Ha senso, nel ventunesimo secolo, avere nostalgia di un impero, anche se costituzionale, come quello austroungarico? È possibile rimpiangere il crollo di uno stato multietnico, la Jugoslavia, che di certo non fu democratico? E, più in generale, è pensabile dare una valutazione positiva di organismi statuali che per decenni abbiamo considerato come “prigioni di popoli”, in cui le specificità e i diritti nazionali erano calpestati?

Domande come queste fino a qualche anno fa sarebbero state quantomeno oziose, se non esplicitamente provocatorie. Ma alcuni spunti della cronaca internazionale – per esempio la manifestazione per l’indipendenza polacca trasformata in una marcia di fascisti e razzisti, la condanna del capo militare serbobosniaco Ratko Mladić al tribunale dell’Aja – e soprattutto la tendenza allarmante a considerare l’identità etnolinguistica o religiosa come la base della convivenza all’interno degli stati, le hanno rese improvvisamente attuali e meritevoli di una riflessione.

L’Unione europea e l’Austria-Ungheria sembrano avere qualche tratto in comune

La jugonostalgia e le fantasie kitsch sulla bellezza della principessa Sissi qui non c’entrano. Si tratta, invece, di interrogarsi su quale sia il sistema migliore per garantire, oltre allo sviluppo economico di un territorio, la libertà e la tutela dei diritti delle minoranze e una società aperta e plurale.

Come racconta sulla rivista austriaca Transit lo storico britannico Steven Beller, dal punto di vista storiografico negli anni ottanta si è diffusa ed è stata gradualmente accettata una lettura della storia imperiale, inizialmente considerata revisionista, secondo cui l’Austria-Ungheria ha offerto pace e prosperità a tutte le nazioni dell’Europa centrale, facilitando lo sviluppo politico e culturale dei piccoli gruppi nazionali. “In un’epoca democratica e antimperialista, sembra assurdo tessere le lodi di un impero”, scrive Beller, “ma l’Austria-Ungheria, almeno negli ultimi anni della sua esistenza, non era in nessun modo paragonabile agli imperi coloniali che ci vengono in mente quando pensiamo alla storia dell’ottocento”.

Il parallelo più appropriato è invece un altro, e molto più utile anche ai fini di una riflessione sull’oggi: quello con l’Unione europea. Dopo il compromesso del 1867 e la spaccatura tra il regno di Ungheria e la Cisleitania, continua Beller, “l’impero austroungarico assunse la forma di una struttura composta da due monarchie con stato di diritto e governo costituzionale, entrambe parte di una vasta zona di libero scambio, con una moneta comune e regole fiscali ed economiche condivise, da rinegoziare una volta ogni dieci anni”.

Dal punto di vista sociale, nelle aree sotto il controllo di Vienna questa struttura rese possibile l’esistenza di “identità ibride e composite” e creò uno spazio pubblico “in cui la limitatezza delle categorie nazionali poteva essere superata”. Il fermento culturale dell’Europa centrale di inizio novecento è anche figlio di questa situazione.

Nei loro punti di forza (prosperità diffusa, creazione di un’area di libera circolazione di persone e beni, capacità di risolvere i problemi grazie al negoziato e al compromesso) e nelle loro debolezze (accuse di scarsa democrazia, tendenza a scaricare la responsabilità dei problemi sul centro, Vienna o Bruxelles) l’Unione europea e l’Austria-Ungheria sembrano avere qualche tratto in comune. E non è un caso che la riscoperta dell’eredità positiva dell’impero abbia accompagnato nei paesi ex comunisti dell’Europa centrale il percorso di adesione all’Unione. Oggi, tuttavia, con l’avanzata del nazionalismo, in questi paesi il consenso intorno al progetto europeo vacilla, mettendo a rischio l’esistenza stessa di un’entità sovranazionale che, per quanto criticabile e imperfetta, è uno spazio fondamentale per tutelare diritti e libertà al di fuori dei singoli confini nazionali.

Gli slavi del sud
Per la Jugoslavia il discorso è necessariamente diverso, tanto più che il primo stato unitario degli slavi del sud (il Regno dei serbi, croati e sloveni) era nato proprio dalla dissoluzione dell’impero austroungarico, grazie alle lotte di chi voleva liberarsi dal giogo asburgico.

Eppure, se si ripensa alle atrocità commesse nelle guerre degli anni novanta, tornate di attualità in questi giorni per la condanna all’ergastolo inflitta a Mladić, è difficile negare che la dissoluzione della Jugoslavia multietnica e multiconfessionale abbia prodotto più tragedie che benefici. Il che ovviamente non vuol dire che quel paese non avesse problemi, anche molto seri e complicati.

Ma proviamo per un attimo a immaginare cosa sarebbe successo se nel 1991 la Comunità europea avesse offerto alla Jugoslavia unitaria la prospettiva di una rapida adesione alle prime avvisaglie di tensione. Non ci sarebbero state guerre, nessuna carneficina, il paese sarebbe rimasto unito, avrebbe avviato un processo di modernizzazione economica e istituzionale e si sarebbe affermato come protagonista di primo piano della nuova Europa. E in più sarebbe anche diventato una superpotenza sportiva.

È solo un esercizio di storia controfattuale, per di più parecchio controcorrente, considerato che oggi va di moda considerare prematuri perfino gli allargamenti dell’Unione europea a est del 2004 e del 2007. Ma qualche politologo ci si è cimentato. E immaginare che gli eventi avrebbero potuto prendere una piega diversa se l’Europa avesse fatto altre scelte ci può senz’altro insegnare qualcosa sulle decisioni che dovremo prendere in futuro.

Qualche anno fa, a Zagabria, un ex redattore del settimanale Feral Tribune, tra i pochi giornali critici nella Croazia postindipendenza, mi disse che il nazionalismo croato e quello serbo erano come i due ubriachi della barzelletta, che si appoggiano l’uno sull’altro per non crollare a terra. Quel paragone regge ancora. Al di là degli atteggiamenti più o meno sciovinisti di partiti, governi e leader politici, le brutalità dei conflitti degli anni novanta non hanno comunque cancellato i rapporti profondi – economici, culturali, familiari – tra le persone e i popoli dei Balcani.

Il giornalista dell’Economist Tim Judah ha coniato il termine Jugosfera, altri si sono limitati a parlare di inevitabili contatti economici, ma è evidente che i paesi dell’ex Jugoslavia sono ancora uniti da legami e intrecci che sono sopravvissuti ai nuovi confini tracciati vent’anni fa.

Nazioni e globalizzazione
La domanda che a questo punto diventa inevitabile è se lo stato-nazione oggi abbia ancora senso. Probabilmente nei prossimi mesi non assisteremo alla moltiplicazione di microstati e piccole patrie all’interno dell’Unione, come qualcuno aveva paventato dopo l’inizio della crisi catalana. Tuttavia è chiaro che lo stato-nazione, pur invocato da molti, a destra come a sinistra, è ormai svuotato di potere dalla globalizzazione e allo stesso tempo minacciato da spinte secessioniste e regionaliste.

Una risposta a questa crisi potrebbe essere la nascita di un’Europa federale e delle regioni, con le decisioni prese sempre più da organismi vicini ai cittadini. La strada è lunga e il progetto è tutto da costruire. Ma dei modelli utili e attuali possono essere rintracciati nelle esperienze multinazionali e multietniche dell’Europa del passato. Anche recuperando la storia controversa di paesi e stati che non esistono più.

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