Il singolo Bye bye mi ha colto alla sprovvista. Non avendo ascoltato il precedente No home record, ero convinto che il secondo disco solista di Kim Gordon proseguisse lo stile dei Sonic Youth. Pensandoci meglio, però, quella canzone è un’evoluzione più sensata, con quel basso distorto, i sintetizzatori abrasivi e le chitarre così dure. Fin dall’inizio della sua carriera l’artista newyorchese non ha esitato nel prendere posizioni femministe attraverso il proprio lavoro. Ora affronta il tema della mascolinità tossica con I’m a man, in cui Gordon assume la prospettiva dell’uomo, tra le percussioni della drum machine 808 e chitarre che non perdonano; qui dimostra la sua abilità nel decostruire argomenti molto discussi e dargli un punto di vista originale. In Tree house le chitarre si fanno ancora più pesanti: tra campionamenti distorti e suoni laceranti la musicista trova uno spazio perfetto per il suo racconto. Molti artisti che invecchiano fanno fatica a trovare un loro posto nell’era degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e degli influencer. Ma in The collective, Kim Gordon è imperturbabile rispetto a questi fattori e riesce a creare un’opera accessibile dall’indubbio valore artistico.
Ethan Rebalkin, Northern Transmissions

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati