Nell’immaginario collettivo la lebbra è una malattia antica e scomparsa da molto tempo, ma non è esattamente così. Anche se non è contagiosa, la lebbra (o malattia di Hansen) provoca atrofia degli arti e lesioni alla pelle che hanno sempre generato reazioni di rifiuto nelle persone, unite a timori più o meno irrazionali. Spesso le persone con la lebbra sono state trattate come i malati di peste, ma le due malattie non hanno nulla in comune. Obbligati a portare abiti lunghi per nascondere i loro corpi, i malati sono emarginati dalle loro stesse comunità, costretti a vivere isolati e confinati, da molto tempo prima che questi termini diventassero di uso corrente con la pandemia.
I luoghi d’isolamento sono chiamati lazzaretti. L’origine di questa parola è una trasformazione del nome Nazaret. Infatti è su un’isola della laguna di Venezia chiamata Santa Maria di Nazareth che fu fondato nel 1423 il primo luogo in Europa destinato alla quarantena degli appestati. Dal cinquecento all’ottocento, nei libri questo centro era indicato spesso come Sanità, dal nome dell’istituzione creata nel 1486 dalla Repubblica di Venezia per amministrare i lazzaretti. Dal 1471 la città ne ospitava due: il lazzaretto vecchio e il lazzaretto nuovo (quest’ultimo destinato ai convalescenti). Ecco perché la parola lazzaretto non ha molto a che vedere con Lazzaro (peraltro patrono dei lebbrosi e non degli appestati), ma è probabilmente una contaminazione linguistica tra Nazareth e Lazzaro.

In Cina la lebbra sembra essere stata presente in tutte le epoche ed è citata in testi molto antichi. A partire dal 1950 sono stati registrati 500mila casi, e anche se dal 1984 il governo ha adottato una triterapia (Mdt), che sembra essere efficace, c’è ancora tanta discriminazione e i malati rimangono per lo più rinchiusi nei lebbrosari.

Questo ha spinto Tian Jin a intraprendere un’inchiesta visiva sulla situazione delle persone con la lebbra in Cina oggi. Dal 2016 ha viaggiato in nove province e ha visitato 51 “villaggi di lebbrosi”, tutti in isolamento. Per il suo lavoro non ha solo fotografato, ma ha raccolto centinaia di documenti personali e istituzionali: cartelle mediche, direttive ufficiali, agende e lettere personali dei malati, che vanno dagli anni cinquanta agli anni ottanta.
Curse of the wind. A history of leprosy in China presenta ritratti scattati con la luce naturale di uomini e donne soli, in mezzo alla natura o vicino a edifici tradizionali. Il contrasto con l’immagine della Cina moderna, quella del sogno cinese, affollata, colorata e fondata sulle megalopoli, è molto forte. Il fotografo vuole mettere in evidenza che siamo in luoghi remoti, dove niente è cambiato da tempo.

Il lavoro di Tian Jin è sempre misurato, empatico e basato sulla scelta della distanza, che non trasforma mai lo spettatore in voyeur; non drammatizza la malattia né insiste sui suoi effetti. Tian Jin si comporta da investigatore, analista, storico: “In Cina si sono formate centinaia di colonie di persone con la lebbra chiamate villaggi. I decenni di isolamento hanno reso questi luoghi molto arretrati rispetto al resto del paese per quanto riguarda lo sviluppo economico, l’istruzione, le infrastrutture e la sanità pubblica. Gli abitanti pativano questo ritardo ed erano stigmatizzati. Quando negli anni ottanta la segregazione è finita, ormai erano quasi tutti morti e solo in pochi hanno avuto la possibilità di sperimentare la libertà. A complicare le cose, la legge sui matrimoni introdotta nel 1950 ha vietato ai lebbrosi il diritto di sposarsi. Alcuni villaggi erano in buone condizioni, ma in altri non c’era né elettricità né acqua corrente. Oggi ci vivono soprattutto persone anziane, ma in alcuni ci sono anche bambini. Comunque questi posti scompariranno nei prossimi dieci o vent’anni”.

Una storia complessa
Per documentare la situazione e la singolarità di ogni storia, Tian Jin ha usato materiale d’archivio e ha realizzato dei collage, creando delle sovrimpressioni. Il risultato sono immagini al tempo stesso plastiche e poetiche che combinano parole ed elementi figurativi, oggetti personali e sogni, documenti e illusioni.

“Volevo raccontare la storia nella sua complessità. Per catturare un fenomeno che sta scomparendo non basta documentare la situazione attuale. Per questo ho voluto mescolare ritratti, paesaggi e immagini d’archivio”.

Nato nel Guangxi, nel sud della Cina, nel 1986, Tian Jin si è trasferito a Parigi nel 2011 dopo essersi diplomato all’Istituto di cinema del Sichuan, a Chengdu. In Francia ha continuato i suoi studi all’università Parigi VII Denis Diderot e poi dal 2014 al 2016 alla scuola di arte e fotografia Icart, mentre contemporaneamente sviluppava i suoi primi lavori documentari. Oggi Tian Jin, che ama le foto di Josef Koudelka e di William Klein, vuole lavorare su un altro argomento tabù nel suo paese: il razzismo. Soprattutto quello che colpisce gli immigrati africani, ma anche quelli originari del sudest asiatico, come il Vietnam o la Cambogia: “Siamo un paese nazionalista. È importante conoscere la storia, perché ci permette di capire quello che succede oggi. E per questo genere di lavoro ci vuole tempo e la possibilità di usare un mezzo che garantisca una libertà assoluta. La fotografia ha il pregio di permettermi, senza spendere molto, di realizzare delle serie lavorando in totale autonomia”. ◆adr



◆ Jin Tian è uno dei tre fotografi premiati con la borsa degli amici del museo di Parigi Albert Kahn 2021. Gli altri due sono Charles Delcourt per il suo lavoro su Eigg, una piccola isola scozzese delle Ebridi interne, il cui territorio è stato comprato collettivamente dagli abitanti, e Isabeau de Rouffignac con la serie Marbre à tout prix, sulle difficili condizioni di lavoro dei minorenni nelle cave di marmo di Rajsamand, nello stato del Rajasthan, in India.
Jin Tian è stato uno dei fotografi premiati con la Borsa degli amici di Albert Kahn 2021. Gli altri due sono Charles Delcourt per il suo lavoro su Eigg, una piccola isola scozzese delle Ebridi interne, i cui abitanti hanno ricomprato collettivamente il terreno, e Isabeau de Rouffignat per “Marmo a ogni costo”, sulle difficili condizioni di lavoro dei minorenni nelle cave di marmo di Rajsamand, nel Rajasthan indiano.
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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati