Il palco principale è in una radura tra gli alberi. Sembra piovuto lì dallo spazio, un pezzo di scenografia di Space is the place, il film di fantascienza afrofuturista di Sun Ra. Ha forma triangolare ed è pieno di elementi verticali di alluminio che riflettono il sole che filtra tra le foglie. Sembra un incrocio tra il totem di una civiltà dimenticata e un palcoscenico da teatro elisabettiano.

Tutto intorno c’è un giardino delle delizie barocco, un luogo di svago en plein air voluto dalla famiglia Arconati sul finire del seicento. Villa Arconati si trova a Bollate, a una ventina di minuti di macchina da Milano, e tra fontane, statue di divinità silvestri, resti di giardini all’italiana ricorda, in piccolo e con un velo di sobrietà lombarda, i fasti di Versailles o di Capodimonte.

La logica del giardino barocco era quella di creare meraviglia e diletto mescolando natura e artificio. Nel verde si montavano scenografie mobili e si mettevano in scena le serenate, opere liriche in miniatura, con tanto di danzatori e mimi, pensate per essere eseguite all’aperto. A cantare erano ninfe dei boschi, personificazioni dei fiumi e divinità pagane. Si ballava fino all’alba sull’erba, si beveva tanto, si mangiava su tavoli imbanditi sui prati e si simulava, per il sollazzo di una classe colta e danarosa, un rapporto ancestrale e mitologico con la natura, tra pastorellerie, esotismi e rêverie mitologiche.

Durante i tre giorni del festival Terraforma, a Villa Arconati, abbiamo vissuto qualcosa di molto simile. Il senso di commistione tra natura e artificio, di sensuale divertimento sotto le stelle, di fantasia campestre era simile a quello di trecento anni fa.

Villa Arconati, il 23 giugno 2017. (Michela Di Savino)

Terraforma è un piccolo festival che fin dal primo momento colpisce per solidità estetica e curatoriale. Tutto quello che si vede e si sente concorre a creare un’esperienza estetica precisa: dalla forma del palco ai bar, dalle luci (poche ma suggestive) ai cestini della spazzatura. Anche i bagni chimici sono disposti in modo, tutto sommato, scenografico. Come in ogni festival musicale ci sono gli sponsor ma la loro presenza è discreta: è come se anche loro avessero capito il senso della cosa. Immagino non sia stato facile.

E poi c’è la musica. Il cartellone di Terraforma, che si presenta come “festival sostenibile di musica sperimentale”, è una tavolozza ampia e sfumata che da ambient e new age accelera verso techno e dubstep, mescolandosi con droni spirituali, elettronica analogica e improvvisazione. È un orizzonte sonoro molto ampio ma la continuità tra un set e l’altro, il senso di fluidità tra un’esperienza e l’altra, è il vero miracolo di questo piccolo festival.

A Terraforma non ci sono sovrapposizioni. Chiunque abbia frequentato il Primavera Sound di Barcellona o il tentacolare e massacrante Coachella, nel sud della California, conosce quella sensazione di frustrazione che solo i megafestival sanno dare. I cartelloni sono come dei menu all you can eat della musica dal vivo. Hai sempre la sensazione di essere nel posto sbagliato; magari dall’altra parte il concerto è meglio, possibile che per vedere X io debba perdermi Y? Catene di messaggi frenetici su WhatsApp e massacranti camminate tra un palco e l’altro. Ammesso di non essere monaci zen, perfettamente a fuoco su ciò che si vuole vedere o sentire, i megafestival rischiano di offrirti un’esperienza musicale frammentaria e incompleta, come un Daily Mix di Spotify ma dal vivo, con i cessi chimici e sempre con il ditino sul tasto next.

A Terraforma, invece, la musica è sempre lì, non sei tu che la rincorri. Non ci sono sovrapposizioni tra il palco principale, il soundsystem in mezzo al bosco e il labirinto, un suggestivo giardino all’italiana in via di restauro.
E allora non resta che sedersi, magari con una birra in mano, ad ascoltare. Sapere che non ti stai perdendo niente da un’altra parte ti dà la libertà di sentire tutto, di scendere nel dettaglio e magari di annoiarti anche un po’, che è l’ultimo grande lusso che ci rimane in un’era di iperstimolazione sensoriale.

Alle 10 di mattina del sabato, per esempio, il dj e producer romano Donato Dozzy era già sul palco principale e per un pubblico ancora mezzo addormentato ha messo insieme un set new age, che tra droni, campanellini e suoni della natura (forse quelli erano veri, chissà) ha fatto da rituale d’inizio e da risveglio dei sensi. C’era chi era sdraiato, chi dormicchiava, chi faceva yoga e chi leggeva un libro. La musica però era sempre lì che vibrava tra gli alberi.

La performance di Aurora Halal, il 23 giugno 2017. (Michela Di Savino)

C’era la sera precedente da metabolizzare: un set di GAS, ovvero Wolfgang Voigt, il fondatore dell’etichetta tedesca Kompakt, colui che disse di voler “portare la foresta sul dancefloor e viceversa”. Voigt ha dato vita, nella foresta appunto, ai suoni austeri e immersivi del suo ultimo album Narkopop, accompagnato da video di alberi e di fronde che si mescolavano in modo suggestivo e straniante con la natura vera che ci circondava.

Subito dopo sullo schermo, quasi senza soluzione di continuità, ha preso corpo Zoo, una videoinstallazione realizzata dagli studenti della Naba di Milano e dell’Accademia di belle arti di Bergamo: sette video in loop con immagini di animali e natura in movimento accompagnati da un’unica, lunga traccia audio.

Sabato è stato il giorno di Suzanne Ciani, pioniera dell’elettronica tra gli anni sessanta e settanta. Nel centro del labirinto, il giardino all’italiana concentrico di Villa Arconati, Ciani ha sistemato il Buchla, un sintetizzatore modulare ideato da Don Buchla, il suo mentore, nella San Francisco di metà anni sessanta. Un oggetto che più che uno strumento musicale sembra un manufatto della vecchia serie tv di Star Trek, tutto diodi, cavetti e spinotti colorati.

Ciani dava le spalle al pubblico e, mentre il sole tramontava sulla villa, si lanciava in una serie di variazioni e improvvisazioni su temi da lei sviluppati più di quarant’anni prima su queste macchine tanto complesse quanto poetiche. “La parola sintetizzatore non mi è mai piaciuta”, ci aveva detto qualche ora prima nel backstage, “ti dà l’idea che emetta una musica che ricrea artificialmente qualcos’altro. Il Buchla invece ha un suono suo e produce una musica del tutto nuova: è un mondo che ti si apre davanti e che non aspetta altro che di essere esplorato. D’altra parte l’elettronica è stata rovinata da quando i synth sono stati associati alle tastiere per venderli”. In effetti Ciani non suona una tastiera, interagisce con il suo strumento in vari modi, manualmente sui diodi e con un’interfaccia su iPad ideata da lei stessa. E i suoni del suo Buchla, caldi, organici e straordinariamente umani, si espandono nell’aria grazie a un sistema quadrifonico che si irradia dai quattro angoli del labirinto. Ciani è una virtuosa che con il suo prezioso strumento, ha un rapporto simile a quello che avevano i fuoriclasse del sei e settecento con i loro Amati o con i loro Stradivari.

Il dj set di Andrew Weatherall, il 25 giugno 2017. (Michela Di Savino)

L’ultima improvvisazione al Buchla è stata troncata bruscamente da un’interruzione della corrente che Ciani ha affrontato con estrema grazia. Il pezzo è finito perché doveva finire lì: il caso gioca un ruolo fondamentale nella musica elettronica e il sorriso con il quale l’artista ha accolto gli applausi del pubblico è l’espressione più bella di una cultura della sperimentazione che vede la musica come organismo vivo e in continuo sviluppo e la performance come momento di comunità più che come esibizione.

L’eclettismo e i confini sempre più sfumati tra i generi sono una caratteristica della pratica e del consumo musicale di oggi, direi a ogni livello, dall’underground più sperimentale fino al pop più commerciale. Sperimentazione estrema e forme più o meno dichiarate di appropriazione culturale si sovrappongono sempre più spesso in una zona grigia dai contorni sempre più vaghi.

A Terraforma dunque c’è stato spazio anche per il dubstep infuso di influenze andine del produttore britannico Mala, il cui ultimo album Mirrors è stato concepito tra East London e il Perù e per l’intensa e fisicamente coinvolgente fusion arabo-indonesiana del duo Kafr.

Sono stati decisamente eclettici anche i vari dj set, oltre al già citato rituale mattutino new age di Dozzy, L.U.C.A. (ovvero il produttore romano Francesco De Bellis) ha proposto una selezione decisamente calda e funky che senza forzature, o capriole concettuali particolari, ci fatto arrivare a ballare sulle note di Orientale, un brano del 1980 di Cristiano Malgioglio sostenuto da una bassline memorabile.

Due teepee accanto al sound system, il 23 giugno 2017. (Delfino Sisto Legnani)

Anche Andrew Weatherall, il cinquataquattrenne dj e produttore britannico che, tra le altre cose, ha inventato il suono post-rave dei Primal Scream, ha costruito il suo lungo dj set come un viaggio, con un una consapevolezza storica ed estetica dei pezzi che selezionava impressionante. La logica con cui passava da un brano all’altro aveva poco a che fare con i classici concetti di pitch o di velocità, Weatherall è capace di giocare sul mood e sulla grana di un pezzo per portarti con naturalezza al brano successivo, aprendo un mondo sonoro completamente diverso. Abbiamo ascoltato Siouxsie & The Banshees, i Dream Syndicate, tanto reggae e dub, funk e psychobilly accompagnati da una guida tanto imprevedibile quanto empatica con il pubblico.

Terraforma è dunque un’esperienza immersiva che per tre giorni ti fa sentire tagliato fuori dal mondo e ti fa concentrare essenzialmente sulla musica. Anche ricaricare il telefonino è complicato, ma già dal secondo giorno non importa più tanto. Chi non torna a Milano dorme in tenda a poche centinaia di metri dai palchi (o in un normale campeggio o nel più confortevole camping allestito da pop-up hotel) e durante la giornata si possono seguire seminari tenuti dagli artisti stessi. Suzanne Ciani ha incontrato il pubblico il giorno dopo la sua esibizione e il carismatico compositore statunitense Laraaji ha fatto precedere la sua esibizione da un seminario, assolutamente esilarante e liberatorio, di yoga della risata.

Più di seimila persone (in prevalenza tra i 25 e i 29 anni) hanno dimostrato che in Italia esiste un pubblico attento e informato, interessato a musiche che, in altri contesti, sarebbero considerate di nicchia o difficili. Forse è nell’aria: se Pitchfork pubblica l’elenco dei 50 migliori album ambient di tutti i tempi, se Kamasi Washington è diventato una specie di popstar con il suo jazz spirituale, se quest’anno ho letto almeno tre ottimi articoli sulla pratica musicale e mistica di Alice Coltrane e se nel 2014 al Primavera Sound di Barcellona ho ascoltato l’Arkestra di Sun Ra in un auditorium stracolmo, vuol dire che qualcosa di strano sta succedendo.

È una nuova era dell’Acquario? È fricchettonismo post-hipster? È l’ultima frontiera della retromania? Siamo arrivati a rosicchiare la fine della coda lunga dei consumi teorizzata, un po’ maldestramente, da Chris Anderson di Wired? Terraforma non dà risposte a queste domande ma offre un’esperienza musicale preziosa di cui non sapevamo di avere un gran bisogno.

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