Il 24 febbraio 2022, quando la Russia ha invaso l’Ucraina, Oleg (il nome è stato cambiato), dirigente di una compagnia aerea russa, si è preparato ad affrontare una turbolenza. Che non ci ha messo molto ad arrivare. Nel giro di pochi giorni i paesi occidentali hanno proibito agli aerei della sua compagnia di entrare nel loro spazio aereo, e hanno vietato l’esportazione verso la Russia di semiconduttori e componenti meccanici. Era un problema serio, considerando che tre quarti degli aerei commerciali russi sono fabbricati negli Stati Uniti, in Europa o in Canada e che i pezzi di ricambio sono indispensabili per le riparazioni. Molti analisti hanno previsto che il settore sarebbe crollato prima dell’estate. Invece le compagnie russe sono riuscite ad alternare i velivoli disponibili per mantenere operative le rotte. Ma non potranno sconfiggere la gravità per sempre. Alcune hanno cominciato a prelevare i pezzi di ricambio dagli aerei rimasti a terra. Oleg prevede che entro uno o due anni molti apparecchi non saranno più in condizione di volare in sicurezza.
La lenta crisi dell’aviazione russa evidenzia il potere insidioso delle sanzioni occidentali. Da febbraio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno messo in campo un arsenale di misure senza precedenti per cercare di schiacciare l’economia russa (l’undicesima più grande del mondo), nella speranza di fermare lo sforzo bellico, provocare le proteste della popolazione e delle élite e dissuadere altri rivali (in particolare la Cina) da avventure militari simili. Alcune sanzioni, come il congelamento dei beni dei fedelissimi di Putin, sono vecchie tattiche adottate stavolta su larga scala. Altre, come l’esclusione della Russia dal sistema Swift e il congelamento di 300 miliardi di dollari di riserve estere della sua banca centrale, sono inedite. Un terzo tipo di misure, come i divieti di esportazione, era già stato usato contro singole aziende, ma mai contro un intero paese.
Eppure il susseguirsi delle sanzioni – a luglio l’Unione europea ha approvato il settimo pacchetto – non ha espugnato la fortezza Russia. Nel frattempo i prezzi del gas sono saliti alle stelle e il costo politico delle sanzioni aumenta. Quindi l’occidente sta perdendo la guerra economica? Non proprio. Come nel caso dell’aviazione, ci vorrà del tempo prima che i danni si concretizzino. Le possibilità che la Russia, un paese con un basso debito pubblico e grandi riserve di valuta estera, subisse un collasso finanziario sono sempre state minime. Anche nei casi in cui le sanzioni sono state più efficaci, come quando hanno costretto la Libia ad abbandonare le armi di distruzione di massa nel 2003, ci sono voluti anni perché funzionassero. Per valutare l’efficacia delle sanzioni occidentali, l’Economist ha preso in esame tre tipi di misure: il congelamento dei beni degli oligarchi, le sanzioni finanziarie e le restrizioni commerciali. La nostra analisi suggerisce che, con il tempo, cominceranno a indebolire seriamente l’economia russa.
Le sanzioni meno efficaci sono quelle di cui si è parlato di più: la lista nera dei personaggi considerati vicini al Cremlino. Secondo la società di analisi WorldCheck, 1.455 personalità della corrotta élite russa sono banditi da alcuni o da tutti i paesi occidentali, non possono accedere ai beni che posseggono in quei paesi, o entrambe le cose. Tra i beni congelati ci sono depositi e titoli finanziari conservati nelle banche occidentali, e status symbol da ricconi come ville in campagna, squadre di calcio, gioielli e yacht, confiscati in diretta streaming nei porti di tutto il mondo.
Prendere di mira gli oligarchi è una strategia allettante per i governi, che devono dare l’impressione di fare qualcosa. Inoltre non offre a Mosca la possibilità di ritorsioni dirette, perché i milionari occidentali non possiedono molti beni in Russia e diversi imprenditori statunitensi ed europei hanno già rinunciato ai loro investimenti lì. Per questo le autorità occidentali chiedono nuovi poteri per rafforzare queste misure. Il dipartimento di giustizia statunitense vuole usare le leggi antimafia per vendere i beni sequestrati e versare il ricavato all’Ucraina. L’Unione europea ha proposto di rendere un reato la violazione delle sanzioni, in modo da rafforzarne l’applicazione.
Eppure la maggior parte dei beni presi di mira dall’occidente sfugge alla caccia. Anders Aslund, ex consulente dei governi di Russia e Ucraina, ritiene che dei 400 miliardi di dollari di beni conservati all’estero e teoricamente bloccati ne siano stati effettivamente congelati appena 50. Alcuni oligarchi hanno nascosto parte dei loro tesori ricorrendo anche a trenta società di copertura con sede nei paradisi fiscali. Altri hanno mantenuto il controllo dei beni trasferendone la proprietà a parenti o prestanome.
L’applicazione delle sanzioni è affidata ai custodi privati dei beni, dagli amministratori di patrimoni svizzeri alle marine di Saint Tropez, che in molti casi non hanno i mezzi né la volontà di indagare a fondo. Alcune grandi banche rifiutano di muovere fondi su richiesta di entità sospette se sono controllate almeno per il 25 per cento da cittadini russi colpiti da sanzioni (la soglia legale è del 50 per cento), ma le aziende più piccole nel campo della tecnologia finanziaria e delle criptovalute sono meno diligenti, così come i gestori dei porti. Una discrepanza simile esiste anche tra le giurisdizioni. Gli Stati Uniti hanno criticato la Svizzera e gli Emirati Arabi Uniti, dove decine di aerei privati di proprietà russa sono parcheggiati nel deserto, accusandoli di non fare abbastanza per smascherare chi viola le sanzioni.
In ogni caso non sembra che il congelamento di queste proprietà metta in difficoltà l’economia russa. La maggior parte degli oligarchi ha poca influenza politica. Un ex magnate ucraino dell’energia ritiene che il presidente russo Vladimir Putin sia piuttosto felice di vederli ridimensionati. Finora gli sforzi di confiscare i beni e donare il ricavato all’Ucraina non hanno prodotto risultati.
Canali alternativi
Il secondo tipo di sanzioni, quelle finanziarie, colpisce i centri nevralgici dell’economia russa: gli istituti di credito e la banca centrale. Dopo l’invasione dell’Ucraina i primi hanno subìto una gamma di misure tarate in base alla loro vicinanza al Cremlino. Le sanzioni sui mercati di capitale, le più morbide, proibiscono agli investitori occidentali di comprare o vendere titoli o azioni emessi da 19 banche russe. Dieci istituti, tra cui i due più importanti, sono stati esclusi dalla rete Swift, usata da 11mila banche di tutto il mondo per i pagamenti internazionali. Ventisei non possono più eseguire trasferimenti internazionali in dollari dopo che Washington ha vietato ai propri istituti di credito di offrirgli servizi di correspondent banking (banca intermediaria).
Queste azioni hanno effetti concreti. Uno studio della Bundesbank indica che tra il primo febbraio e il 30 aprile le sospensioni dalla rete Swift hanno provocato un’interruzione quasi totale dei trasferimenti fra le banche russe sanzionate e il ramo tedesco di Target 2, il sistema che autorizza i pagamenti tra le banche dell’eurozona. Le alternative alla rete Swift, come il telex, sono lente e macchinose. Anche i divieti sul correspondent banking sono piuttosto incisivi: non solo il dollaro è usato direttamente per regolare il 40 per cento degli scambi internazionali, ma serve anche da moneta di passaggio in molte transazioni che coinvolgono valute di second’ordine. Ora in alcuni casi la Russia è costretta a ricorrere al baratto, una soluzione complessa e rischiosa.
Tuttavia le sanzioni finanziarie non sono riuscite a bloccare la maggior parte dei pagamenti. Le banche che gestiscono i colossali acquisti di combustibile russo, a cominciare da Gazprombank, possono ancora usare la rete Swift. Gran parte delle altre operazioni viene incanalata legalmente attraverso banche più piccole che restano collegate alla rete.
Fare a meno del dollaro è più complicato. L’India, che da febbraio fagocita petrolio russo in grandi quantità, sta ancora cercando un modo per pagarlo in rupie. Ma il forte incremento registrato tra maggio e giugno nel volume dei pagamenti fatti attraverso il Cips, la versione cinese dello Swift, lascia pensare che la Cina stia avendo più fortuna. Gli scambi tra yuan e rubli alla borsa di Mosca hanno raggiunto livelli record.
Il congelamento delle riserve custodite dalla banca centrale russa (Cbr) in occidente, circa metà dei 600 miliardi di dollari totali, ha avuto risultati altrettanto deludenti. Poche ore dopo l’annuncio della misura il valore del rublo rispetto al dollaro ha perso più del 30 per cento. Quando la banca centrale russa ha aumentato i tassi d’interesse per fermare il crollo, portandoli dal 9,5 al 20 per cento, il credito interno ha rallentato, danneggiando la domanda e spingendo la Russia in recessione. A giugno le sanzioni hanno costretto Mosca alla prima grande insolvenza sul debito estero da più di un secolo, impedendo alla banca centrale di versare cento milioni di dollari ai creditori.
Eppure sono bastate poche settimane perché il rublo si riprendesse, permettendo alla Cbr di tagliare rapidamente i tassi d’interesse, che il 25 luglio sono scesi all’8 per cento. Il tasso di cambio ufficiale non riflette la domanda reale: gran parte dei controlli sui capitali imposti dopo il congelamento della Cbr è ancora in vigore. Ma questo dimostra che nel piano occidentale c’era un errore. La Cbr non può attingere alle sue riserve in euro e in dollari, ma la Russia incassa valuta forte ogni giorno grazie alle gigantesche esportazioni di petrolio e gas. Questo significa che non ha bisogno di finanziarsi, e la sua insolvenza è sostanzialmente irrilevante.
È difficile che un’economia si regga solo su prodotti importati illegalmente
Nessun margine
Restano le sanzioni commerciali, un’altra misura a due dimensioni. I tentativi di limitare i ricavi delle esportazioni di petrolio russo, che nel 2021 avevano rappresentato il 36 per cento del bilancio federale, hanno ricevuto più attenzione di quanta ne meritino. Oggi gli Stati Uniti non importano più petrolio dalla Russia, ma non ne hanno mai comprato molto. L’Unione europea ha promesso che interromperà l’importazione via mare di greggio dalla Russia a partire da dicembre e di petrolio raffinato da febbraio. Ne sta già comprando un po’ di meno: 2,4 milioni di barili al giorno a luglio, contro i 2,9 milioni di prima della guerra. Gran parte della differenza però viene acquistata da Cina e India, anche se a un prezzo scontato di circa 25 dollari rispetto al Brent, il valore di riferimento globale, attualmente a 101 dollari al barile. Nessun embargo è invece in programma sul gas russo, che è più difficile da sostituire e rappresenta meno del 10 per cento delle entrate di Mosca.
Non è certo che la Russia stia guadagnando meno di quanto avrebbe fatto senza le sanzioni. Secondo la società di consulenza Rystad Energy, quest’anno Mosca perderà fino a 85 miliardi di dollari di entrate fiscali legate alla vendita di petrolio e gas (su un totale potenziale di 295 miliardi di dollari) a causa dello sconto sul prezzo. Ma è anche vero che la minaccia di un embargo occidentale è uno dei motivi per cui il prezzo globale del petrolio è così alto. La Capital Economics, un’altra società di consulenza, stima che da febbraio la Russia abbia venduto il petrolio a una media di 85 dollari al barile, un prezzo superiore a quello registrato per il 90 per cento del tempo dal 2014 a oggi. Contrariamente alle previsioni, la Russia continua a esportare più o meno la stessa quantità di petrolio degli ultimi anni.
È possibile che questa tendenza s’inverta nei prossimi mesi, quando entrerà in vigore il bando europeo alle importazioni? Trovare nuovi compratori a cui vendere i 2,4 milioni di barili rifiutati dall’Europa sarà difficile. Inoltre, a partire dal 31 dicembre le compagnie europee, che dominano il settore petrolifero, non potranno più assicurare le navi che trasportano il petrolio russo. Questo potrebbe essere un grosso problema per Mosca. Molti porti e canali potrebbero rifiutare il passaggio delle navi russe se il rischio di fuoriuscite non fosse coperto da un’assicurazione. Reid I’Anson della Kpler pensa che entro la fine del 2022 questi problemi costringeranno la Russia a tagliare la produzione di circa 1,1 milioni di barili, il 14 per cento delle esportazioni del 2021.
Eppure si parla già dell’eventualità che l’Europa rinvii l’entrata in vigore dei divieti se l’inverno dovesse dimostrarsi troppo duro. I commercianti di materie prime sottolineano che con gli sconti offerti dalla Russia ci saranno sempre dei compratori. La Cina e l’India potrebbero assicurare da sé i carichi, e Mosca ha dichiarato che offrirà la riassicurazione. Se le esportazioni di petrolio dovessero calare, nel mercato c’è così poco margine che i prezzi s’impennerebbero, annullando l’effetto delle sanzioni. Per questo gli Stati Uniti stanno cercando di convincere gli alleati a imporre un tetto al prezzo del petrolio russo, una misura che potrebbe rivelarsi difficile da attuare. Gli operatori senza scrupoli in Bahrain o a Dubai potrebbero barare per assicurarsi quote di mercato più grandi. La Russia potrebbe reagire trattenendo il petrolio per un breve periodo di tempo, facendo salire i prezzi alle stelle e costringendo l’occidente a cedere.
Il punto debole
In realtà le sanzioni più efficaci sono quelle di cui si parla meno: i controlli sulle esportazioni verso la Russia. Da febbraio le aziende occidentali devono ottenere una licenza per vendere i loro prodotti in Russia, e raramente ci riescono. Le restrizioni vanno ben oltre i prodotti a “doppio uso” – quelli con applicazioni sia militari sia commerciali, come i droni e i laser – e coprono tecnologie avanzate come i microchip, i computer, i software e le attrezzature energetiche. Riguardano anche prodotti a bassa tecnologia come materie prime e composti chimici, la cui esportazione finora era stata vietata solo verso paesi come l’Iran e la Corea del Nord.
La portata di queste misure è notevole, ma quelle degli Stati Uniti sono particolarmente dure a causa di una norma, la Foreign direct product rule (Fdpr), che copre non solo i prodotti fabbricati negli Stati Uniti, ma anche quelli stranieri che usano programmi, strumenti o contributi statunitensi. Nel 2020, quando Washington ha varato la Fdpr per impedire alla Huawei, accusata di spionaggio, di acquistare microprocessori avanzati, l’azienda cinese ha subìto danni enormi, anche se gli stabilimenti negli Stati Uniti producono appena il 15 per cento dei chip a livello mondiale. Stavolta gli Stati Uniti sostengono che le esportazioni di chip verso la Russia siano calate del 90 per cento rispetto al 2021.
Per il settore manifatturiero russo, che dipende dai componenti importati, è una pessima notizia. Dal 2014 Putin cerca di isolare il sistema finanziario russo dalle sanzioni occidentali – riducendo il ruolo del dollaro, diversificando le riserve della banca centrale e sviluppando sistemi di pagamento alternativi – ma lo stesso non si può dire dell’industria del paese, che era rimasta legata all’ordine commerciale mondiale, anche se meno di altri.
All’interno delle armi russe sono stati ritrovati circuiti e altri componenti elettronici prodotti da settanta aziende statunitensi ed europee. Altri settori, dalle miniere ai trasporti, hanno bisogno di componenti e competenze stranieri per la manutenzione. Un fornitore tedesco sostiene che, se interrompesse la manutenzione, la metropolitana di Mosca entrerebbe in crisi nel giro di un mese e resterebbe paralizzata dopo tre. La Russia inoltre ha bisogno di software e hardware all’avanguardia per sviluppare nuovi prodotti, dall’elettronica di consumo alle auto elettriche.
Alcuni effetti sono già evidenti, nonostante le sanzioni sulle esportazioni abbiano cominciato a funzionare tardi (quasi tutte prevedono un preavviso da uno a tre mesi). La produzione industriale russa è calata del 7 per cento tra dicembre e giugno, soprattutto nel settore automobilistico (90 per cento), in quello farmaceutico (25 per cento) e in quello dei dispositivi elettrici (15 per cento). A maggio la Russia ha abbassato gli standard di sicurezza per consentire la fabbricazione di automobili senza airbag e freni anti-bloccaggio. La mancanza di strumenti ha ostacolato anche lo sviluppo della rete 5g. Le principali aziende russe di cloud computing, come Yandex e Sberbank, non riescono a espandere i loro centri di elaborazione. La carenza di circuiti elettronici sta rallentando l’emissione delle carte Mir, il sistema di pagamenti interno. La scarsità di navi specializzate potrebbe complicare le esplorazioni petrolifere nell’Artico, e la mancanza di tecnologie e competenze straniere potrebbe rallentare anche l’estrazione tradizionale di petrolio e gas. Anche le industrie di base, come quella mineraria e la raffinazione dei metalli, sono in crisi.
La Russia sta cercando di reagire. All’inizio ha fatto ricorso al cosiddetto mercato grigio per reperire prodotti tecnologici e militari, spesso da rivenditori in Asia e in Africa. A giugno si è spinta più in là legalizzando le importazioni “parallele”, permettendo alle aziende russe di acquistare prodotti come server e cellulari senza il consenso dei titolari dei marchi. Secondo Artem Starosiek, della società di intelligence ucraina Molfar, c’è stato un boom nel “turismo delle carte di credito”: gli operatori turistici che in precedenza organizzavano viaggi per permettere ai russi di vaccinarsi contro il covid-19, oggi li portano in Uzbekistan a comprare carte Visa. Il commercio tra i paesi occidentali e quelli che confinano con la Russia, come Georgia e Kazakistan, è cresciuto rapidamente dopo l’invasione.
Ma è difficile che un’economia si regga solo su prodotti importati illegalmente, soprattutto quando alcuni di questi beni scarseggiano ovunque. Le aziende cinesi, che di solito coprono un quarto delle importazioni russe, non si sono precipitate ad aiutare Mosca, perché temono di perdere a loro volta l’accesso alle componenti occidentali. Perfino la Huawei ha limitato i suoi legami con la Russia. Le carenze quindi sono destinata a durare, con effetti sempre più pesanti man mano che l’usura si farà sentire e i problemi si estenderanno da un settore all’altro. Il risultato sarà un lento ma inesorabile declino dell’economia russa.
Questo fenomeno sarà alimentato anche dagli effetti meno visibili delle sanzioni. Konstantin Sonin dell’università di Chicago è convinto che centinaia di migliaia di russi – tra cui molti lavoratori altamente qualificati – abbiano abbandonato il paese dopo l’invasione. Secondo uno studio dell’università di Yale, più di 1.200 aziende straniere si sono impegnate a lasciare la Russia. Il Fondo monetario internazionale prevede che nel 2025-2026 il tasso di crescita della Russia sarà calato di circa la metà rispetto alle previsioni precedenti allo scoppio della guerra. Fino a quando gli Stati Uniti e i loro alleati manterranno le sanzioni, insomma, la base industriale della Russia, la sua vivacità intellettuale e i legami con l’occidente continueranno ad affievolirsi. Il futuro del paese sarà segnato da una produttività in calo, da una scarsa innovazione e da un’inflazione strutturale. Gli economisti che avevano previsto un crollo istantaneo avevano torto. Quello che la Russia ha ottenuto, invece, è un biglietto di sola andata verso il nulla. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1476 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati