Dire che fin da bambino ho sempre sognato di fare il marinaio sarebbe una bugia bella e buona. In Kazakistan, il mio paese d’origine, abbiamo solo il mar Caspio, che in realtà è un lago. Tutt’intorno ci sono steppe ed erba che ondeggia al vento.
Ci ho messo un bel po’ a capire cosa volevo fare nella vita. Non volevo stare in ufficio, questo era poco ma sicuro. L’idea di passare l’esistenza a scaldare la sedia davanti al computer, accontentandomi di qualche distrazione nel weekend, non mi attirava affatto. Volevo la libertà. È così ho scelto l’accademia navale.
Il mondo senza segreti
“Trecentosessanta giorni di attività in mare, in tutti i mari”, prometteva lo slogan dell’opuscolo pubblicitario. Al resto ha provveduto la mia immaginazione. Mi vedevo nei panni di Phileas Fogg che fa il giro del mondo, oppure in quelli di un coraggioso marinaio che spiega gagliardamente le vele sotto possenti raffiche di vento. Coste lontane e inesplorate mi facevano girare la testa: avevo sempre desiderato vedere il mondo. E così ho fatto domanda di ammissione.
Cantieri navali, diritto marittimo, navigazione: l’accademia navale non è stata una passeggiata. Al terzo anno, però, sapevo già da cosa dipendono i fenomeni naturali in mare, ero in grado di tracciare una rotta, di navigare e leggere carte nautiche. Il mio futuro lavoro prometteva un buon reddito: in Kazakistan i marittimi sono pagati piuttosto bene. Nel mio paese lo stipendio medio è l’equivalente di 300 dollari al mese, e un ufficiale della marina appena laureato ne prende quasi duemila, tra 700mila e 800mila tenge, la valuta nazionale kazaca. Ma i soldi non mi interessavano più di tanto. L’importante per me era altro: avevo scelto quella carriera quasi per caso e non sapevo se il tipo di vita che mi aspettava facesse per me. Cosa significa essere un marinaio? Come ci si sente a stare in mare per mesi e mesi?
Alle spalle avevo già un po’ di esperienza su un veliero e diversi mesi su una petroliera nel Caspio, ma la risposta a questi interrogativi non l’avevo ancora trovata. Finalmente arrivò il giorno in cui ci chiamarono – me e un mio compagno di corso di nome Nurbolat – per una lunga traversata: dovevamo imbarcarci su un cargo della compagnia cinese Cosco, tra i leader mondiali nel trasporto marittimo.
Lontano dal Caspio
A dire la verità né io né Nurbolat avremmo dovuto ritrovarci lì. La nostra prima destinazione fu determinata dai risultati di un esame orale su tutte le materie del secondo anno. Benché fossimo entrambi abbastanza bravi, avevamo superato la prova con un punteggio medio: 75/100. Questo significava che avremmo dovuto passare la seconda metà dell’anno a trasportare petrolio sul Caspio: una noiosa rotta giornaliera da Machačkala ad Aqtau e ritorno. È vero che fare il marinaio per la prima volta è sempre emozionante, ma non era questo che avevamo immaginato quando ci eravamo iscritti all’accademia navale.
Fummo fortunati, però: all’ultimo momento una grande compagnia cinese, nata dalla fusione di due grosse aziende decisa dal governo, accettò di assumere due stagisti. Necessariamente di sesso maschile. Questo requisito giocò a nostro favore. E così, invece di andare nel Caspio, ci precipitammo a fare i documenti e a richiedere il visto. Burocrazia, voli, un po’ di nervosismo, e alla fine eccoci al porto di Zhoushan, di fronte a una nave chiamata Xiang He Kou, che in cinese vuol dire “fortunata”.

Diciotto piani, più di duecento metri di lunghezza. La nave era talmente enorme che per raggiungere la cabina del comandante, all’ultimo livello, bisognava prendere l’ascensore. Il comandante, che chiamavamo “master”, era un signore cinese piuttosto alla mano. Di statura leggermente superiore alla media, con un fisico asciutto, calvo alla sommità del capo, parlava benissimo l’inglese ed era molto curioso e cortese. Dopo averci offerto il tè, ci chiese com’era andato il viaggio, dei nostri studi e del nostro paese. Per i cinesi eravamo una novità: era la prima volta che la Xiang He Kou ospitava due cadetti kazachi, e il comandante sembrava andarne particolarmente fiero.
Ci fece conoscere la nave gradualmente. L’equipaggio era formato da ventidue persone: il comandante, gli ufficiali, il nostromo, i marinai, i meccanici e, per nostra sorpresa, un commissario politico. Il suo compito era istruire politicamente gli uomini in modo che non cedessero allo “spirito del capitalismo”. Come la maggior parte dei marinai, il commissario non parlava inglese, quindi con lui e con gli altri, fatta eccezione per gli ufficiali, dovevamo comunicare a gesti. Ci assegnarono ad alcuni ufficiali, ci presero le misure e ci lasciarono riposare.
Pochi giorni dopo, quando l’equipaggio ebbe finito i preparativi e Nurbolat e io fummo dotati di tutto il necessario per la navigazione e vaccinati contro il colera, la nave salpò. Guardavo la riva che si allontanava e sentivo che, per qualche ragione, respirare stava diventando più facile. Non era, però, un’improvvisa sensazione di libertà: avevo notato quanto era sporco il mare vicino alla costa, pieno di rifiuti e sacchetti di plastica, privo di ogni forma di vita. Fu questa la mia prima impressione del viaggio.
Sul ponte di comando
La prima tappa fu un porto coreano sull’isola di Okpo. Una volta caricata la merce, ci dirigemmo verso sud, in direzione di Singapore, com’era previsto dal nostro itinerario. Lì avremmo fatto il pieno di carburante per attraversare l’oceano Indiano. Poi ci aspettavano il canale di Suez, il mar Mediterraneo, il canale della Manica e, infine, la nostra destinazione: la Finlandia. Per compiere il tragitto ci sarebbero voluti 45 giorni. Era affascinante. Nurbolat e io non avevamo mai fatto un viaggio così lungo, e ci stavamo già pregustando l’avventura.
In qualità di futuri ufficiali chiedemmo al comandante di assegnarci dei turni di guardia per poter testare le nostre capacità di navigazione invece di essere relegati alla pulitura del ponte. Il turno di guardia dura 24 ore. Il ponte di controllo era enorme: una spaziosa timoneria rettangolare con due piattaforme aperte ai lati, ciascuna con una sua bussola e un suo quadrante con i comandi; anche i dispositivi di navigazione erano due.

Pesanti tende di velluto separavano la zona anteriore del ponte di comando da quella posteriore. La maggior parte del turno la passavamo accanto al timone. Sulle navi moderne la navigazione è un’operazione piuttosto banale: un ufficiale traccia un percorso sulle mappe elettroniche, quindi regola il pilota automatico in modo che la nave segua la rotta prescelta. Il controllo manuale serve solo nelle situazioni di grande traffico e, naturalmente, quando si entra e si esce dal porto. Anche il timone non somiglia più al suo famoso antenato: sembra piuttosto il volante di un’automobilina radiocomandata.
Nella parte posteriore del ponte di comando c’erano dei divanetti e i pannelli per il controllo di zavorra, stabilità e carburante. Ma la cosa fondamentale era un’altra: avevamo scoperto una macchina da caffè che macinava i chicchi al momento. Io e Nurba (lo chiamavo così per brevità) ci innamorammo subito di quell’angolo della nave. Con le sue cabine e la postazione di comando, si trovava a prua e offriva una vista perfetta su tutto il ponte.
Nella timoneria c’era anche una zona dove consultare le carte nautiche, con un grande tavolo, scaffali pieni di libri e computer. Qui lavorava il timoniere. C’erano moltissime carte. La nostra nave, del resto, aveva viaggiato in tutto il mondo: aveva consegnato merci in Brasile, Europa e Russia, e aveva perfino percorso la rotta del mare del Nord, cioè il percorso che attraversa il mar Glaciale Artico lungo le coste della Russia settentrionale, e che si fa solo con l’aiuto di un rompighiaccio a propulsione nucleare. La rotta del nord fa risparmiare alle navi cinesi migliaia di litri di carburante e tra i 15 e i 20 giorni di viaggio. La timoneria era anche il posto dove si scriveva il diario di bordo, ovviamente in cinese. Dovettero farne una copia in inglese apposta per noi. Alla fine di ogni turno bisognava inserire la rotta, l’ora, le condizioni atmosferiche, gli orari dell’alba e del tramonto e altre informazioni.
Notte e giorno
La prima regola del lavoro del navigatore è arrivare sul ponte in anticipo per fare abituare gli occhi all’oscurità e dare al collega che finisce il turno il tempo di verificare l’idoneità al lavoro di chi lo sostituisce. Io dovevo stare di guardia con il secondo ufficiale che, secondo la gerarchia della nave, viene subito dopo il primo ufficiale di coperta. Parlava un ottimo inglese, che aveva imparato vedendo le sue serie preferite in tv. “Quando sei di guardia devi stare in piedi tutto il tempo, osservare gli strumenti e cosa succede fuori dal finestrino”, mi disse subito. “Per andare in bagno hai cinque minuti; lo stesso tempo per bere il tè o prendere appunti al tavolo di navigazione”.
Sulla nostra nave “fortunata” vigeva l’ordine. L’intero perimetro del ponte era disseminato di telecamere. Eravamo sorvegliati 24 ore su 24, sette giorni su sette: negli uffici della compagnia in Cina c’erano diversi dipendenti incaricati di controllare l’equipaggio della nave in ogni istante. Un ufficiale di nome Ren raccontò di un navigatore che era stato licenziato perché si era appisolato diverse volte durante il lavoro.
Il turno di guardia di giorno è molto diverso da quello della notte. Durante il giorno le altre navi in mare si vedono bene, inoltre il comandante o gli altri ufficiali di tanto in tanto fanno un salto sul ponte per scambiare due chiacchiere. Puoi anche osservare l’orizzonte con il binocolo senza il rischio che qualcuno venga a dirti che stai perdendo tempo. Di notte, invece, il ponte si trasforma: è completamente avvolto nel buio, ma non te ne accorgi subito. Il turno comincia quando il disco solare sta lentamente scomparendo e il crepuscolo cede impercettibilmente il passo all’oscurità totale, disturbata solo dalla luce del radar e dal luccichio dei velieri di passaggio.

Al largo delle coste della Cina e della Corea s’incontrano spesso barche da pesca con grandi riflettori accesi, usati per attirare e catturare i pesci in reti gigantesche. Ma la luce intensa è un problema per le altre navi: abbaglia i navigatori, rende più difficile scorgere le altre grandi imbarcazioni in mare e regolare la propria rotta per evitare le collisioni. In quelle situazioni cominci a strizzare gli occhi, a sbirciare nel binocolo e a sbattere le palpebre per cercare di ritrovare la vista.
In ogni modo, i miei primi turni notturni andarono bene: tutto mi sembrava sconosciuto, non avevo sonno e chiacchieravo con l’ufficiale. La situazione era perfetta per conversare in piena tranquillità. Lui mi chiedeva del Kazakistan e degli studi all’accademia, a me invece interessava conoscere il suo rapporto con il lavoro in mare: gli piaceva davvero? “A essere onesti, no”, mi rispose Ren con un sorriso triste. “Trascorro troppo tempo lontano da casa e non vedo quasi mai la mia famiglia. Le vacanze sono brevissime, non ho nemmeno il tempo di rilassarmi. Poi ricomincia la solita routine”. Chiacchierando con lui mi resi conto che la Cina è un paese molto competitivo. Attirati dai buoni salari, molti cinesi vanno per mare. E per anni fanno un lavoro che non amano solo per denaro.
Canale 16
Un paio di giorni dopo, il comandante annunciò che eravamo arrivati in porto in anticipo. Prima di noi c’era un’altra nave da caricare, così ci ancorammo nelle vicinanze in attesa del nostro turno.
Eravamo in Corea per caricare dei moduli speciali, che avremmo dovuto portare fino in Finlandia. Lì l’attrezzatura sarebbe stata caricata su un’altra nave che avrebbe solcato i fiumi della Russia e, passando per Astrachan, sarebbe arrivata in Kazakistan. Il nostro lavoro faceva capo a un progetto per lo sfruttamento del più grande giacimento petrolifero scoperto degli ultimi trent’anni: quello offshore di Kashagan, nel Caspio. A inviare gli enormi moduli che stavamo trasportando, necessari per separare il petrolio greggio dai gas naturali, era stata una grande compagnia statunitense che aveva investito nel progetto. Tutte le fasi del lavoro erano importanti, anche l’arrivo in Kazakistan. Per questo la compagnia cinese, in qualità di vettore principale, aveva preso a bordo due cadetti kazachi.
Quando finalmente entrammo in porto, cominciò il lavoro sul carico: i quattro enormi moduli issati a bordo furono letteralmente saldati al ponte, di modo che non cadessero in acqua durante le tempeste.

La sosta in porto durò due settimane. Io e Nurbolat ci annoiavamo, ma di scendere a terra non se ne parlava nemmeno. In compenso il comandante ci fece avere bibite e cioccolatini. Ci mancavano molto queste piccole gioie del palato: procurarsele non era facile, perché i cinesi praticamente non mangiano dolciumi. Non meno difficile fu abituarsi alle altre consuetudini culinarie dell’equipaggio. Dopo tre settimane sulla nave capimmo che i cinesi mangiano sempre riso. Era il principale accompagnamento del pranzo e della cena, tutti i giorni. Allora non sospettavamo ancora che nell’arco di sei mesi ce ne saremmo innamorati, ma stavamo già cominciando a farci l’abitudine.
Il 30 marzo lasciammo la Corea e ci dirigemmo verso la Malaysia per fare rifornimento. A metà percorso il comandante decise di organizzare una piccola festa per l’equipaggio: bisognava celebrare il buon inizio del viaggio. Secondo la tradizione cinese, è il capo che invita i subalterni e li fa bere come spugne per tutta la sera. Per i cinesi fu uno spasso: karaoke a squarciagola, birra a fiumi e divertimento fino a mezzanotte. Facevano eccezione solo gli ufficiali che dovevano stare di guardia.
Capivo la loro tristezza: a volte fare i turni di guardia era particolarmente deprimente. Per passare il tempo spesso si ascoltava la radio: fu proprio una sera che ero di guardia, e non durante una festa, che sentii cantare in cinese per la prima volta.
Tutte le navi hanno una stazione radio. La comunicazione avviene tramite frequenze ultra alte (Uhf), che consentono lo scambio di messaggi entro un raggio di sedici chilometri. Per scambiarsi messaggi urgenti e inviare segnali di soccorso, le navi usano il canale 16, che deve sempre rimanere libero. Tuttavia lo si può usare per contattare la nave con cui si desidera parlare e proporle di passare su un’altra frequenza.
Sulle coste asiatiche, tuttavia, queste regole di comunicazione non erano molto rispettate. Non sapendo come passare il tempo, spesso e volentieri i marinai e gli ufficiali di diverse navi cominciano a discutere via radio delle cose più disparate. Talvolta, di sera, può capitare di sentire un flusso di mormorii e imprecazioni senza senso o qualcuno che canta. E non c’è modo di sapere chi sia: l’anonimato è totale. Io e Nurbolat trovavamo la cosa molto divertente e a tratti eravamo perfino tentati di rispondere qualcosa, ma sulla nostra nave era richiesta la massima disciplina. Così ci limitavamo ad ascoltare gente che cantava canzoni cinesi .
Arrivano i pirati
Dopo aver fatto rifornimento a Singapore, costeggiammo la Malaysia per immetterci nell’oceano Indiano, dove ci stavano già aspettando gli agenti della sicurezza assunti dalla Cosco per proteggere la nave. All’inizio, quando sentii parlare di loro dal comandante, immaginai uomini rudi e muscolosi, ma la realtà si dimostrò diversa dalle mie aspettative.

Quella notte mi addormentai dopo il turno di guardia e mi persi il momento in cui salirono a bordo. La mattina dopo sul ponte di comando trovai, oltre ai soliti strumenti, casse piene di armi ed equipaggiamento militare. Un paio d’ore più tardi le guardie si stavano presentando ufficialmente ai marinai. Erano tre nepalesi di bassa statura: bonari e pancioni, sorridenti e amichevoli.
In seguito venni a sapere che le aziende spesso assumono solo nepalesi come addetti alla sicurezza e molti emigrati prestano servizio nell’esercito dei paesi in cui vivono, per esempio l’Austria, la Germania o il Regno Unito. Molti sono stati in missione in Iraq o hanno partecipato ad altre operazioni internazionali. Fin dai tempi del colonialismo britannico il Nepal è sempre stato un paese di ottimi soldati, tradizione che sopravvive ancora oggi.
La presentazione degli addetti alla sicurezza sulla nave si trasformò presto in uno show. I cinesi adorano gli spettacoli, e poi sulle navi non succede mai niente di particolarmente interessante. Per divertirsi gli uomini dell’equipaggio cominciarono a lanciare in aria scatole di cartone che i nepalesi colpivano a fucilate. Poi ci furono le prime esercitazioni, in cui ci spiegarono come comportarci in caso di minaccia. La nave si stava avvicinando a una regione dove gli incontri con i pirati erano frequenti e l’equipaggio doveva essere addestrato a reagire in modo adeguato. Secondo i piani, in caso di attacco gli uomini della sicurezza dovevano trattare con gli assalitori, e solo nell’eventualità di un loro insuccesso era previsto il ricorso alla violenza. Nel frattempo il personale doveva raccogliere gli oggetti di valore e barricarsi in un punto sicuro della nave chiamato “cittadella”.
I pirati provengono soprattutto da paesi poveri, come Somalia, Etiopia e Sudan. Non hanno motivo di rischiare la vita o di uccidere. Di solito s’introducono nelle navi, rubano oggetti e denaro, e poi si dileguano rapidamente a bordo dei loro motoscafi. In passato ci sono stati sequestri di intere navi, con gli equipaggi presi in ostaggio, ma il problema è praticamente scomparso. Negli ultimi anni avvicinarsi alle navi è diventato molto difficile e quasi tutte le aziende di trasporto assumono agenti di sicurezza. Durante gli attacchi, inoltre, di solito le navi riescono a lanciare segnali di allarme, e c’è anche il fatto che le aree più pericolose di solito sono pattugliate da navi da guerra di diversi paesi.
Nel 2012 un’operazione congiunta delle forze della Nato – a cui partecipò, tra gli altri, anche il preside della nostra accademia – prese di petto il problema: individuò in questa zona di mare diverse basi di pirati e sequestrò i loro motoscafi. Da allora gli attacchi si sono notevolmente ridotti. Da qualche parte ho anche letto che spesso i pirati sono controllati dalle grandi organizzazioni terroristiche, che assoldano i ragazzi, gli forniscono le armi e gli promettono di pagarli se riescono a saccheggiare un certo numero di barche.
La sosta in porto durò due settimane. Io e Nurbolat ci annoiavamo, ma di scendere a terra non se ne parlava nemmeno
Sulla nostra nave i diversi livelli di pericolo erano indicati da tre bandiere: verde, gialla e rossa. Non appena uscimmo dallo stretto di Malacca fu deciso lo stato di massima allerta. La vita della nave cambiò radicalmente. Il lavoro sul ponte era limitato, per evitare che qualcuno potesse essere preso in ostaggio. Lungo il perimetro della nave e sul ponte di comando, cioè dove i pirati avrebbero potuto arrampicarsi più facilmente, fu montata una recinzione di filo spinato. In diversi punti del ponte furono preparate delle accette: sarebbero servite per tagliare i cavi e le funi con cui i pirati cercano di arrampicarsi a bordo.
Ogni tre o quattro giorni facevamo esercitazioni per mettere a punto le indicazioni ricevute: raccoglievamo rapidamente le nostre cose e scendevamo di corsa le scale per poi salire nella zona sicura e tornare indietro.
C’era poi un’ulteriore complicazione: per chi dirigeva la nave dal ponte di comando non era facile sapere con certezza se la barca che si trovava improvvisamente davanti era un battello di pirati o un semplice peschereccio. Entrambi procedono molto velocemente: la velocità massima di una nave da carico è di 10-12 nodi all’ora (1 nodo equivale a 1,852 chilometri), i pirati e i pescatori possono toccare i 40 nodi. Barche del genere sono in grado di cambiare rotta all’improvviso e raggiungere le navi più grandi in un baleno. In certe zone, ogni barca che s’incontra è un potenziale pericolo.
In quei momenti i turni di guardia erano molto più complicati. Ogni volta che si vedeva un puntino sospetto sul radar bisognava informare l’ufficiale: “Imbarcazione potenzialmente pericolosa sulla rotta 3-5-1”. Il comandante aveva i nervi a fior di pelle.
Una grande notizia
La rotta attraverso l’oceano Indiano è molto battuta: nel mondo gran parte delle merci viaggia dalla Cina verso l’Europa, e passando per il canale di Suez si evita di circumnavigare l’Africa. Così si risparmiano almeno dieci giorni.
Nell’oceano l’aria è molto pulita, e il cielo, incredibilmente limpido, offre una vista nitidissima delle costellazioni
L’oceano ci regalò sensazioni nuove. Prima di allora ci eravamo limitati a costeggiare la terraferma, ora invece eravamo circondati dall’acqua per centinaia e centinaia di chilometri. Superammo lo Sri Lanka e le Maldive, ma erano così lontani che la costa si scorgeva a malapena, anche con il binocolo. Io e Nurbolat ci mettemmo a ridere pensando alle promesse dell’accademia: “Farete il giro del mondo, vedrete paesi diversi”.
Di altre navi non c’era l’ombra. L’oceano Indiano è molto grande, e se lungo la costa tutti si muovono come su una strada a più carreggiate, lungo tracciati rigorosamente delimitati, in mare aperto ognuno fa ciò che vuole. Ecco la libertà. Naturalmente il secondo ufficiale calcolava il percorso in modo da accorciare il viaggio, ma in questi spazi sconfinati ogni traversata è unica. Anche se magari non troppo diversa dalle precedenti.
Io e Nurbolat avevamo consumato tutto il nostro traffico internet in pochi giorni, quando ancora non sapevamo che in mare i giga a nostra disposizione non sarebbero stati illimitati. Per un po’ pubblicammo foto e storie su Instagram, poi rimanemmo tagliati fuori dal mondo, senza notizie. Per fortuna il comandante ci concesse altri 500 mega. Così venimmo a sapere che il nostro paese aveva un nuovo presidente e che Nursultan Nazarbaev, che era al potere da prima della nostra nascita, si era dimesso. Gridammo e facemmo i salti di gioia, ma poi per giorni non riuscimmo a sapere cosa stesse succedendo in Kazakistan. Per avere notizie fresche ci toccò aspettare l’approdo successivo.
In mare aperto la radio si zittì, le canzoni asiatiche e le conversazioni tra i marinai di guardia svanirono nel nulla. Il tempo libero diventò ancora più monotono. In quei momenti l’unica salvezza era usare internet via satellite.
Nell’oceano l’aria è molto pulita, e il cielo, incredibilmente limpido, offre una vista nitidissima delle costellazioni di cui si legge a scuola nei libri di scienza. In quei giorni m’innamorai del turno di guardia notturno. Stavo su un’ala del ponte a fissare il cielo, osservavo le stelle e sapevo già identificarne molte a occhio nudo. Non ero più in compagnia del secondo, ma del terzo ufficiale. Era una persona attenta, chiusa e poco comunicativa. Si atteneva scrupolosamente alle istruzioni. Mi rimproverava se mi allontanavo per più di cinque minuti per bere un bicchier d’acqua e mi riprendeva per ogni minima cosa. Non fu facile: non mi piace l’ubbidienza fanatica alle regole. Non riuscivamo a parlare normalmente, così cercavo di passare il tempo nella parte posteriore del ponte: leggevo, osservavo le vecchie rotte seguite dalla nave e studiavo mappe.
Il pericolo sventato
I giorni passati in mezzo all’oceano non si distinguevano l’uno dall’altro. La routine quotidiana era l’unica cosa che permetteva di mantenere il controllo. Avevo letto che gli esploratori polari e le persone che hanno turni di lavoro molto lunghi spesso programmano in anticipo la propria settimana. Se il lunedì fai sport, il martedì leggi e ascolti un podcast e il mercoledì guardi un film, le giornate non si fondono in un continuum interminabile e monotono.
Tra fatica e lavoro il Mediterraneo scivolò via senza che ce ne accorgessimo. A volte salivamo sul ponte per scoprire dove eravamo
I cinesi risolvevano il problema a modo loro: bevevano birra, cantavano al karaoke e giocavano a ping-pong. Quasi ogni giorno c’era un torneo. A queste attività partecipava anche il comandante. Era un vero uomo di squadra: gli piaceva parlare con i subordinati e trattarli in modo amichevole. Spesso lo faceva anche con noi. Da vero patriota, elogiava le merci cinesi e il Partito comunista, imprecava contro Hong Kong, diceva meraviglie della Huawei, impegnata nello sviluppo del sistema 5G, e malediceva gli americani della Apple, che con i loro iPhone stavano cercando di monopolizzare il mercato. Nurbolat e io lo assecondavamo e sorridevamo: non volevamo offenderlo. Ognuno ha la propria verità, noi la pensavamo in modo diverso.
La rotta attraverso l’oceano e la bandiera gialla attenuarono un po’ lo stato di allerta generale. Poi, il 24 aprile, entrammo nel golfo di Aden, la parte più pericolosa del percorso.
Eravamo vicini alla costa e subito fummo circondati da diverse barche di piccola taglia. La bandiera gialla cambiò colore e diventò rossa. Nei giorni successivi dormimmo abbracciati ai giubbotti di salvataggio, con accanto gli zaini già riempiti e il casco sotto il cuscino per scattare in piedi e scappare in caso di attacco. Tutte le luci della nave furono spente. Anche gli uomini della sicurezza, generalmente sorridenti, si fecero seri.
Il trambusto e lo stato di costante allerta non furono vani. Ogni notte ci passavano vicine navi sospette, alcune ci seguivano, ma poi spegnevano i motori e ci lasciavano in pace. Il tentativo di attacco si verificò di giorno.
Una barca piccola e agile, simile a un peschereccio, si lasciò superare, poi d’improvviso accese il motore e puntò verso di noi. Io ero sul ponte di comando, al timone; l’ufficiale informò subito il comandante. Con il binocolo vedemmo che sulle barca c’erano molte persone. Pirati.

Il comandante mi ordinò immediatamente di disattivare il pilota automatico, prendere il controllo e virare di 15 gradi. Anche le guardie presero posizione; il comandante chiamò il nostromo e gli disse di avvertire l’equipaggio. Cominciammo a prepararci per l’attacco. Ero preoccupato e spaventato. Mi vennero subito in mente le immagine degli ufficiali feriti, del sangue e dei vetri rotti sul ponte che avevo visto nei capitoli dedicati alla pirateria dei manuali di addestramento.
Tenevo il timone, eseguivo meccanicamente gli ordini e improvvisamente mi sorpresi a pensare a cosa avrei potuto portare con me nella “cittadella”. “Se i pirati irrompono sulla nave, andranno sicuramente nelle cabine in cerca di oggetti di valore. Devo assolutamente prendere il portatile e infilare lo stipendio nello zaino”, pensai, continuando a manovrare il timone. I pirati si fermarono a un miglio da noi e mantennero le distanze per un po’, forse per studiare la situazione. Poi, alla vista delle guardie, virarono e scomparvero in lontananza. Probabilmente si erano resi conto che la nave era troppo grande e, per di più, protetta da uomini armati. Attaccarla sarebbe stato troppo pericoloso.
Passaggio a Suez
Ben presto la bandiera rossa fu sostituita da quella gialla e poi da quella verde. Arrivati nel mar Rosso, dicemmo addio alle guardie. In quella zona avevano una base dove aspettare un’altra nave che avesse bisogno di protezione.
Il mar Rosso portò con sé nuove sensazioni: l’aria era più salata e l’umidità diminuiva. È uno dei mari più ricchi e con maggiore biodiversità. Si vedevano ovunque pesci di ogni tipo e, osservando con il binocolo, anche pinne di squalo.
Alla fine di aprile eravamo in prossimità del canale di Suez, uno dei passaggi più importanti del nostro percorso. Il canale fu costruito dai francesi in collaborazione con l’Egitto e sotto la supervisione dell’impero Ottomano; diventò presto uno snodo strategico fondamentale e più volte è stato causa di guerre e crisi diplomatiche. Oggi è l’Egitto a ricevere la maggior parte dei profitti generati dal traffico marittimo: insieme al petrolio e al turismo, il canale contribuisce a una quota significativa del suo pil.
Il caldo era sempre più soffocante: la maglietta si appiccicava alla pelle e nemmeno la brezza marina era di sollievo. Dalla nave si vedeva la costa, la radio trasmetteva di nuovo messaggi in diverse lingue. Per la prima volta da settimane sentii l’odore della terra arata di fresco: una sensazione piacevole e insolita. Non era successo niente di speciale, ma si percepiva un certo senso di gioia. Forse era semplicemente per il nuovo paesaggio, dopo la monotonia dell’oceano. Eccola finalmente la terra: persone, automobili, alberi, piante.

Il canale di Suez è molto stretto: possono attraversarlo solo due navi alla volta. Ovviamente di sorpassare non se ne parla nemmeno. Quindi si aspetta per ore o ci si muove alla velocità minima. Verso l’ora di pranzo salì a bordo il primo pilota locale, un dipendente del porto. Un altro marinaio anziano, con esperienza da navigatore, rimane a terra e aiuta le navi a orientarsi. A causa delle ridotte dimensioni del canale, per attraversarlo serve la collaborazione di tre persone: ognuno si occupa di un dettaglio specifico. A differenza dei loro colleghi di altri paesi, i piloti egiziani si rivelarono molto avidi. Avevano uno stipendio, ma chiedevano regali e omaggi: scarpe, caffè, sigarette. Se non ricevevano nulla, si rifiutavano di guidare la nave. Qualcuno ci disse che cose del genere succedono spesso nei paesi meno ricchi. In Sudafrica, per esempio, i piloti chiedono sempre più denaro del pattuito; per questo molte aziende stanziano una cifra in contanti per questi “regali”.
Per attraversare il canale impiegammo un’intera giornata. Il comandante ci affidò il timone: io e Nurba facevamo turni di tre o quattro ore. In questa fase la precisione è importante. Quando il pilota e il comandante indicano la rotta, bisogna assolutamente ripetersela ad alta voce e rispettarla rigorosamente. Di sera entrammo nel mar Mediterraneo. Il comandante ci ordinò di lavorare in coperta con il resto dei marinai. Provai un improvviso senso di gioia.
Le navi morte
Il comandante ci affidò all’autorità del nostromo, la persona che distribuisce il lavoro ai marinai. Ci fece ridipingere il ponte e togliere la ruggine: il sale del mare corrode il ferro e la nave si ricopre di una patina che va immediatamente rimossa. All’inizio del nostro stage avevamo cercato di evitare questi “lavori sporchi”, ma avendo fatto decine di turni di guardia volevamo provare qualcosa di diverso. Il mare lo avevamo già osservato abbastanza. Non avevamo più molto da imparare sul ponte. Nessuno ascoltava musica mentre armeggiava con pennelli e martello. Io e Nurba lavoravamo insieme, non più a turno, perciò potevamo chiacchierare liberamente.
Tra fatica e lavoro il Mediterraneo scivolò via senza che ce ne accorgessimo. A volte salivamo sul ponte per scoprire dove eravamo. La Grecia, la Sicilia, l’Italia continentale apparivano e scomparivano. Così dicevano le mappe. Noi, però, anche con il binocolo vedevamo solo acqua. La lingua alla radio cambiò di nuovo: oltre all’inglese, si sentivano spagnolo, francese e altri idiomi. Una volta l’ufficiale ci permise di parlare con una nave russa. Piccole gioie della vita in mare.
Il 6 maggio passammo lo stretto di Gibilterra, simile alla bocca di un drago. A causa della bassa pressione nella zona c’è spesso un forte vento, che può arrivare a sfiorare i 50 nodi. Stare in piedi all’aperto è impossibile, si rischia di cadere dal ponte. Provai in ogni modo a fare un video con il telefonino, ma per poco il vento non me lo strappò di mano. Rimanere isolato e senza musica fino alla fine della traversata non era la prospettiva più piacevole, così decisi di non rischiare oltre.

Ci aspettava il passaggio della Manica, che richiede una particolare cautela: il mare è disseminato di resti di navi affondate durante le due guerre mondiali. In quel braccio di mare la marina britannica combatté contro quella tedesca, e le navi affondate furono lasciate arrugginire sott’acqua. Recuperarle era pericoloso: le mine, le bombe e il carburante rimasto nei serbatoi potevano esplodere. Queste “navi morte” non sono state toccate per decenni. Poi si è cominciato a valutare quanto siano pericolose. Se gli esperti stabiliscono che un relitto non è una minaccia, allora viene lasciato sul fondo, anche perché recuperarlo sarebbe troppo costoso. In questo caso viene aggiunta una segnalazione sulle mappe nautiche per mettere in guardia i naviganti.
Sulla terraferma
Nelle acque europee notai un gran numero di turbine eoliche offshore. A volte anche in mare aperto. Mi tornarono in mente le sporche spiagge asiatiche e la bottiglia di plastica di Coca-Cola che avevo visto galleggiare proprio in mezzo all’oceano, a centinaia di chilometri dalla costa. Qualcuno aveva bevuto e l’aveva gettata in mare, tutto qui: sarebbe andata alla deriva per anni fino a quando non fosse stata decomposta dai raggi del sole o inghiottita da una balena. Oppure non si fosse dissolta in una miriade di frammenti, che i pesci avrebbero ingerito. Queste cose mi fecero riflettere a lungo.
Il 15 maggio eravamo nel mare del Nord. Il freddo arrivò all’improvviso. Dovetti indossare un’uniforme calda. Soffiava un vento gelido e veniva giù una pioggerella fitta e fredda. Non ero mai stato a quelle latitudini.
Alla Finlandia mancavano poche centinaia di chilometri, appena due settimane di viaggio. Dovevamo superare la Danimarca. Per quest’ultima tratta il comandante ci mandò a lavorare in sala macchine. Scendemmo sottocoperta per la prima volta, lavorammo con gli ingegneri per diversi giorni e imparammo come funzionano le apparecchiature per governare la nave, i motori e i generatori. A dirla tutta, a volte in sala macchine si stava meglio che in altre parti della nave. C’era qualcosa d’insolito che rompeva la monotonia. Anche l’atteggiamento del capo era d’aiuto: nonostante le telecamere, concedeva ai subordinati pause regolari per fumare e bere il tè. Non era severo e spesso ci lasciava staccare prima.
Il 19 maggio finalmente attraccammo al porto di Hamina, in Finlandia, a est di Helsinki. L’equipaggio aveva cinque giorni per rimuovere i moduli saldati in Corea e scaricare la nave.
A differenza del porto cinese di partenza, lo scalo europeo era tranquillo, pulito e ben organizzato. Il comandante del porto salì subito a bordo per salutare il suo collega cinese. Il secondo giorno ci fu perfino permesso di scendere a terra. Sfortunatamente ci lasciarono liberi solo alle cinque di pomeriggio, un’ora prima della chiusura della maggior parte dei negozi e dei locali. Quando arrivammo in città erano chiusi sia i negozi di souvenir sia le librerie. Tuttavia riuscimmo a rilassarci e a fare il pieno in un fast food. Fu la nostra prima visita sulla terraferma in 45 giorni. Ovviamente nessuno si chinò a baciare la terra, ma fu davvero un momento speciale. Eravamo arrivati in Finlandia proprio nel bel mezzo delle notti bianche, che non avevo mai visto. Nurbolat e io non facevamo che controllare l’orologio in preda alla meraviglia: il giorno sembrava non finire mai.

Riuscimmo a fare il giro di alcuni negozi, cenammo, comprammo dei dolci e parlammo con la gente del posto. Qualcuno sapeva il russo, altri rispondevano in inglese. Un paio d’ore dopo avremmo dovuto incontrare l’equipaggio, che nel frattempo se n’era rimasto a riposare nella Chinatown locale, per tornare insieme alla nave. Nessuno scese più a terra e tre giorni dopo ripartimmo per la Cina.
Nessun compromesso
Avevamo completato solo metà del praticantato, ci mancavano ancora tre mesi in mare. In quel lasso di tempo facemmo in tempo ad attraversare nuovamente l’oceano Indiano, a incontrare nuovi uomini della sicurezza, a tornare in Cina e a riposare un po’. L’equipaggio sulla nave cambiò, e ripercorremmo la stessa rotta per la Finlandia, con a bordo nuovi moduli caricati in Corea.
Vedemmo una bellissima balena, onde verdi brillanti di plancton nell’oscurità e pesci volanti atterrati per caso sul ponte. Ma questi erano rari sprazzi di imprevedibilità. Per il resto le giornate si ripetevano sempre uguali, un turno di guardia dopo l’altro. Quando il 31 agosto io e Nurbolat sbarcammo su una nave più piccola nel canale di Suez, guardando il nostro cargo allontanarsi ebbi una strana sensazione. Certo, ero triste: per sei mesi quel gigante galleggiante era stato la nostra casa. E devo confessare che raramente ce ne allontanavamo. D’altra parte, dopo essersi abituati alla routine di bordo, è sorprendente vedere come sulla terraferma tutti vadano di fretta, in eterna competizione.
Allora capii anche che non potevo tornare sulla nave. Non sopporto gli addestramenti, non mi piacciono le gerarchie troppo rigide, e quando qualcuno mi mette sotto pressione e si dà arie da capo proprio non riesco a lavorare. Avevo scelto il mare per liberarmi dalla monotonia. Il mare voleva dire libertà. Eppure ero finito prigioniero di un sistema con regole ferree. Ero libero e rinchiuso allo stesso tempo.
Sulla nave sentivo che non stavo crescendo. I miei compiti consistevano nello stare in piedi e fissare il vuoto in lontananza per ore, senza potermi permettere nessuna distrazione. Molti ufficiali cinesi, quando gli chiedevo come riuscissero ad affrontare un lavoro che non gli dava nessuna soddisfazione, mi rispondevano che spegnevano il cervello. Io però non riuscivo ad abituarmi. Durante i turni di guardia avevo avuto più volte il tempo di scorrere tutti i miei ricordi e i traumi dell’infanzia, e perfino di perdonare chi mi aveva offeso. Il mio cervello era costantemente in funzione, ma non sapevo come mettere a frutto quei pensieri.
Capii che per me era più importante il processo creativo. Quando lasciai la nave, sapevo che per fare il navigatore avrei dovuto accettare un compromesso con la mia coscienza. Ero innamorato del mare, e il mestiere era ben pagato, ma per farlo sarei dovuto andare contro la mia natura e sacrificare ciò che mi era più caro: la famiglia e gli amici, la libertà, la creatività.
Un nuovo impegno
A causa della pandemia di covid-19 non abbiamo neanche potuto prendere il pezzo di carta che ci spettava alla fine dell’addestramento all’accademia. Per farci rilasciare i certificati di fine corso saremmo dovuti andare in Oman. Ma le frontiere erano chiuse. Così, anche se avessi voluto, non sarei potuto tornare in mare.
Dal nostro ritorno è già passato un anno e mezzo. Naturalmente con lo scorrere del tempo la memoria tende a cancellare le cose negative. Però cerco di tenere bene a mente quali furono le mie impressioni. Non voglio farmi ingannare. Non farò l’ufficiale di rotta, ma ho un nuovo obiettivo. L’anno prossimo voglio iscrivermi a un master universitario sulla navigazione.
Già durante l’attività in mare avevo cominciato a interessarmi ai problemi dell’ambiente. Ho visto delfini e balene, e ho riflettuto molto, chiedendomi perché questi animali debbano pagare un prezzo così alto per le nostre abitudini. Bottiglie, sacchetti, rifiuti: non molto tempo fa ho scoperto che la massa della spazzatura e degli oggetti prodotti dagli esseri umani supera quella di tutti gli organismi viventi. Il clima si surriscalda, presto i ghiacciai si scioglieranno e il livello del mare aumenterà in tutto il pianeta. Come cambierà la nostra vita? Per affrontare tutto questo ci vorranno competenze, conoscenze e nuovi strumenti. È di questo che vorrei occuparmi. In fin dei conti per me il mare non è solo un mondo lontano e astratto. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati