Un terribile terremoto ha colpito la notte di venerdì 8 settembre le regioni vicine a Marrakech. Alle 23.11. Ho appreso la notizia solo la mattina dopo. Ho contattato immediatamente familiari e amici in varie città. Stavano tutti bene. Mi parlavano dell’interminabile notte di orrore che avevano passato. Avevano avuto molta paura e trascorso gran parte della notte in strada. Sui marciapiedi. Nei giardini. Nei campi. Nelle piazze. Accanto ai semafori. Avevano in qualche modo capito cosa provano i profughi percorrendo le fredde strade dell’esilio. Senza avere nient’altro che il cielo e la terra.
Poi ho cominciato a seguire le notizie in tv e sui social network. Come molte persone, volevo vedere le immagini della catastrofe. Nei brevi video che circolavano su Instagram, Facebook e YouTube, abbiamo visto una verità cruda, schiacciante. Abbiamo visto il Marocco dei dimenticati che soffrono, cadono e piangono senza sosta. Questo terribile terremoto ha colpito la grande Marrakech, però ha causato la maggior parte delle vittime nei villaggi e nelle piccole città. Iguil. Moulay Brahim. Amizmiz. I dintorni di Taroudant. Le immagini mostravano villaggi completamente distrutti, case crollate come castelli di carte, moschee rase al suolo, minareti spezzati. I sopravvissuti vagavano, cercavano, non sapevano cosa dire, piangevano e riprendevano a vagare. Aspettavano che il governo mandasse qualcuno a soccorrerli. A confortarli. Ma avevano ancora un po’ di speranza.
Tuttavia, verso sera, quella speranza era svanita. La rabbia cresceva. Abbiamo scoperto le vite e le storie di un Marocco abbandonato, distante meno di cento chilometri da Marrakech e dai suoi palazzi lussuosi. Le persone cominciavano a sfogarsi. Su Twitter un’insegnante ha scritto: “Tutti i miei studenti sono morti”. Un altro insegnante, un altro tweet: “Tutti i miei alunni sono morti”. Un video mostrava un uomo addossato a un muro: aveva appena perso la moglie e tutti i figli, voleva gridare, non ci riusciva, voleva parlare dell’ingiustizia di essere povero, di essere uno di quelli che non contano. Ma non ci riusciva, tremava e alla fine diceva: “Non siamo anche noi parte del Marocco?”.
Questa domanda ha dato fastidio a molti marocchini. È nella mente di tutti. In tutti i cuori. In tutte le coscienze. Come il j’accuse di Émile Zola. Non possiamo più far finta di non sapere come vivono i poveri. Quelli che bisogna tenere nascosti. Pensavamo che fossero lontani. Invece sono vicini. Il terremoto li ha fatti uscire allo scoperto. La loro miseria si è mostrata a tutto il mondo.
Vite precarie
Il pil del Marocco continua a crescere da anni. Ma la ricchezza non raggiunge tutti. Lo sapevamo. Ora ci rendiamo perfettamente conto dell’esclusione, dell’emarginazione. Un anno e mezzo fa, in un piccolo villaggio del nord del paese, un bambino, Rayan, è caduto in un pozzo. La sua tragedia ha sconvolto il mondo. Il suo triste destino ha rivelato la vita dura e l’assoluta precarietà dei poveri in Marocco.
Dalla notte dell’8 settembre il terremoto ci ha costretti a guardare di nuovo questa parte del paese. Il Marocco che non ha nulla. Wallou (“niente”, in dialetto locale). Ma questa volta non dobbiamo accontentarci di una solidarietà di facciata. Qualcosa deve cambiare. A partire dallo sguardo profondo del potere sui suoi cittadini. ◆ fr
Abdellah Taïa è uno scrittore e regista marocchino che vive in Francia. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è La vita lenta (Funambolo 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati