Jessica Pratt, This time around
Nei primi anni duemila la stampa musicale britannica, evidentemente a corto d’idee, proclamò la nascita di un nuovo fenomeno musicale, il New acoustic movement. Del movimento facevano parte band come i norvegesi Kings of Convenience, o i britannici Keane e Turin Brakes. Questi gruppi in realtà non avevano assolutamente niente in comune tra di loro. Ma la stampa vide nel loro stile, fatto di arrangiamenti acustici, atmosfere malinconiche e armonizzazioni prese in prestito dal folk, una specie di nuova tendenza destinata a cambiare la musica.
A distanza di anni non è rimasto molto di quel presunto movimento. Ma ascoltando la musica di Jessica Pratt, cantante statunitense di base a Los Angeles, mi sono venuti in mente i titoli di due dischi dei Kings of Convenience: Quiet is the new loud e soprattutto Riot on an empty street.
Ecco, la musica di Pratt è proprio come una rivolta in una strada vuota. All’apparenza è tranquilla, angelica, ma riesce a scuoterti con una sottile inquietudine. Forse è merito della voce di Pratt, dotata di una grazia quasi aliena e di una dizione che a tratti rende difficile capire le parole. Non sai cosa sta dicendo, ma ti piace come lo canta.
Quiet signs è il primo disco che Pratt ha registrato in studio, dopo aver realizzato in casa i primi due (Jessica Pratt e On your own love again). E stavolta infatti i brani risultano più a fuoco. I riferimenti sonori non sono cambiati: la tradizione folk prima di tutto, a partire dal maestro Bert Jansch, ma anche qualche fuga verso il pop degli anni sessanta (a tratti sembra di ascoltare versioni spogliate dei brani di Jane Birkin).
I testi di Pratt sono un po’ come la sua voce, enigmatici e inquieti. Gli strumenti usati sono pochi: un piano, una chitarra, nessuna percussione e un paio di sovrapposizioni vocali. Per fare la sua rivolta personale, Pratt non ha bisogno di effetti speciali.
Quiet signs è un disco minimalista, a partire dalla durata (28 minuti). In alcuni momenti lascia perplessi, quando esagera con l’intimismo. Ma è bello perdersi tra le sue pieghe, cullati da queste note acustiche e da una voce che sembra venire da lontano. Chi vuole vedere Jessica Pratt dal vivo in Italia avrà una sola occasione, il 5 aprile a Bologna.
Lcd Soundsystem, Get innocuous
L’anno scorso, durante il tour di quel grandioso disco intitolato American dream, gli Lcd Soundsystem di James Murphy hanno fatto un salto agli Electric Lady, gli studi di New York fondati da Jimi Hendrix negli anni settanta, dove hanno registrato un disco dal vivo. Non è affatto una brutta notizia, visto che gli Lcd sul palco sono una delle band migliori in circolazione.
L’album è uscito l’8 febbraio e, oltre ai brani del gruppo, contiene tre cover: Seconds degli Human League, I want your love degli Chic e (We don’t need this) fascist groove thang degli Heaven 17. Ma sono troppo affezionato a pezzi come questo (pubblicato per la prima volta nel 2007 nel disco Sound of silver) per non sceglierlo.
Bassekou Kouyaté & Ngoni Ba, Wele ni (feat. Abdoulaye Diabaté)
Bassekou Kouyaté viene dal Mali ed è un virtuoso del ngoni, uno strumento a corda tipico dell’Africa occidentale fatto con legno e corde di pelle di pecora. Suona con la sua band, gli Ngoni Ba, dove canta anche la moglie. Nel loro nuovo disco ci sono tanti ospiti: alcuni vengono dall’Africa, come Ali Farka Touré e Abdoulaye Diabaté (che colora con il suo griot i brani Wele ni e Fanga). Altri dall’occidente, come lo statunitense Michael League degli Snarky Puppy.
Mercury Rev, Big boss man (feat. Hope Sandoval)
The Delta sweete di Bobbie Gentry, uscito nel 1968, è un capolavoro dimenticato. Ispirato all’infanzia di Gentry nei pressi di Woodland, nel Mississippi, è considerato un disco quasi rivoluzionario nel panorama country a stelle e strisce, che ai tempi non fu capito e fu rivalutato solo molti anni dopo.
I Mercury Rev hanno deciso di fare la cover dell’intero disco, chiamando a raccolta una serie di super star della musica contemporanea: da Norah Jones a Hope Sandoval (Mazzy Star), da Lucinda Williams a Margo Price. I brani sono molto diversi dagli originali, prendono una deriva meno country e più eterea (non è una sorpresa, visto che i Mercury Rev ci hanno abituato alle atmosfere di Deserter’s songs e All is dream). Mornin’ glory per esempio, che nell’originale era un romantico pezzo country, diventa quasi un brano dei Velvet Underground. Non sentire la voce di Jonathan Donahue fa strano, e non sempre le cantanti ospiti si calano perfettamente nella parte. Ma Bobbie Gentry’s The Delta sweete revisited resta comunque un tentativo apprezzabile.
Gomma, Fantasmi
In giorni di saturazione sanremese (anche meno, grazie), conviene guardare anche alla musica italiana “altra”, che come sempre offre cose molto più interessanti di quelle che ci offre mamma Rai. Dalla “scena di Caserta” (ha senso chiamarla così? A partire da Speranza comunque da quelle parti qualcosa è in movimento) arrivano i Gomma, giovane band emo/punk arrivata al suo secondo disco, intitolato Sacrosanto e uscito a fine gennaio.
Non c’è grande novità nella musica proposta dal quartetto campano, siamo sempre dalle parti dei Dead Kennedys (ma anche del Teatro degli Orrori, per restare in ambito italiano), ma c’è una sincerità e un’energia che non si sentiva da tempo nel rock italiano. Lo si sente fin dalla rullata di batteria di Fantasmi, il pezzo che apre questo disco pieno di rabbia giovanile ma anche di inaspettate immagini a sfondo religioso. Non a caso l’ultimo pezzo s’intitola Santa messa e nel ritornello urla: “La messa è finita, andate in pace”.
P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!
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