È stato incarcerato e interdetto dai pubblici uffici, ma alla fine è riuscito a ribaltare la sentenza ed è arrivato a dominare la politica turca. Ha vinto cinque elezioni parlamentari, due presidenziali e tre referendum. È perfino sopravvissuto a un colpo di stato militare. Ma il 14 maggio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan rischia di perdere il controllo del secondo paese più popoloso d’Europa. I sondaggi indicano che l’alleanza dell’opposizione potrebbe strappare la maggioranza in parlamento al partito del presidente, Giustizia e sviluppo (Akp) e ai suoi alleati. Inoltre Erdoğan sembra in svantaggio nelle presidenziali, che si terranno lo stesso giorno.
Una sua sconfitta segnerebbe non solo la fine di un’epoca, ma una vera e propria rivoluzione, con conseguenze in tutta la regione e nel resto del mondo. Tenendo conto del costo della vita, oggi la Turchia è l’undicesima economia del pianeta, davanti al Canada, all’Italia e alla Corea del Sud. È un membro chiave (e a volte scomodo) della Nato, vicino al fronte della guerra in Ucraina, ma in buoni rapporti con la Russia. Si trova fra l’Europa e il caos del Medio Oriente, e ha un ruolo determinante nella gestione dei flussi migratori verso l’Unione europea. Inoltre è una delle poche vere democrazie del mondo islamico, anche se da una decina d’anni Erdoğan sta cercando di indebolire le istituzioni.
La posta in gioco delle elezioni rispecchia il dramma shakespeariano del regno di Erdoğan. Ha cominciato la sua carriera politica da dissidente, perseguitato dalla classe dirigente laica perché voleva cancellare le restrizioni sulle manifestazioni pubbliche di religiosità. Ora è diventato il persecutore che arresta gli oppositori con accuse infondate, intimidisce i giornalisti e destituisce i rappresentanti scelti dagli elettori. Secondo molti osservatori ormai la Turchia merita a malapena di essere considerata una democrazia.
Anche la gestione dell’economia è cambiata: se nei primi anni di Erdoğan al potere l’inflazione era scomparsa e i redditi erano schizzati alle stelle, in seguito l’inflazione è tornata e il valore del pil in dollari è calato del 15 per cento.
Erdoğan ha compiuto un voltafaccia simile con la minoranza curda, che all’inizio aveva corteggiato per poi accusare i suoi leader di sostenere il terrorismo. Ha perso il favore degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che un tempo lo elogiavano per aver rilanciato l’economia e oggi gli rimproverano di averla rovinata. In tutti questi campi – democrazia, economia, conflitti sociali e politica estera – le elezioni offrono una scelta chiara tra un’opposizione riformatrice e un Erdoğan sempre più intransigente.
Catastrofe economica
Considerando lo stato dell’economia del paese, può sembrare strano che Erdoğan e il suo partito siano ancora in corsa. Negli ultimi due anni la lira turca ha perso il 60 per cento del suo valore rispetto al dollaro e i capitali stanno fuggendo dal paese. A gennaio il deficit commerciale ha toccato un record di dieci miliardi di dollari. L’inflazione fuori controllo, che in autunno era arrivata all’86 per cento e oggi supera il 40 per cento, ha impoverito milioni di turchi. Il rallentamento degli ultimi mesi è dovuto in parte all’intervento della banca centrale: quando il paese non avrà più dollari da vendere per sostenere il tasso di cambio, sarà inevitabile un’ulteriore svalutazione della lira con un conseguente aumento dell’inflazione.
Erdoğan sta cercando di distogliere l’attenzione da questa catastrofe sottolineando i passi avanti compiuti dalla Turchia sotto la sua guida. Nelle ultime settimane ha inaugurato la prima centrale atomica del paese, ha festeggiato la scoperta di un grande giacimento di gas nel mar Nero, ha guidato la prima automobile elettrica turca e ha presenziato al varo della prima portaerei. Il messaggio è chiaro: Erdoğan ha sfidato l’occidente riuscendo a trasformare la Turchia in una potenza mondiale, e il meglio deve ancora venire. “Se ha ancora più del 40 per cento nei sondaggi è anche grazie a questa idea”, spiega l’analista Galip Dalay.
Non è solo vuota retorica. Quando Erdoğan è arrivato al potere, nel 2003, l’inflazione e la crisi bancaria avevano travolto l’economia. Il suo governo ha inaugurato una fase di crescita costante, per l’economia in generale e per la classe media. Molti turchi ne hanno beneficiato enormemente e gli restano fedeli per questo.
La vittoria dell’opposizione non risolverebbe tutti i problemi dei curdi, ma abbasserebbe notevolmente la tensione
Erdoğan ha usato la sua influenza sui mezzi d’informazione per convincere i suoi sostenitori che i problemi economici sono il risultato di un complotto straniero per frenare lo sviluppo della Turchia. Inoltre ha saputo sfruttare le divisioni all’interno della società turca. Molti di quelli che sono stati favoriti dalle sue misure economiche appartenevano infatti alla classe media conservatrice e provinciale, che da sempre si sentiva ignorata e disprezzata dall’élite urbana e laica. Per anni Erdoğan ha detto che i diritti acquisiti grazie a lui, come quello di portare il velo nelle università e nelle istituzioni statali, sarebbero stati cancellati se avesse perso il potere. Ha presentato le elezioni come uno scontro tra nazionalisti devoti e un’accozzaglia di élite alcolizzate e senza dio, separatisti curdi e pervertiti, che vogliono diffondere i valori importati dall’occidente.
Ma tutto questo non può nascondere il problema fondamentale: Erdoğan sta sabotando l’economia. È convinto che i tassi d’interesse alti alimentino l’inflazione, e che abbassarli possa aiutare a stabilizzare i prezzi. Riempiendo la banca centrale di persone a lui vicine ha imposto questa idea al paese, provocando un’inflazione galoppante. I rimedi che ha proposto sono solo pannicelli caldi. Secondo l’Akp la scoperta di un grande giacimento di gas nel mar Nero dovrebbe ridurre la spesa per le importazioni, allentando la pressione sulla lira. Nel frattempo, dalla fine del 2021 il governo ha quintuplicato la pensione minima portandola a 7.500 lire (385 dollari) e ha triplicato il salario minimo fino a 8.500 lire, impegnandosi ad aumentarlo ancora dopo le elezioni. Il 9 maggio lo stipendio minimo dei dipendenti pubblici è stato aumentato del 45 per cento, portandolo a 15mila lire.
L’opposizione invece promette il ritorno all’ortodossia economica. È guidata da Kemal Kılıçdaroğlu, un ex funzionario del ministero delle finanze la cui personalità pacata contrasta nettamente con l’arroganza di Erdoğan. Mentre il presidente inaugura un megaprogetto dopo l’altro, Kılıçdaroğlu registra video nella sua modesta cucina, usando una cipolla come spunto per parlare dell’inflazione.
Kılıçdaroğlu dice di voler ripristinare l’indipendenza della banca centrale, che porterà inevitabilmente a un forte aumento dei tassi d’interesse. A sua volta questo provocherà il rallentamento dell’economia, se non una recessione, mentre per ridurre l’inflazione ci vorrà del tempo. Secondo l’opposizione la spesa sociale attenuerà in parte gli effetti negativi, così come il ritorno dei capitali esteri nel mercato dei titoli di stato. Gli investimenti diretti tarderanno un po’ di più, ma anche quelli torneranno. La Turchia è pur sempre l’economia più grande tra l’India e la Germania, e fa parte di un’unione doganale con l’Unione europea, che la rende un’ottima base per le esportazione verso l’Europa.
Programmi diversi
Anche sulle riforme istituzionali il governo e l’opposizione hanno programmi molto diversi. Erdoğan ha accentrato il potere nella carica del presidente, in passato soprattutto cerimoniale, abolendo quella di primo ministro e ridimensionando il parlamento. Ha usato il potere dello stato in modo fazioso e spesso punitivo. Ha inasprito e usato indiscriminatamente una legge contro le offese nei confronti del presidente, con condanne fino a quattro anni di carcere. Da quando è al potere sono state avviate circa 200mila indagini legate a questo reato. I procuratori stanno cercando di sciogliere il Partito democratico dei popoli (Hdp), la principale forza politica curda, in un’inquietante eco del bando imposto ai partiti islamici prima di Erdoğan. Il presidente ha destituito molti politici curdi che ricoprivano importanti cariche pubbliche. Decine di migliaia di seguaci di Fethullah Gülen, un religioso che in passato era stato un alleato politico di Erdoğan, sono stati epurati o incarcerati in base ad accuse poco credibili dopo che il loro leader è stato indicato come regista del fallito colpo di stato del 2016.
Kılıçdaroğlu ha promesso di cambiare molte cose. Ha dichiarato che cancellerà la legge contro le offese al presidente e ripristinerà l’indipendenza dei tribunali e i poteri del parlamento. L’opposizione vuole mettere fine alla pratica di rimuovere i sindaci e promette di risarcire tutti quelli che sono stati ingiustamente allontanati dopo il colpo di stato. Si è impegnata a perseguire i politici corrotti, compresi quelli sospettati di aver alterato i dati sull’inflazione e di aver assegnato appalti d’oro agli alleati del governo. Tra le persone che ne trarrebbero vantaggio c’è Selahattin Demirtaş, leader dell’Hdp attualmente in prigione. Dopo il 2015, quando sono state abbandonate le trattative con i separatisti del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), l’Akp è diventato sempre più ostile nei confronti della minoranza curda, che rappresenta tra il 15 e il 20 per cento della popolazione. Dal 2018 Erdoğan governa con il sostegno del Partito del movimento nazionalista (Mhp), fermamente contrario a qualsiasi concessione ai curdi.
L’alleanza dei partiti d’opposizione comprende anche una formazione nazionalista, il Buon partito, nata da una scissione all’interno dell’Mhp, quindi il suo manifesto contiene poche aperture alle aspirazioni dei curdi. Ma mentre Erdoğan considera i partiti curdi dei fantocci del Pkk, Kılıçdaroğlu condanna il tentativo di presentare tutti i curdi come estremisti. L’Hdp ha formalmente appoggiato Kılıçdaroğlu, la cui elezione, pur non risolvendo tutti i problemi dei curdi, abbasserebbe notevolmente la tensione.
Anche nel campo della politica estera è evidente la distanza tra il governo e l’opposizione, almeno nei toni. Il disprezzo di Erdoğan per i diritti civili e la sua retorica nazionalista complicano i rapporti con l’occidente, nonostante i recenti sforzi di entrambe le parti per ricucire gli strappi. La Turchia ha bloccato l’adesione della Svezia alla Nato, accusandola di ospitare terroristi curdi. Ankara inoltre dipende dall’aiuto della Russia, che le fornisce gas a prezzi ridotti, generosi prestiti e sostegno tecnico, come quello per la costruzione della centrale nucleare di Akkuyu.
Un collaboratore di Kılıçdaroğlu ha dichiarato che se lui vincesse le elezioni la Svezia potrebbe entrare nella Nato nel giro di un mese. L’opposizione si è impegnata a migliorare i rapporti con l’Unione europea, anche se prima l’Europa dovrà superare la sua paura dell’immigrazione dalla Turchia. Ma non è favorevole a sostenere l’Ucraina in modo incondizionato, e ritiene che la guerra potrà concludersi solo con un negoziato. Ankara, insomma, continuerebbe a considerarsi una potenza regionale che merita rispetto anche se Kılıçdaroğlu dovesse diventare presidente, ma avrebbe un atteggiamento meno aggressivo. Tutti questi cambiamenti, comunque, saranno possibili solo se l’opposizione vincerà le elezioni. È un fronte eterogeneo. Il Partito popolare repubblicano (Chp) di Kılıçdaroğlu è rimasto legato per anni all’eredità laicista di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, opponendosi a qualsiasi manifestazione della fede islamica. La leader del Buon partito Meral Akşener è stata ministra dell’interno negli anni novanta, quando le violazioni dei diritti umani nel sudest del paese a maggioranza curda hanno raggiunto l’apice. Tra le altre figure di spicco ci sono un ex primo ministro di Erdoğan, un ex ministro dell’economia e un noto islamista che, fino a pochi anni fa, sosteneva che la Turchia avrebbe dovuto tagliare ogni legame con l’Europa per creare un’Unione islamica.
Questa coalizione improbabile ha messo da parte a poco a poco le divergenze e moderato le posizioni. Akşener presenta il Buon partito come una forza di centrodestra.
Kılıçdaroğlu ha avviato la trasformazione del Chp da fossile kemalista a partito socialdemocratico moderno, rendendolo più appetibile per gli elettori curdi. Dopo mesi di trattative l’opposizione è riuscita a pubblicare un manifesto di duecento pagine e si è accordata sulla candidatura di Kılıçdaroğlu, nonostante i timori sulla sua mancanza di carisma.
Il volere del popolo
L’opposizione è sicuramente in grado di vincere. Alle amministrative del 2019, anche grazie ai voti dei curdi, ha inflitto a Erdoğan una pesante sconfitta, battendo l’Akp in quattro delle principali città del paese. Gli ultimi sondaggi indicano che la battaglia sarà serrata sia alle parlamentari sia alle presidenziali.
Per conquistare la presidenza al primo turno è necessario superare il 50 per cento dei voti. Considerando che ci sono altri candidati oltre a Erdoğan e Kılıçdaroğlu, sembra più probabile che si decida tutto al ballottaggio del 28 maggio.
Alcuni sostenitori dell’opposizione temono che Erdoğan possa rifiutarsi di cedere il potere in caso di sconfitta. “Il mio popolo non regalerà questo paese a un presidente sostenuto [dal Pkk]”, ha tuonato Erdoğan il 1 maggio. Pochi giorni prima il ministro dell’interno aveva lanciato l’allarme su un possibile “colpo di stato politico sostenuto dall’occidente” nel giorno delle elezioni.
Questa retorica alimenta il timore che Erdoğan, magari spinto dalla sua cerchia ristretta, possa alterare o contestare il risultato delle elezioni, soprattutto in caso di una sconfitta di misura. Dopo tutto l’Akp ha già provato a farlo in occasione delle elezioni municipali di Istanbul, convincendo la magistratura a ordinare di ripetere il voto che però si è chiuso con una sconfitta ancora più netta. Tre anni dopo il candidato vittorioso è stato condannato per offese a pubblici ufficiali.
Ma i politici di opposizione cercano di sminuire questi timori, dicendosi fiduciosi che il voto sarà regolare e che Erdoğan non oserà sfidare il volere del popolo, da cui dipende la sua legittimità. “Può ricorrere a qualsiasi espediente”, ha dichiarato Kılıçdaroğlu, “ma il paese ha preso la sua decisione”. Se avrà ragione le elezioni saranno uno spartiacque, per la Turchia e per il resto del mondo. ◆as
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati