Il corpo dell’autore è presente in ogni scatto di Private scenes, un lavoro composto da due serie fotografiche che Masahisa Fukase ha realizzato nell’ultimo periodo della sua vita. A volte il suo volto, sfocato, in primo piano, occupa gran parte dell’immagine; altre volte sono la mano, il braccio o le dita di un piede. Una delle serie è Letters from journeys del 1989, un insieme di immagini scattate in diverse città del mondo; l’altra è Private scenes ’92, sulla sua vita a Tokyo, in cui il fotografo è intervenuto su ogni stampa colorandola. La prima serie, in bianco e nero, fu esposta a Tokyo alla fine del 1990 e poi a Osaka nel 1991. Quella colorata fu presentata al Ginza Nikon salon, a Tokyo, nel 1992. Tre mesi dopo la mostra, Fukase cadde ubriaco per le scale del suo bar preferito. In passato gli era già capitato, ma quella volta il trauma cranico segnò la fine della sua carriera artistica. Colpito da gravi perdite di memoria e incapace di parlare, Fukase passò i successivi vent’anni in un reparto di terapia intensiva prima di morire, nel 2012, lasciando dietro di sé diversi misteri. Private scenes è un lavoro che sembra una sorta di testamento fotografico, anche se l’autore non l’ha mai dichiarato esplicitamente. Ma è anche una riflessione sulla fotografia, sull’autoritratto, sull’identità del fotografo e sul suo posto nel mondo.
In queste immagini Fukase si presenta quasi come un oggetto estraneo alla fotografia. Un grande sperimentatore, che si è sempre tenuto ai margini. All’inizio della sua carriera si era chiesto: “Cosa succederebbe se scattassi da un punto che posso raggiungere con la mia mano, anziché usare l’autoscatto per fotografarmi a distanza?”. Questa curiosità lo portò a fare foto per strada in cui spesso è il personaggio principale. Immagine dopo immagine, i suo piccoli baffi diventarono una sorta di firma. Le foto sono enigmatiche, un’anticipazione dei selfie, ma senza narcisismo. Riflettono le inquietudini di un fotografo che inquadra il soggetto e diventa a sua volta l’oggetto dell’immagine.
“Il mio io che vede è anche l’io che è visto. Ogni volta che inquadro con il mirino, sono a mia volta osservato. (…) Sono arrivato al punto di chiedermi come appaio in quanto parte integrante di questo processo”. Fukase affermava da tempo che “il soggetto dello sguardo è anche il suo oggetto”. L’autore, che dedicò migliaia di immagini ai suoi adorati gatti, diceva: “Non volevo fotografare dei gatti magnifici o adorabili, ma il loro affetto per me, così come appariva riflesso nei loro occhi”.
Fukase è nato nel 1934 a Bifuka, un villaggio dell’isola di Hokkaidō. Era il maggiore di tre figli e i suoi genitori gestivano lo studio fotografico fondato dal nonno. A un certo punto si trovò nella difficile situazione di dover scegliere tra due pratiche della fotografia: l’attività commerciale familiare e l’espressione creativa personale. Al liceo cominciò a interessarsi alla fotografia realista, che attirava molti fotografi desiderosi di documentare i cambiamenti avvenuti in Giappone dopo la guerra. A capo di questo movimento c’erano Ken Domon e Ihei Kimura, che portavano avanti una fotografia di tipo documentario. I due autori ebbero una grande influenza nel paese, orientando i fotografi verso le problematiche dell’epoca. Fukase cominciò a inviare i suoi lavori a varie riviste del settore e nel 1952 si trasferì a Tokyo, dove frequentò il dipartimento di fotografia della facoltà di arte dell’università Nihon. Ufficialmente si era iscritto per prendere in mano lo studio di famiglia, ma una volta laureato decise di non tornare in Hokkaidō e rimanere a Tokyo. Alla fine fu il fratello minore a occuparsi dello studio.
Negli anni sessanta lavorò in un’agenzia pubblicitaria e in una casa editrice. Realizzò anche dei progetti per alcune riviste, portando avanti le sue ricerche personali. Il lavoro su commissione Seiyusho no sora (cielo sopra una raffineria di petrolio) del 1960 gli permise di fare la sua prima mostra l’anno successivo. Tra il 1974 e il 1976 collaborò con Nobuyoshi Araki, Shōmei Tōmatsu, Hosoe Eikoh e Daidō Moriyama alla scuola Workshop, uno dei centri più importanti di fotografia giapponese degli anni settanta. Fukase è stato anche uno dei maggiori fotografi del butō, la danza nata negli anni cinquanta in Giappone in cui i danzatori sono spesso nudi con i corpi dipinti di bianco. Nel 1987 scattò l’immagine di copertina dell’album 7000 danses del gruppo francese Indochine. Per dieci anni, dopo aver divorziato, Fukase lavorò sui corvi in modo ossessivo. Da quelle foto è nato il libro The solitude of ravens, che ancora oggi è un punto di riferimento per l’editoria fotografica.
Mettendosi ai margini dell’inquadratura, l’autore diventa un personaggio che sta scomparendo, una sorta di fantasma che infesta il mondo ma non lo occupa veramente, al tempo stesso soggetto e oggetto della foto. Per questo motivo si chiede: “Esiste qualcosa che possa avvicinarsi di più all’essenza della fotografia di un’ombra?”.
A modo suo Fukase ha anche dialogato con la tradizione. Nello studio di famiglia imparò la tecnica della colorazione dei ritratti, usata per abbellire l’immagine e avvicinarla ai colori reali. Fukase fece esattamente l’opposto, colorando le sue stampe in modo violento, volutamente trascurato. Un modo per dare nuova forza all’immagine e al tempo stesso distruggere il suo aspetto iniziale, fotografico. Con i suoi tocchi brutali dà corpo a una sorta di malessere. “Fin dall’inizio ho fotografato solo me stesso”, diceva con lucidità. E così fece fino alla sua ultima serie. ◆adr
◆ Nel volume Private scenes di Masahisa Fukase (Atelier EXB 2023) le foto sono accompagnate da un testo di Masako Toda, critica e storica della fotografia.
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Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati