C’è una cosa buffa riguardo al fenomeno Liberato. Si parla tanto della sua identità, della sua strategia comunicativa e di quanto la sua musica sia o non sia autentica. Ma tutti questi discorsi passano un po’ in secondo piano di fronte a una cosa semplice: Liberato canta delle ottime canzoni pop, che funzionano a prescindere da tutto quello che le circonda.

Il 9 maggio a Napoli, alla rotonda Diaz, sul lungomare di Chiaia, a sentire il suo concerto gratuito c’erano circa ventimila persone, in gran parte molto giovani, alcune anche da fuori città. E non erano comparse di un video. Si sono accalcate per ascoltare i pezzi di un musicista che ha scelto l’anonimato e non ha pubblicato neanche un album. Certo, non si pagava, ma era anche mercoledì.

Liberato, chiunque egli sia, fa dell’appropriazione culturale una bandiera. Non ha problemi a trasformare la napoletanità in un meme, a frullare insieme Maradona, Pino Daniele e Marek Hamšík, a mettere nelle sue canzoni immagini da cartolina come il lungomare di Mergellina (che i napoletani chiamano “Margellina”, e infatti lo accusano di essere un fighetto per aver italianizzato il nome). La sua bravura, e non è cosa da poco, è di essere riuscito a fare una sintesi tra quello che è napoletano e quello che non lo è, arrivando a un pubblico nazionale.

Telefoni e social network
Sono le 20.40 circa quando, dopo il dj set dei Nu Guinea (due napoletani che vivono a Berlino, un altro progetto musicale molto interessante), Liberato e i due musicisti che lo accompagnano (anche loro sono Liberato?) arrivano alla rotonda Diaz a bordo di un gommone.

Sono accompagnati da quattro o cinque persone vestite come loro, con il bomber d’ordinanza, il cappuccio e il volto coperto da una bandana. I ragazzi assiepati sugli scogli e le transenne lo salutano e lo chiamano. Salgono sul palco i due musicisti, che, a proposito di Napoli e meme, suonano Live is life, brano del 1984 degli Opus diventato famoso anche grazie a Maradona.

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Poi sale sul palco il frontman (Liberato?). Suona una sirena e saluta il pubblico: “Uè uè uè ma comm cazz sit bell!”. Poi attacca Nove maggio, il singolo uscito nel febbraio 2017. Tutti alzano i telefoni e li terranno puntati sul palco, così da riprendere Liberato e diffondere sui social questo concerto che, come tutto quello che circonda il progetto, è stato concepito per diventare virale.

Amori finiti
Il pubblico, per la stragrande maggioranza napoletano, sa tutte le canzoni a memoria. La resa dal vivo dei pezzi è buona, anche se l’impressione è che il trio usi molte basi. La voce del cantante è ricca di effetti, anche se regge bene rispetto alle versioni in studio. Certo, ascoltare queste canzoni senza i video di Francesco Lettieri fa un effetto quasi straniante, ma nel complesso il concerto è solido, credibile. Il set di luci blu è minimalista, meno originale rispetto a quello visto a novembre al Club To Club.

Dopo Nove maggio tocca a Intostreet e Je te voglio bene assaje, i due brani pubblicati in contemporanea il 2 maggio, portare avanti lo spettacolo. Sul finire del secondo brano, Liberato accenna un pezzo di Quanno chiove di Pino Daniele. E poi attacca Me staje appennenn’ amò, un altro brano che racconta un amore finito male (una costante del suo repertorio). Me staje appennenn’ amò, forse per la sua capacità di cambiare il ritmo e virare quasi verso la house, è uno dei momenti migliori del concerto.

L’arrivo di Liberato alla rotonda Diaz, il 9 maggio 2018. (Glauco Canalis)

Il concerto finisce così, dopo circa quaranta minuti. E, unica vera delusione, non offre nessuna sorpresa musicale, nessun inedito che fa sperare in una pubblicazione imminente di un album. Liberato e i due musicisti salutano il pubblico con il pugno sinistro alzato. Scendono dal palco e salgono di nuovo sul gommone, sfilando di fronte alle persone accalcate sugli scogli.

Nel frattempo sul lungomare di Chiaia si è fatto buio. E tutti cominciano piano piano ad abbandonare la rotonda Diaz. Sui social network rimbalzano le immagini del concerto e saltano fuori nuove teorie strampalate sull’identità del cantante. E si ricomincia da capo il giro, con la comunicazione che si mangia la musica.

L’operazione Liberato, sembra quasi scontato ripeterlo, funziona. Funziona perché manda volutamente in tilt i meccanismi promozionali dei prodotti culturali con un trucco vecchio come il mondo: l’anonimato. Da Banksy ai Daft Punk, da Elena Ferrante ai Gorillaz, il non avere un volto è spesso la scelta più azzeccata se vuoi attirare l’attenzione.

Conviene ripeterlo, però: non bisogna perdere di vista la musica. Queste poche canzoni che Liberato ci ha lasciato fino a oggi sono un piccolo patrimonio per il pop italiano contemporaneo, per la loro freschezza e per la capacità di dare una scossa ai gusti del pubblico e lanciare una sfida ai colleghi musicisti. E Liberato stesso, chiunque egli sia, dev’essere il primo a coltivarlo.

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