Mentre continua a crescere il numero delle vittime nella Striscia di Gaza (quasi trentamila morti) e proseguono le azioni legali contro Israele alla Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aja, diventa sempre più chiara la ragione della catastrofica guerra scatenata dal governo di Benjamin Netanyahu in risposta al massacro del 7 ottobre 2023. Hamas non fa parte della soluzione. Ma la sua scomparsa non eliminerebbe il problema di fondo: 57 anni di occupazione permanente del territorio palestinese e l’espansione delle colonie illegali in Cisgiordania.
La prima causa arrivata alla Cig è quella presentata dal Sudafrica contro Israele, accusato di aver violato a Gaza la convenzione sul genocidio. La seconda è la richiesta dell’assemblea generale dell’Onu per un parere consultivo sugli effetti giuridici dell’occupazione. Il 27 febbraio, il giorno in cui Israele doveva presentare il suo rapporto sulle richieste presentate dalla Cig un mese fa, l’ong Human rights watch ha denunciato che Tel Aviv non le ha rispettate. Tra queste la fine dell’assedio, la ripresa degli aiuti umanitari e il divieto di attacchi indiscriminati contro i civili. Se la denuncia per genocidio si è trasformata in una vigilanza sul trattamento riservato da Israele ai palestinesi, quella sugli effetti dell’occupazione si concentra sul paragone con l’apartheid.
Oggi serve una tregua, la liberazione degli ostaggi israeliani e la normalizzazione. Per questo sono opportune le dimissioni del governo dell’Autorità nazionale palestinese, screditato dalla corruzione e delegittimato da 16 anni di potere conservato senza elezioni. È un gesto che facilita una soluzione pacifica del conflitto, che sia inclusiva e non lasci l’amministrazione dei territori occupati in mani straniere, ma la restituisca ai palestinesi in modo che possano determinare il loro destino. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati