Cosa succede quando lo sfondo esotico ed erotico di una storia è casa nostra? Come ci sentiamo quando i personaggi pittoreschi, sexy e farseschi di un’opera teatrale, di un film o di una pubblicità siamo noi italiani? Succede che siamo costretti a guardarci attraverso una lente deformante e a ridere (o piangere) di noi. Di quello che crediamo di essere e di quello che siamo agli occhi degli altri.

Fra Diavolo, in scena fino al 21 ottobre al Teatro dell’opera di Roma, è un’opéra-comique del 1830 su libretto di Eugène Scribe con musiche di Daniel Auber. L’opera è ambientata sul finire del settecento a Terracina, in quella terra di nessuno tra stato pontificio e Regno delle due Sicilie infestata da briganti e abitata da procaci locandiere, valorosi carabinieri e sfortunati e un po’ faciloni turisti inglesi da grand tour. Ci sono il mare, il sole, i pini della via Appia e un’umanità italiana che i francesi amavano dipingere come superstiziosa, sanguinaria e vagamente primitiva, ma anche romantica e coraggiosa.

La vicenda, più comica che tragica, vede la bella ostessa Zerlina, data dal padre in moglie a un riccone locale, coronare il suo sogno d’amore con il carabiniere Lorenzo dopo che le sue vicende hanno incrociato quelle del brigante Fra Diavolo e di due goffi turisti inglesi, innescando una girandola di inganni, malintesi, furti e travestimenti. L’opera è deliziosa e spumeggiante: molto francese nell’intreccio comico (in certi punti già quasi da pochade) e garbatamente italiana, anzi rossiniana, nella musica. Mancano la profondità e la complessità vocale delle opere buffe di Rossini ma l’opéra-comique, strettamente imparentata con il vaudeville, è tutto un altro genere di spettacolo: nella Francia di Luigi Filippo si eseguiva in teatri piccoli e gli artisti erano forse più attori che cantanti, visto che tra i numeri musicali erano previsti lunghi dialoghi recitati. Il pubblico dell’opéra-comique era borghese e gradiva ambientazioni e musiche esotiche, personaggi affascinanti e sexy, storie non necessariamente buffe ma anzi anche tragiche, possibilmente con qualche morto ammazzato in scena. L’ultima grande opéra-comique è stata la Carmen di Bizet nel 1875, che contiene tutti questi aspetti in dosi massicce.

Il regista di questa nuova coproduzione del Teatro dell’opera di Roma e del Teatro Massimo di Palermo, Giorgio Barberio Corsetti, si è chiaramente posto il problema di questo gioco di specchi deformanti tra Francia e Italia. E deve aver capito che l’ambientazione borbonica del libretto lo portava a camminare su una sottile corda tesa tra un’italianità ultra kitsch da spot di Dolce & Gabbana e una grigia filologia folcloristica del basso Lazio, con ciocie, vecchie spingarde e mantelloni. Barberio Corsetti decide di evocare un’italianità più gentile e nostalgica, quella cinematografica degli anni cinquanta e sessanta, a metà tra il neorealismo rosa di Pane amore e fantasia e il musicarello. Paesaggi e colori saturi da vecchia cartolina, tanti carabinieri in divisa e una piazza piena di vociante umanità in abiti fiorati, zoccoletti e cappelli di paglia.

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Barberio Corsetti è un maestro dell’uso delle videoproiezioni in teatro e la scenografia di questo Fra Diavolo (nel primo e nel terzo atto) è un trionfo di immagini balneari proiettate su pareti bianchissime, quelle sì filologiche, che ricordano i centri storici di Terracina e Sperlonga. Tutto questo colore e queste fluorescenze video però ci portano in un’estetica un po’ più pop e iperrealista rispetto a quella del neorealismo. Il quadro iniziale con la decapottabile che sfreccia sulla via Flacca è più Elio Fiorucci o stacchetto di Videomusic che Dino Risi, e c’è qualcosa degli anni ottanta anche nella straordinaria somiglianza della turista inglese lady Pamela (l’eccellente Sonia Ganassi) con la Sandra Milo di Piccoli fans. Le fantasie fiorate dei costumi, i foulard e gli occhialoni sono saturi di colore e di gioia citazionista, più vicini a Naj Oleari che a Emilio Pucci. Insomma gli anni sessanta di questo Fra Diavolo funzionano perché sembrano giocare su due livelli di nostalgia: quella per il neorealismo rosa e quella primi anni ottanta per le figurine di Fiorucci.

Una scena dell’opera Fra Diavolo al Teatro dell’opera di Roma. (Yasuko Kageyama, Opera Roma 2016-2017)

Le scenografie dello spettacolo, che nel secondo atto si aprono come una casa di bambole vittoriana, sono state interamente realizzate con una stampante 3d. E nel foyer del teatro c’è anche un angolo vagamente Maker Faire con una stampante in funzione per mostrare al pubblico i prodigi della stampa 3d.

L’italianità debordante e in technicolor orchestrata da Barberio Corsetti corrisponde anche a una più marcata italianità della musica rispetto alla classica opéra-comique francese. La versione di Fra Diavolo in scena all’Opera di Roma è un ibrido tra la versione italiana che Auber realizzò alla fine degli anni quaranta dell’ottocento togliendo le parti recitate e rimpolpando l’orchestra, e quella francese del 1830. Il risultato è un’opéra-comique un po’ ipertrofica, cantata in francese, ma interpretata più come un’opera buffa rossiniana che come un vaudeville. I cantanti, tutti eccellenti (oltre alla già citata Ganassi, Anna Maria Sarra nel ruolo di Zerlina e John Osborn in quello del bandito), cantano talmente bene e talmente “tanto” da far sparire le caratteristiche più tipicamente francesi di questo tipo di intrattenimento. Eppure questo Fra Diavolo funziona, e la sua italianità sovraccarica fa parte del gioco di specchi tra Italia e Francia e in un certo senso può essere letta come una specie di rivincita dell’esotico, fantastico mediterraneo sulla visione vagamente colonialistica e paternalistica del grasso borghese francese di metà ottocento.

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