La musicista danese Astrid Sonne non si fa problemi ad affrontare argomenti importanti nel suo terzo album. Dopo un breve preludio con flauto e viola, in Do you wanna chiede con voce fredda, accompagnata da percussioni instabili, “Vuoi avere un figlio?”, per poi rispondere “Io proprio non lo so”. Cantare, e farlo in maniera vulnerabile, è una novità per lei. Finora Sonne aveva evitato di scrivere testi mentre Great doubt si pone come il lavoro di una cantautrice che ha messo da parte l’astrazione per condividere una parte più intima di sé. Negli arrangiamenti scheletrici e nell’ambivalenza del racconto si sente l’influenza dell’rnb ermetico della collega inglese Tirzah. Come negli album precedenti, Sonne resta in un’atmosfera cupa e misurata ma stavolta preferisce virare verso la malinconia. I contrasti abbondano: chitarre sintetizzate e viole vere, drum machine e percussioni acustiche, pad e arpe. Le contraddizioni vengono messe a fuoco in particolare su un paio di canzoni che si susseguono, Everything is unreal e Staying here. Nonostante le differenze musicali, la narrazione si sovrappone: entrambe sono ambientate in un parco, ma se la prima è triste e paranoica la seconda è gioiosa. Per una musicista che non scriveva testi questo è un numero notevole, prova del fatto che i suoi istinti pop sono singolari tanto quanto i suoi paesaggi sonori.
Philip Sherburne, Pitchfork
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati