Nel 2005 un artista quarantenne prestato alla letteratura pubblicò Autoportrait, una performance che fu una rivelazione. Édouard Levé creò una forma di narrazione autobiografica sperimentale tanto efficace quanto irriproducibile. Il suo testo concatena frasi fredde, neutre e apparentemente casuali che insieme formano un ritratto teso e frammentato dell’autore. Ogni frase è un’osservazione e sembra danzare come un tizzone di brace in un campo appena incendiato che si raffredda. L’argomento è scottante ma viene spogliato di ogni patina soggettiva, di ogni giudizio e di ogni moralismo. Il libro comincia così: “Da adolescente pensavo che La vita, istruzioni per l’uso (di Georges Perec) mi avrebbe aiutato a vivere e Suicide, mode d’emploi (di Claude Guillon) mi avrebbe aiutato a morire. Ho trascorso tre anni e tre mesi all’estero. Preferisco guardare alla mia sinistra. Uno dei miei amici ama il tradimento”. E così via, per 91 pagine. Due anni dopo Levé s’impiccò e il suo editore pubblicò Suicidio, un testo che Levé gli aveva consegnato poco prima. Riguardava il suicidio di un amico con il quale l’autore aveva parlato informalmente prima di fare come lui. In Levé l’ansia non si oppone al concetto, anzi lo nutre e se ne nutre. Poiché né il sole né la morte possono fissare se stessi più di quanto possiamo fare con noi stessi o con qualsiasi altra cosa, è necessario creare delle forme e mantenere le distanze. L’esistenza è una cerimonia. E la cerimonia non è priva di umorismo.
Philippe Lançon, Libération

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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati