L’ultimo romanzo di Domenico Starnone, Lacci, è almeno un paio di cose.
È un libro fortunato – uscito già da qualche mese per Einaudi, continua a vendere un migliaio di copie a settimana (Starnone è tornato a essere un autore popolare dopo un paio di libri altrettanto belli ma molto meno venduti, Spavento e Autobiografia erotica di Aristide Gambia, sempre Einaudi – e adesso è ospitato da Fabio Fazio e intervistato da giornaliste che lo ammorbano con domande moleste tipo: ma sei tu Elena Ferrante, sei il marito di Elena Ferrante?).
Ed è, soprattutto, un breve manuale di scrittura: la sintesi magistrale della tecnica narrativa e stilistica di Starnone.
La storia di Lacci è semplice – se fossimo a Hollywood negli anni cinquanta la chiameremmo una commedia del rimatrimonio – e invece si tratta di una tragicommedia del rimatrimonio.
Negli anni settanta a Napoli Aldo lascia Vanda e i due figli piccoli, Sandro e Anna, e si mette con Lidia (19 anni, bellissima). Vanda impazzisce di rabbia; ma dopo quattro anni lui, incerto, titubante, torna da lei, e decidono di invecchiare insieme. Ma è la terza parte che reinscrive in maniera più profonda il senso della storia.
Dico terza parte perché la struttura di Lacci è un’impalcatura triadica. La prima parte consiste nelle lettere di Vanda, acrimoniose, caustiche, e via via più arrendevoli: quelle che lei scrive al momento dell’abbandono di Aldo. La seconda e la terza si svolgono quarant’anni dopo: prima è la voce narrante di Aldo a ricostruire la crisi di allora e a raccontare come nel tempo è invecchiato il loro matrimonio, tra apparenti tenerezze, affetto, indolenza ma anche molte e ostentate recriminazioni; infine è la figlia minore, Anna – ora una donna – a replicare da un punto di vista polare tutta la storia di coppia che abbiamo appena ascoltato dalla voce dei protagonisti.
Come in una proiezione ortogonale, i tre assi x, y, z (Vanda, Aldo, Anna) disegnano una figura imprevedibile e dolorosa che è quella di una famiglia lungo un arco di quarant’anni. È rimasta unita, i genitori sono arrivati alla pensione e i ragazzi hanno un buon lavoro, ma c’è qualcosa che è rimasto imbrigliato in un gliommero irrisolto, addirittura risalente al 1978, anno di un altro Aldo.
Tutta questa metafora della storia d’Italia è presente nel libro di Starnone?
No, perché la maestria di Starnone è giocata sull’ellissi: sul suo dire tantissimo dandoci invece l’impressione di togliere informazione. L’incipit di Lacci è un colpo di stile:
Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni di dire: vedete, mi sono sposato l’11 ottobre del 1962, a ventidue anni; vedete, ho detto sí davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non dovevo mettere riparo a niente; vedete, ho delle responsabilità, e se non capite cosa significa avere delle responsabilità siete gente meschina. Lo so, lo so benissimo. Ma che tu lo voglia o no il dato di fatto è questo: io sono tua moglie e tu sei mio marito, siamo sposati da dodici anni – dodici anni a ottobre – e abbiamo due figli, Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Ti devo mostrare i documenti per farti ragionare?.
È l’inizio della prima di nove lettere di Vanda; e in poche righe c’è presentato già tutto: il contesto, le dramatis personae, la tensione portata al limite della relazione, il conflitto valoriale tra la società pre-liberazione sessuale e quella post-liberazione sessuale.
Le lettere che seguono tracceranno (più che tessere di un puzzle, i puntini da unire per ricomporre una forma) l’evoluzione narrativa, relazionale ed emotiva dell’abbandono. Ma Starnone sa che può fare di più, e difatti già soltanto considerando gli incipit possiamo riconoscere l’intensa trama di questa fine di una storia.
Eccoli.
“A leggere quello che scrivi, pare che sarei io il carnefice e tu la vittima. Questo non lo sopporto”.
“Ho visto Lidia. È molto giovane, è bella, è ben educata. Mi è stata a sentire molto più attentamente di te. E ha detto una cosa molto giusta: devi parlare con lui, io col vostro rapporto non c’entro”.
“Ora mi è tutto chiaro. Hai deciso di tirarti fuori, di abbandonarci al nostro destino. Desideri una vita tua, per noi non c’è spazio. Desideri andare dove ti pare, vedere chi ti pare, realizzarti come ti pare”.
“Spero che adesso ti sia chiaro perché la fine del nostro rapporto comporta la fine del rapporto con Sandro e Anna”.
“Mi fai l’esempio della scalinata. Hai presente – dici – quando si fanno le scale? I piedi vanno uno dietro l’altro così come abbiamo imparato da bambini. Ma la gioia dei primi passi si è persa”.
“Finalmente hai fatto un gesto inequivocabile. Non hai battuto ciglio di fronte al provvedimento del giudice, non hai mosso un dito per rivendicare la tua tanto invocata funzione paterna. Hai accettato che mi occupassi io dei bambini”.
“Mi sono ammazzata. Lo so che dovrei scrivere ho tentato di ammazzarmi, ma è inesatto. Io nella sostanza sono morta. Pensi che l’abbia scritto per costringerti a tornare?”.
“Rispondo alle domande che mi poni. Negli ultimi anni ho sempre lavorato, con diverse mansioni e in genere per quattro soldi, sia nel pubblico che nel privato. Solo da poco ho un lavoro stabile”.
Non è magistrale questa serie? Come riassumere una relazione e la sua frantumazione? Come rendere l’indiscutibilità di un dolore se non attraverso la forza percussiva di una vendetta a parole (“Anna ti ha disegnato un suo sogno di morte e te l’ha spiegato punto per punto”), se non con una violenta mancanza di pudore (frasi secche: “Ho paura”, “Tu ti servi delle persone”)? Cosa c’è di veramente essenziale nell’implosione dei sentimenti di una persona ferita?
Starnone ci cattura utilizzando il meccanismo di un brevissimo racconto epistolare a una sola voce: illuminare moltissimo certe zone aiuta a capire quanto siano vasti i luoghi rimasti in ombra. Cosa dicevano le lettere di Aldo a cui lei risponde così piccata? Cosa è successo tra una lettera e l’altra? A cosa si riferisce Vanda quando respinge le accuse o vuole chiarimenti (“Non mi sono mai accorta di questa cosa del filo spinato, degli ingranaggi e delle altre scocchezze che hai detto”).
Al lettore è lasciata una magnifica libertà di tendere i fili immaginari – in qualche caso è preso per mano (la nona lettera è scritta a quattro anni di distanza dalle altre: “Ritieni che ormai, essendo passati quattro anni, sia possibile affrontare il problema con serenità. Ma cosa c’è ancora da affrontare?”).
Vanda e Aldo dopo venti pagine sono diventati due persone della nostra famiglia.
Nella seconda parte (che è la parte più corposa del libro, ed è suddivisa a sua volta in tre capitoli), il cambio del punto di vista narrativo – ora è Aldo a raccontare – in realtà è soprattutto un cambio di ritmo, come è evidente dalle prime parole che Aldo pronuncia: “Andiamo con ordine”.
Questo ordine ovviamente è solo presunto: la sua idiosincrasia è piuttosto un tentativo di giustificare il suo approccio alla vita. “Una svogliatezza perplessa” (pagina 26), così definisce un suo gesto; “Mi destreggiavo senza voglia” (pagina 32) è il modo in cui affronta il casino di una giornata qualunque; “Io stesso mi sono stupito del mio ottimismo, sentimento per il quale non ho nessuna vocazione” (pagina 34).
Certo che quest’atteggiamento non è solo un vezzo, ma lo specchio trasparente di un habitus.
Sono gli eventi più che le scelte ad aver definito il corso dell’esistenza di Aldo: sia negli episodi marginali sia in quelle decisioni che nel passato hanno condizionato i destini di tutta la sua famiglia.
Il capitolo secondo della seconda parte rimette in scena gli anni del tradimento e dall’abbandono, quelli dal 1974 al 1978 che abbiamo appena letto negli strali epistolari di Vanda. Andiamo con ordine, ma con indolenza, seguendo il racconto di Aldo:
Non so che cosa avessi in mente, forse niente di preciso. Di sicuro non detestavo mia moglie, non avevo accumulato rancori nei suoi confronti, le volevo bene. Mi era sembrato piacevolmente avventuroso sposarmi ancora ragazzo, senza aver finito gli studi, senza un lavoro.
Uno zeitgeist però si è messo a soffiare su questa vita che di suo sarebbe stata abbastanza identica alle sue premesse.
Adesso ogni cosa intorno pareva investita dal declino, una peste si stava manifestando in tutte le istituzioni, l’università innanzitutto, dove avevo cominciato a lavorare senza prospettive. Essere sposato, avere una propria famiglia in giovanissima età, era diventato non un segno di autonomia, ma di arretratezza. A meno di trent’anni mi sentivo vecchio, e parte – mio malgrado – di un mondo, di uno stile, che nell’ambiente politico e culturale cui aderivo veniva considerato alla fine. Sicché presto, anche se avevo un rapporto forte con mia moglie e i due bambini, avevo subito il fascino di modi di vita che programmaticamente recidevano tutti i legami tradizionali. Una volta, con la scusa che l’anulare si era ingrossato, andai a farmi segare la fede. Vanda ci restò male, aspettò che facessi qualcosa per rimettermi l’anello. Non feci nulla. Lei seguitò a portare la fede.
È probabile che la relazione con Lidia – lei si era appena iscritta ad Economia e commercio secondo la moda dell’epoca, io ero un assistente senza futuro di Grammatica greca – sia stata incoraggiata da quel clima, se ne sia nutrita. Di sicuro rinunciare a lei per non far torto a mia moglie e ai miei figli mi dovette sembrare una sorta di anacronismo.
Non c’è una colpa né una redenzione né un’agnizione né una sintesi nel bilancio che l’Aldo settantenne fa dell’Aldo trentenne. Quasi hegelianamente convinto che siamo solo figure dell’epoca in cui viviamo, il suo racconto è terribile e malinconico perché la felicità o la ferocia sembrano quelle di un animale che invece di seguire l’urgenza del suo istinto si accoda alla necessità dei nuovi tempi, emotivi, ideali, e perfino linguistici.
Innamorarsi, in quel periodo, era diventato un concetto un po’ ridicolo, pareva un residuo ottocentesco, segnalava una pericolosa tendenza ad agglutinarsi che, nel caso fosse insorta, andava immediatamente combattuta per non generare angoscia nel partner. Stare con un’altra, invece, assumeva sempre piú una sua legittimità, sposato o no che si fosse. Io ero stato con un’altra, io stavo con un’altra, io sto con un’altra erano frasi che esprimevano una libertà, non una colpa.
Così conclude Aldo, e le sue parole sembrano proprio quelle del suo burattinaio Starnone, che alla questione – il cambio di paradigma nell’educazione sentimentale per i ragazzi nel dopoguerra – ha dedicato, quasi ossessivamente, gli ultimi romanzi e tanti interventi pubblici. In questo senso Lacci è quasi una scena madre dell’opera complessiva di Starnone, che somiglia, anche nei toni di contrasto, alla funzione che Chesil Beach e La vedova incinta hanno avuto per scrittori come Ian McEwan e Martin Amis. Qualcosa è cambiato lì, irrimediabilmente, e Starnone è il primo scrittore della sua generazione che torna su quel luogo del delitto.
E insomma, Aldo: è colpevole o innocente? È stato uno stronzo fedifrago o ha seguito il suo desiderio come ognuno nella sua vita dovrebbe? Ha fatto bene a tornare nell’alveo famigliare, o questa è stata una scelta di comodo? E, politicamente, il suo comportamento ce lo fa somigliare a un ipocrita cattocomunista frustrato o a un protoberlusconiano?
Starnone lo ritrae come una specie bifronte, vittima e carnefice. L’autoindulgenza del narratore è talmente ampia che ci conduce a un doppio movimento: da un lato a capire quanto il perdono può combaciare con l’indifferenza, e dall’altra a interrogarci se per caso anche noi non sappiamo cogliere le nostre colpe e le responsabilità, così immerse nella lingua emotiva della nostra epoca. Noi non scegliamo, siamo scelti; non parliamo, siamo parlati.
E se Aldo si presenta come quello che finalmente mette ordine in una storia che affonda le radici quarant’anni prima, in realtà non fa altro che riempire le omissioni di altre omissioni (nb: se dovessi dare una definizione di letteratura, darei questa). Il nostro sguardo è sempre parziale, la nostra storia è sempre anche quella di qualcun altro. E perfino le epifanie si possono guardare da angolazioni diverse che danno forma a rifrazioni anche opposte.
Ci sono due scene magistrali in Lacci.
Una è quella che dà il titolo al libro, l’altra racconta un incontro sconvolgente.
Nella prima i due figli rivedono il padre per la prima volta dopo la separazione. Hanno tredici e nove anni, e sono impacciati anche se non quanto il padre. A un tratto, Anna fa ad Aldo una domanda: “È vero che gli hai insegnato tu ad allacciarsi le scarpe?”.
E Aldo reagisce: “Mi imbarazzai. Avevo insegnato a Sandro ad allacciarsi le scarpe? Non me lo ricordavo. E a quel punto, senza una ragione immediata, non mi meravigliai piú che mi fossero estranei, il senso di estraneità era implicito nel nostro rapporto originario. Finché ero vissuto con loro ero stato un padre distratto che per riconoscerli non sentiva il bisogno di conoscerli. Ora che per fare buona figura volevo assorbire tutto di loro, li guardavo con un’attenzione eccessiva – come degli estranei appunto – divorando dettagli per la smania di saperne tutto in pochi minuti. Risposi mentendo: sí, credo di sí, gli ho insegnato tante cose, a Sandro, forse anche ad allacciarsi le scarpe. E Sandro borbottò: nessuno si allaccia le scarpe come me le allaccio io. Mentre Anna mi disse: se le allaccia in un modo ridicolo, non ci credo che anche tu te le allacci cosí”.
La seconda è un ricordo di Anna di quando la madre portò lei e il fratello piccoli a spiare a Roma la nuova fidanzata di papà:
Eravamo venuti apposta da Napoli. Ci sentivamo dentro un grigiore terrorizzato e aspettavamo proprio lei. Mamma ce lo spiegò: aspettiamo, disse, che esca da quel portone insieme a papà. E infatti, quando nostro padre e questa ragazza uscirono – com’erano belli insieme, luccicavano –, mamma ci disse: ecco, vedete com’è contento papà, quella è Lidia, la donna per cui ci ha lasciati. Lidia: il nome mi sembra tuttora un morso d’animale. Quando mamma lo pronunciava, la sua disperazione diventava la nostra, ci sentivamo in tre dentro un corpo solo. Ma in quell’occasione io guardai quella ragazza attentamente e mi si ruppe intorno l’organismo unico di cui ero parte. Pensai: com’è bella, com’è colorata, da grande voglio essere identica a lei. Di quel pensiero sentii subito la colpa, la sento ancora, è una vita che la sento. Mi resi conto che non volevo più assomigliare a mia madre e che perciò la stavo tradendo. Se avessi avuto il coraggio, avrei gridato volentieri: papà, Lidia, voglio venire a passeggio con voi, non voglio stare con mamma, mi spaventa.
Mentre rileggevo queste scene, e ripensavo anche all’articolo di Annalena Benini, avevo un groppo in gola. Perché, attraverso questa mappa di omissis, il paradosso morale che illumina Starnone è duplice: non è solo quello tra i nostri desideri e la nostra di volontà di fare il bene, ma anche tra le nostre intenzioni e le conseguenze delle nostre azioni.
Ed è per questo che Lacci non è solo un libro sull’amore, la coppia, i sentimenti che svaniscono, i rimpianti, l’Italia ferita che si specchia nelle nostre delusioni; ma – come scrive in una bellissima recensione Daniela Brogi – “un’opera che allestisce, attraverso se stessa, gli autoscenari di irrealizzazione di sé”.
Tutto quello che non siamo stati e avremmo desiderato essere, ma anche tutto ciò che siamo stati senza esserne consapevoli. Quella strana sensazione di essere stati allacciati alla vita senza che nemmeno ce ne fossimo accorti.
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