“Donne tristi e arrabbiate” è il titolo della prima playlist che esce su Spotify se cercate Angel Olsen. È vero, all’inizio Olsen era la risposta psych-folk del duemila a Édith Piaf, con le sue grandi storie di amore tormentato. Ma Big time, il suo sesto album, è un trionfo di tiepide brezze country d’annata. Ci sono sbadiglianti sitar elettrici, unghiate di steel guitar, lenti fiati e un polveroso piano da osteria che procede lento come un gatto; statiche melodie romantiche con l’eco dell’Elvis di fine anni sessanta e di Scott Walker; uno strano quasi yodel che strizza l’occhio ai fantasmi di Patsy Cline e Kitty Wells. Per l’artista trovare la soddisfazione dorata di Big time è stato difficile: mentre stava preparando il disco ha fatto coming out come gay, dopo tre giorni suo padre è morto, ha presentato alla famiglia la sua nuova compagna Adele Thibodeaux, poi è morta anche sua madre. L’album non è solo la storia d’amore di Olsen: è un viaggio attraverso le molte grandi, traumatiche e liberatorie esperienze dei suoi ultimi ventiquattro mesi. “Perdere i genitori mi ha fatto sentire tranquilla parlando di sentimenti”, ha detto in una recente intervista. Big time ha un lungo arco narrativo: All the good times ripercorre la fine di una storia d’amore con una melodia che ricorda In the ghetto; il pezzo che dà il titolo all’album celebra i semplici piaceri della sua nuova relazione: caffè, falò in campagna, starsene sdraiate nell’erba. L’album procede con tocchi fragili e momenti più rockeggianti. Fino a This is how it works, che ci riporta nel dolore di Olsen, ripetendo: “Sono tornati i tempi duri”. L’ottima band si muove attentamente intorno alla cantante, lasciandole spazio e offrendole tocchi elastici di una nuova prospettiva sonora. Altro che triste e arrabbiato: Big time è un lavoro edificante, che caccia via il dolore guardandolo dritto negli occhi.
Helen Brown, Independent
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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati