick Chamoiseau, creolo delle isole caraibiche, che Atzeni traduceva.
Da tutte le sue storie emerge l’immagine, inedita e rivoluzionaria, di una Sardegna meticcia, lontana da ogni idea di purezza identitaria e linguistica, in cui il mare è frontiera che crea incontri e non confine che separa, che isola.
Dimenticavamo le distanza fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo sulla terra leggeri)
Uno scrittore che non ha avuto il tempo di raccontare tutti i paesi, né di sapere quanto sono stati amati i suoi libri, quanti lettori lo considerano uno scrittore fondamentale. Il successo, il riconoscimento, sono arrivati, come capita, soprattutto dopo la morte. Sono arrivati scritti inediti, come Bellas mariposas, piccolo gioiello di narrazione e sperimentazione linguistica, in cui torna protagonista Cagliari. Sono arrivati gli studi, i convegni, le celebrazioni, i film tratti dai suoi romanzi (Il figlio di Bakunìn, di Gianfranco Cabiddu, e Bellas Mariposas, di Salvatore Mereu).
E dopo di lui sono arrivati gli altri: gli scrittori sardi. Nel 1992 era nata a Nuoro la casa editrice Il Maestrale che, oltre a ripubblicare le opere di Atzeni uscite per Mondadori, le sue poesie e i suoi racconti, nel decennio tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila crea un forte nucleo di lettori pubblicando un gruppo di esordienti e non, a partire dai quali si inizierà, in tutta Italia, a parlare di nouvelle vague sarda, o rinascimento sardo: Giulio Angioni, Maria Giacobbe, Salvatore Niffoi, Marcello Fois, Paolo Maccioni, Flavio Soriga, Luciano Marrocu, Francesco Abate, Aldo Tanchis, Giorgio Todde.
Pubblica anche, nel 1999, il capolavoro di Salvatore Cambosu Miele amaro, del 1954: una meravigliosa miscellanea di scritti antropologici, storici, poetici e narrativi sulla Sardegna. Negli anni successivi arrivano anche Milena Agus, Michela Murgia, Alberto Capitta, Nicola Lecca, Alessandro De Roma, Bruno Tognolini, e ancora altri.
In alcuni dei loro romanzi l’eredità di Atzeni è forte ed evidente, in altri meno o molto meno, ma in tutti quanti c’è dentro Atzeni, non potrebbe non esserci Atzeni.
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