Andrew Wylie, l’agente letterario più conosciuto – e per lungo tempo il più detestato – del mondo, ha 76 anni. Negli ultimi quarant’anni ha trasformato il mercato dell’editoria in modo profondo e, secondo alcuni, malsano. È stato un paladino della letteratura colta e del mercanteggiare più spudorato, capace di rendere famosi molti grandi scrittori e di rendere ricchi molti scrittori famosi. Così facendo ha contribuito a definire il canone letterario globale. Ma, secondo i suoi detrattori, ha anche accelerato la scomparsa di quella cultura che sostiene di difendere.
Wylie non è particolarmente turbato dalle critiche. A preoccuparlo sono piuttosto gli affari in Cina.
La sua fissazione per la Cina risale al 2008, quando tra gli editori cinesi si scatenò una guerra al rialzo sulla raccolta delle opere di Jorge Luis Borges. Wylie, che gestisce i diritti dell’opera completa dell’autore argentino, ricevette una telefonata da un collega che lo informava che il prezzo aveva superato i centomila dollari, una somma fino a quel momento inconcepibile in Cina per un testo letterario straniero. Non contento di stare a guardare le cifre impennarsi, Wylie decise d’imporre il prezzo di altre opere straniere sul mercato cinese. “Mi sono detto: ‘Dobbiamo schierare i carri armati. Ci serve una piazza Tiananmen!’”, racconta gongolante nel suo ufficio di New York.
Gli agenti letterari sono i sensali e i faccendieri dell’industria libraria, quelli che fanno incontrare scrittori ed editori. Negoziano i contratti per i libri, su cui si ritagliano una commissione standard del 15 per cento. Wylie e la sua agenzia, The Wylie Agency, operano per conto di un numero enorme di autori, tra cui alcuni dei più apprezzati e stimati del mondo, e curano i diritti di molti scrittori scomparsi, come il nigeriano Chinua Achebe e l’italiano Italo Calvino, oggi letture obbligate in gran parte del mondo. L’elenco comprende più di 1.300 clienti, tra cui Saul Bellow, Joseph Brodsky, Albert Camus, Bob Dylan, Louise Glück, Yasunari Kawabata, Czesław Miłosz, V.S. Naipaul, Kenzaburō Ōe, Orhan Pamuk, José Saramago e Mo Yan, per limitarsi a quelli che hanno ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Ma include anche la Royal Shakespeare Company e stelle come Chimamanda Ngozi Adichie, Karl Ove Knausgård, Rachel Cusk, Deborah Levy e Sally Rooney. “Quando entriamo in una stanza”, dice Wylie, “portiamo con noi Borges, Calvino, Shakespeare. È una cosa che impressiona”.
Biglietto da visita
Wylie cominciò a tessere la sua tela nel 2008, ai tempi dell’asta per Borges. “Come facciamo a mostrare la nostra autorità in Cina?”, si chiese. “Autorità” è una delle sue parole d’ordine: indica fino a che punto l’agenzia può dettare le condizioni nei contratti in modo da ottenere il massimo per i suoi clienti. Per imporre la propria autorità, dice Wylie, è fondamentale rappresentare scrittori e scrittrici che occupano una posizione di rilievo in un dato mercato: Camus in Francia, Saramago in Portogallo e in Brasile, Roberto Bolaño in America Latina. “Ti serve un biglietto da visita”, spiega. “Per esempio, se vuoi fare affari in Russia, devi avere Nabokov”.
E chi meglio di Henry Kissinger poteva aiutarlo a conquistare la Cina? Negli anni settanta, come consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti, Kissinger aveva favorito lo storico riavvicinamento tra Washington e Pechino. E in seguito era sempre stato un interlocutore importante per il dialogo tra la Cina e l’occidente. Kissinger non era cliente di Wylie, ma il problema si poteva risolvere facilmente. Nel 2008, quando Wylie cercò su Google il nome di Kissinger, trovò una serie di libri che lo attaccavano per le violazioni dei diritti umani legate alle sue scelte politiche. “Kissinger era presentato come un criminale di guerra che si divertiva a uccidere bambini: sostanzialmente un mostro”, racconta. “Perciò sono andato da lui e gli ho detto: ‘Henry, questo non è un buon modo di passare alla storia’”. Gli consigliò di licenziare il suo agente e aggiunse: “Devi far ristampare i tre volumi delle tue memorie e scrivere un nuovo libro, un libro forte”. Così Kissinger diventò un cliente dell’agenzia.
Il suo nuovo libro si sarebbe intitolato Cina. Il piano di Wylie consisteva nel venderlo prima sul mercato cinese, una strategia senza precedenti per un autore statunitense famoso. Nel 2009 un editore cinese comprò i diritti per più di un milione di dollari, si vanta l’agente. Una volta imposta la sua autorità, l’agenzia è riuscita a chiudere contratti a sette cifre per le opere di autori come Milan Kundera e Philip K. Dick. “È così che si conquista piazza Tiananmen”, commenta l’agente esultante, ricordando il suo trionfo. “Metti Henry sul primo carro armato e fai il pieno di benzina”.
L’operazione Kissinger era tipica di Wylie: adescare un autore strappandolo alla concorrenza e sfruttare la sua reputazione a vantaggio di entrambi. “Wylie gioca una partita a lungo termine, in cui cerca costantemente di consolidare la sua posizione”, commenta Scott Moyers, editore della Penguin Press ed ex direttore della sede di New York della Wylie Agency.
Negli anni ottanta e novanta, narra la leggenda, Wylie usò la sua astuzia commerciale per mandare all’aria il clima amichevole che regnava nell’industria libraria, spazzandolo via con “un uragano di cupidigia”, ha commentato un giornale. Alla fine degli anni ottanta, dopo aver incontrato Wylie, lo scrittore Hanif Kureishi disse che gli erano tornati in mente “i traffichini di periferia prepotenti e chiacchieroni con cui sono cresciuto, quelli che nei pub vendevano calzini e orologi dentro le valigette”.
Dalla metà degli anni novanta, Wylie è conosciuto come the jackal, “lo sciacallo”, e molti agenti e piccoli editori lo considerano ancora un predatore, sempre a caccia di talenti coltivati da altri. I metodi della sua agenzia sono “molto conflittuali”, conferma Valerie Merians, cofondatrice della casa editrice indipendente Melville House.
Dietro il successo e la personalità di Wylie, però, non c’è solo l’avidità. Con la sua agenzia ha capito come globalizzare e monetizzare il prestigio letterario. “Mi sono rivolta a lui dopo che i miei sei agenti precedenti, per indolenza, non avevano accolto le mie richieste”, ha detto María Kodama, la vedova di Borges. Se oggi i libri di Borges e altri classici si trovano in tutta l’America Latina e in Spagna è anche perché Wylie fa in modo che gli editori “si impegnino a tenerli in vita ovunque”, spiega Cristóbal Pera, storico editore di letteratura in lingua spagnola ed ex dipendente dell’agenzia.
A Shakespeare mancavano solo un buon avvocato e l’agente giusto
Allo stesso tempo, la dimensione internazionale che Wylie ha dato ad autori come Philip Roth e John Updike è riuscita ad “affermare la letteratura statunitense come letteratura del mondo”, ha scritto Laura McGrath, studiosa della Temple university di Philadelphia.
I gusti letterari e la presenza internazionale di Wylie hanno contribuito a creare quella che per decenni è stata l’idea dominante di celebrità letteraria. Nell’epoca in cui scrittori come Philip Roth e Martin Amis facevano parlare tanto i tabloid quanto la New York Review of Books, erano famosi a Milano come a Manhattan e potevano permettersi un appartamento in entrambe le città, quando erano intellettuali pubblici che vivevano vite semipubbliche, Wylie è stato il più audace promotore di talenti letterari al mondo, un uomo che sembrava avere dimestichezza sia con la cultura alta sia con l’alta finanza.
Oggi quel tipo di celebrità letteraria è tramontata, e secondo alcuni si è eclissata anche la stella di Wylie. “Penso che il suo momento sia passato”, dice Andrew Franklin, ex direttore generale e cofondatore della Profile Books (una casa editrice indipendente britannica). “Quando morirà, la sua agenzia andrà a rotoli”. Una schiera di giovani agenti e di grandi agenzie ha provato ad adattare le strategie di Wylie a una nuova realtà, in cui la cultura letteraria è molto frammentata e i clienti non sono più romanzieri o storici ma “artisti multicanale” con libri, podcast e contratti con Netflix. Ma per Wylie sono tutte fesserie. Anche se l’epoca della celebrità letteraria è finita, è convinto che la letteratura alta continui a rappresentare il miglior investimento a lungo termine. “Shakespeare è più interessante e ha più valore della Microsoft e di Walt Disney messi insieme”, dice, ripetendo la tesi che cerca di inculcare ai giornalisti da più di vent’anni. A Shakespeare mancavano solo un buon avvocato, un piano per la gestione dei diritti e, ovviamente, l’agente giusto.
Omero e la boxe
Se Wylie è diventato l’agente letterario più mitizzato del mondo è anche perché la caricatura come ladro di talenti era irresistibile per i giornalisti, e a volte anche per lui. “Penso che gli piaccia molto la storia dello sciacallo, perché lo fa sembrare un duro”, dice Salman Rushdie, uno dei suoi primi clienti e amici più stretti. Ma anche se coltiva attentamente la sua immagine, questo non significa che sia fasulla. Ha vissuto una vita notevole e perfino quando racconta fatti sordidi o banali, istintivamente li eleva a qualcosa di favoloso. Un affarista, in fondo, commercia soprattutto in reputazione. Il successo di Wylie si basa in parte sulla sua capacità innata di stare al fianco dei grandi e delle persone di talento. Da giovane, passò una settimana sui monti Pocono a intervistare il pugile Muhammad Ali per una rivista, mentre gli declamava Omero in greco antico. Andò a trovare il poeta Ezra Pound a Venezia e recitò Omero anche per lui. A New York passò parecchio tempo allo Studio 54 e alla Factory per studiare il modo in cui Andy Warhol costruiva il suo personaggio pubblico. Racconta che negli anni settanta Lou Reed gli fece scoprire le anfetamine. Il fotografo e regista Larry Clark gli fece da testimone al suo secondo matrimonio. Ai tempi della fatwa contro Salman Rushdie, quando non discuteva con il banchiere David Rockefeller una strategia per far ritirare la condanna a morte contro lo scrittore o cercava di pubblicare a sue spese un’edizione tascabile dei Versi satanici, Wylie sedeva sul pavimento di una camera d’albergo a New York a meditare con Rushdie e Allen Ginsberg, con le finestre schermate da materassi per precauzione. Negli anni novanta, alle feste a casa di Wylie a New York o negli Hamptons, tra gli invitati c’erano Rushdie, Amis, Ian McEwan, Christopher Hitchens e Susan Sontag; oppure Rushdie, Sontag, Norman Mailer, Paul Auster, Siri Hustvedt, Peter Carey, Annie Leibovitz e Don DeLillo (una volta scoppiò una piccola crisi perché il padrone di casa si era dimenticato di invitare Edward Said). È stato uno dei primi a cui l’ex candidato presidente Al Gore mostrò una presentazione in PowerPoint di quello che sarebbe poi diventato il libro Una scomoda verità.
Wylie ha costruito la sua reputazione sulla decadenza e la sfacciataggine. La rivista Tatler racconta che negli anni ottanta, durante una festa per la pubblicazione di un libro, invitò un giovane scrittore a “pisciare su New York” e poi andò a farlo lui fuori della finestra, sulle teste dei pendolari della stazione Grand Central (quando gli ho chiesto una conferma, mi ha risposto “passo”).
Al centro del mito di Wylie, però, c’è sempre stata la sua spietata caccia agli affari. L’autore Charles Duhigg era orgoglioso che nei negoziati con gli editori il suo agente fosse “uno che riusciva a cavare sangue da una rapa”. Wylie ama il conflitto e sa essere giocosamente bellicoso. Di Tibor Fischer, un ex cliente diventato suo avversario, e ce ne sono tanti, ha commentato allegramente: “Mi risparmierò di dirgli di andare a farsi fottere perché è già fottuto”.
Wylie è calvo, ama i sigari ed è sicuro di sé come Winston Churchill. Alla Wylie Agency, che fondò nel 1980, “la nota dominante è l’aggressività”, racconta un ex dipendente.
L’agenzia va alla ricerca di talenti letterari poco valorizzati allo stesso modo in cui i fondi d’investimento vanno in cerca di aziende in crisi per trarne profitti dopo aver licenziato la direzione. Wylie ha capito prima di tutti che la reputazione letteraria è un patrimonio commerciale, e che quando la si gestisce bisogna ricavarne il massimo. Non importa se si usano tattiche che altri considerano immorali o subdole. Scott Moyers lo sintetizza così: “Quando Wylie è entrato nell’editoria ha detto: ‘Vaffanculo tutto. Chi ci guadagna? Cosa sono autorizzato a fare legalmente? Partiamo da lì’”.
Wylie afferma spesso di non avere una personalità precisa e di cercarne continuamente una. “È come se fossi cavo all’interno”, gli piace ripetere. Può sembrare una posa, forse per proteggersi, ma molti hanno notato che si reinventa perennemente per riflettere lo spirito dell’epoca: negli anni ottanta era il banchiere d’investimento dei libri; negli anni novanta l’alfiere della globalizzazione letteraria; negli anni duemila il paladino dell’eccezionalismo statunitense e un critico di quelle che, a suo parere, erano due crisi parallele: il declino della nazione e quello della sua letteratura. È un uomo dalle molteplici incarnazioni, da cui comunque emerge una certa coerenza.
Giovane ribelle
Wylie è cresciuto in una famiglia di Boston molto colta e ricca. Nel 1993 Rushdie andò a visitare la casa d’infanzia del suo agente, e trovò le iniziali “AW” incise in una libreria in rovere nell’ala della biblioteca. Wylie passò buona parte dell’adolescenza e della giovinezza a ribellarsi all’ambiente sociale dei genitori. Fu espulso dal collegio St. Paul’s, frequentato dalle élite del New England e da suo padre, perché era stato sorpreso a vendere alcolici agli altri studenti. Intorno ai 17 o 18 anni prese a pugni in faccia un poliziotto. Tra il riformatorio e l’ospedale psichiatrico, scelse il secondo. Passò circa nove mesi nella clinica Payne Whitney nell’Upper West Side di Manhattan, non lontano da dove vive oggi, a passeggiare nel cortile cercando d’imparare a memoria La veglia di Finnegan.
“Tutti quelli che ammiravo erano pazzi”, dice, compresi i poeti Ezra Pound e Robert Lowell. “Io no, ma posso far credere a tutti di esserlo”.
André Bishop, suo amico alla St. Paul’s e poi a Harvard, lo andava a trovare nei fine settimana. “Non parlerei di pazzia: penso che avesse uno squilibrio”, dice Bishop. “Ma era qualcosa di reale. Non penso stesse fingendo”.
Poco dopo essere stato dimesso dall’ospedale psichiatrico, andò all’università di Harvard. “Nervoso, un po’ selvatico, gentile e intelligente”: nel 1967 il poeta modernista Basil Bunting usò queste parole per descrivere il Wylie diciannovenne. A Harvard e nei primi anni dopo la laurea, la poesia era al centro della sua vita. “Ho dato uno sguardo ai versi che Eliot ha scritto a Harvard, e trovo che i tuoi siano più compiuti, malgrado gli echi”, si legge in una lettera inviata a Wylie da Bunting. Nel 1969 sposò la fidanzata Christina e l’anno successivo ebbero un figlio, Nikolas. Entrambi scrivevano poesie, e lui passava le giornate lavorando in una libreria maoista di Harvard. Nel 1971 lasciò alla moglie e al figlio “la macchina e il conto in banca” e si trasferì a New York. Guidava un taxi e portava la barba e i capelli radi biblicamente scompigliati, come se vagasse sul monte Sinai anziché per Manhattan. Prese in affitto un negozio nel Greenwich Village per vendere la sua collezione di libri dell’università, che comprendeva alcuni testi di Eraclito in varie lingue europee. Tra i suoi clienti occasionali c’erano Bob Dylan e John Cage, ma “gli affari andavano a rilento”. Bunting gli scrisse un messaggio di condoglianze: “È tanto difficile leggere i libri che vendono quanto vendere quelli che vale la pena di leggere”.
Lui, però, non si lasciò scoraggiare, anche perché poteva contare sui soldi di famiglia. Fondò una piccola casa editrice e pubblicò il primo libro di poesie di una giovane musicista: Patti Smith.
Più un editore spende per comprare un libro, più spenderà per venderlo
A un certo punto, a metà degli anni settanta, si prese una “pausa” dalla vita. Era costantemente sotto anfetamine e dormiva circa sei ore a settimana. “Se cresci avendo tanti soldi, o li spendi nel corso della vita e ti va bene così o te ne sbarazzi e ricominci da zero”, dice.
Racconta di essersi iniettato nel braccio gran parte della sua eredità. “Molte persone con cui avevo a che fare furono arrestate e allontanate, e i rifornimenti di droga si prosciugarono”, aggiunge. Dopo un terribile periodo di astinenza, capì che era arrivato il momento di riprendere in mano la sua vita.
Logiche di mercato
La storia che Wylie racconta sempre su com’è diventato agente letterario comincia così. Era il 1979. Aveva smesso con le anfetamine e aveva bisogno di un lavoro. Seguendo le orme del defunto padre, ex direttore della casa editrice Houghton Mifflin, si mise a cercare un impiego nell’editoria. A un colloquio gli chiesero cosa stava leggendo, e lui rispose: “Tucidide”. Il suo interlocutore gli fece notare che, invece, avrebbe dovuto leggere i best seller.
“Diedi un’occhiata alla lista dei best seller e mi dissi: ‘Bene, se è questo che serve per entrare nell’editoria, allora sinceramente, vaffanculo, piuttosto vado a lavorare in banca’”, ha dichiarato durante una conferenza nel 2014. Finire in banca, però, lo attirava ancora meno. A quel punto un amico che lavorava in una casa editrice gli consigliò di provare a diventare un agente.
Da agente, Wylie poteva provare a combinare affari e qualità. I libri sono un prodotto ad alto rischio e dai margini bassissimi: lui paragona in maniera poco lusinghiera i profitti dell’editoria a quelli dei lustrascarpe. D’altra parte, però, le migliori opere letterarie possono rimanere in stampa per periodi lunghissimi, generando flussi di ricavi piccoli ma regolari. Affittò una scrivania nell’atrio di un’altra agenzia, dove imparò “come non fare le cose”. A suo dire, era piena di uomini di Harvard che si ubriacavano con altri uomini di Harvard e vendevano manoscritti inediti di uomini di Harvard ad altri uomini di Harvard.
Wylie intravide un’opportunità: trattando i libri con la massima serietà, e gli affari come affari, poteva ritagliarsi una nicchia. Nel 1980 chiese in prestito diecimila dollari alla madre e fondò la Wylie Agency. “Dobbiamo prenderci il mercato della qualità e poi far salire il prezzo”, avrebbe detto in seguito al sociologo J.B. Thompson per spiegare la sua filosofia commerciale.
“La cosa più importante è farsi pagare”, disse Wylie al giornalista e saggista I.F. Stone, suo primo cliente, secondo quanto scrive D.D. Guttenplan, biografa di Stone e a sua volta cliente dell’agenzia. Più ricco è l’anticipo, meglio è, ripeteva Wylie: più un editore spende per comprare un libro, più spenderà per venderlo. Thompson l’ha definita “la ferrea legge di Wylie”.
Pochi anni dopo aver fondato l’agenzia, Wylie si era già procurato più di una decina di scrittori selezionati. Dedicava lunghi periodi a documentarsi su una o due discipline, dalla politica all’arte al teatro, per poi corteggiare i nomi più importanti di quel campo. Così mise sotto contratto Allen Ginsberg e William Borroughs, e i registi David Mamet e Julian Schnabel. Arruolò gli scrittori ed editor di narrativa del New Yorker Veronica Geng e William Maxwell, due nomi chiave per la scoperta di nuovi talenti. A metà degli anni ottanta si mise in società con un’agenzia britannica e cominciò sistematicamente a corteggiare scrittori che secondo lui erano “sottorappresentati” dai loro agenti. Nel 1988, dopo aver convinto Bruce Chatwin, Ben Okri, Caryl Phillips e Rushdie a lasciare i rispettivi agenti, Wylie era diventato uno dei più importanti collettori di denaro e influenza del mondo letterario. Come disse Ginsberg a Vanity Fair, Wylie stava “assumendo i poteri che ha di solito una famiglia come quella da cui proveniva, dopo una lunga formazione che l’aveva portato dalle classi alte alle fogne”.
Come la Cia
Se Andrew Wylie è un agente capace di chiedere cifre a sei o sette zeri e di essere preso sul serio è anche per lo studio rigoroso e la qualità delle informazioni di cui dispone. “Ci facciamo sempre guidare dai sistemi”, spiega. “Se il computer ci dice che i diritti di Saramago in Ungheria scadono fra tre mesi, passiamo in rassegna l’intero mercato ungherese”. Gruppi di due o tre agenti volano regolarmente in tutto il mondo per andare a visitare le case editrici, parlare con gli editor e fotografare le loro sedi. Poi scrivono una relazione su ogni azienda e la condividono con l’agenzia. Sembra un’attività di spionaggio, e in effetti lo è. “M’interessa molto il lavoro che fa la Cia”, dice Wylie. “Penso che ci sia molto da imparare su come funzionano le cose dal punto di vista politico e su come si fanno i calcoli strategici”. Lui ha avuto clienti che lavorano o hanno lavorato per la Cia, dall’ex direttore Michael Hayden a quello attuale, Bill Burns. “Abbiamo un accesso privilegiato a progetti che vengono dall’intelligence statunitense”, dice. È stato grazie a un’operazione dei servizi, per esempio, se nel 2011 è riuscito a ottenere i diritti del libro di re Abdullah II di Giordania, L’ultima occasione. Quando gli ho chiesto se poteva dirmi di più, ci ha pensato su e ha risposto: “Probabilmente no”.
Oggi la Wylie Agency ottiene circa la metà dei suoi ricavi in Nordamerica e l’altra nel resto del mondo. “Parte del nostro lavoro è guardare come cambiano i mercati editoriali internazionali”, dice Wylie. La Romania e la Croazia sono molto promettenti, come il mercato in arabo. La Corea è “molto dinamica”. La Cina, ovviamente, è fondamentale.
Oggi circa il dieci per cento dei clienti di Wylie sono gli eredi di scrittori defunti
Altri operatori del settore, in particolare gli agenti e gli editori più piccoli, pensano che l’efficiente macchina di Wylie abbia avuto un effetto negativo sulla cultura e sullo spirito del mondo editoriale, trasformando un nobile mestiere in una corsa al profitto. Franklin, l’ex direttore della Profile Books, dice che Wylie ha costruito una fabbrica sforna-contratti. “È come un efficientissimo studio legale”, dice. Nell’ambiente molti pensano che Wylie, sottraendo talenti alle piccole case editrici indipendenti a favore delle ricche multinazionali del libro, eroda questo ecosistema. Quando glielo riferisco, Wylie mi risponde che a parlare è “il risentimento dei piccoli editori, che non possono più permettersi il lusso di sottopagare e sottopubblicare scrittori importanti”.
Non è solo una questione di soldi. Oltre a gestire la parte economica, spesso l’agente è il primo lettore di uno scrittore, il suo editor più attento, il suo terapista, il suo migliore amico. Alcuni addetti ai lavori vedono questa relazione come un vincolo quasi sacro. Gli scrittori, però, vogliono anche essere pagati. Kureishi, per esempio, si è spesso lamentato degli anticipi che riceveva per i suoi libri. Quando è diventato cliente di Wylie, ha raggiunto “un livello superiore di guadagni e di efficienza”, ha confidato al suo biografo.
Wylie ha sempre ragionato in un’ottica globale. Negli anni duemila e negli anni dieci di questo secolo ha cercato per due volte di entrare nel mercato in lingua spagnola, prima aprendo un ufficio a Madrid e poi rilevando una nota agenzia di Barcellona (doppio buco nell’acqua). Ha provato a mettere sotto contratto molti dei più importanti storici statunitensi (facendo centro) e a vendere i loro libri all’estero (altro buco nell’acqua). Ha tentato di costringere le principali case editrici a concedere agli autori una fetta più grossa delle royalty per i diritti digitali fondando la sua azienda di ebook (sotto molti aspetti, un ulteriore buco nell’acqua). Ha reclutato gli scrittori africani vincitori del prestigioso Caine prize (sette centri finora). Ha provato ad aggiudicarsi i diritti di pubblicazione delle opere complete di J.G. Ballard, Raymond Carver, Vladimir Nabokov, John Updike ed Evelyn Waugh (centro, centro, centro, centro, centro).
Qualcosa di importante
I ritmi di lavoro di Wylie e della sua agenzia non erano quelli tipici dell’industria libraria. “A volte sembrava di stare a Wall street”, racconta un ex dipendente che lavorava alla Wylie Agency a metà degli anni duemila. Uno sfruttamento intellettuale di ragazzi appena usciti da una delle grandi università private statunitensi, dice un altro ex dipendente. Si lavorava dieci ore al giorno, e Wylie controllava ogni minimo particolare di quello che succedeva in ufficio. “Dovevi giustificarti se ti assentavi più del necessario – scusate la volgarità – per cacare”, ha detto un ex impiegato dell’ufficio di New York. Wylie è una persona generosa e interessante, ricordano, ma con alcuni dei suoi collaboratori di lunga data avevamo a volte comportamenti offensivi. A metà anni duemila, quando uscì il film Il diavolo veste Prada, molti nell’agenzia si immedesimarono.
Eppure “la sensazione era di stare in mezzo a qualcosa di importante”, racconta l’ex dipendente dell’ufficio di New York. Capitava d’incontrare Philip Roth nei corridoi, o di parlare al telefono con Al Gore o Lou Reed. Alle feste di Natale si brindava con lo champagne e Wylie raccoglieva con le dita gli avanzi di caviale dal barattolo. I regali erano cravatte di Hermès per gli uomini e sciarpe di cashmere per le donne.
Alla settimana della London book fair si può osservare dall’interno il complicato e poco remunerativo business della letteratura alta. In un centro convegni nella zona ovest di Londra, centinaia di agenti s’incontrano con gli editori di tutto il mondo. Ci sono lunghe file di scrivanie, come in una sala per concorsi, ma ovunque c’è gente che parla e discute, perfino davanti all’entrata dei bagni.
“Non è orribile?”, osserva Wylie. “È come un campo di prigionia. Ogni volta che vengo mi chiedo cos’ho fatto per meritarmi tutto questo. Pensavo di essermi comportato bene”.
Mentre incontra gli editori insieme alla sua vice, Sarah Chalfant, Wylie ha un’aria più benevola che rapace, anche se a volte sa essere insistente (ne avrò un esempio qualche tempo dopo, quando per email mi scriverà di “desistere” dall’intervistare i suoi clienti e i suoi ex dipendenti). Le conversazioni di Wylie e Chalfant con gli editori spaziano dallo stato della politica e dell’industria del libro a storie profondamente intime. Ma ci sono soprattutto centinaia di negoziazioni sui prezzi, per la maggior parte bassi, che anche i libri relativamente di buon livello hanno sui mercati internazionali. Una mattina, a colazione, un editor brasiliano offre cinquemila dollari per l’ultimo libro di un importante giornalista finanziario, ma Wylie finge di aver capito male: “Hai detto ottomila, giusto?”. Il trucco funziona, ma Wylie si sta divertendo troppo per fermarsi. “Dobbiamo sederci un po’ più lontani”, dice all’editore, spostando la sedia indietro di qualche centimetro. “Perché da qui mi sembra di sentire dodicimila”. Quando cominciano le trattative per il libro dello scrittore israeliano Etgar Keret, Wylie annuncia trionfante: “Dodicimila dollari: è il prezzo della colazione!”.
In passato, prendendosi in giro da solo per le sue manie di grandezza, Wylie diceva che pensava di essere immortale e che avrebbe diretto l’agenzia per anni anche dopo la sua morte. In realtà, a metà degli anni duemila ha seriamente preso in considerazione una fusione con la Caa, una nota agenzia di talenti sportivi e dello spettacolo di Los Angeles, ma poi ha rinunciato perché, a suo dire, i nuovi soci non capivano le sue idee. Ora vorrebbe emulare la casa editrice francese Gallimard, “che dura, prospera e cresce da tre generazioni”. Come sua erede ha designato Chalfant, che già dirige l’ufficio di Londra ed è di fatto l’amministratrice delegata della società. Altri agenti lavorano per lui da più di dieci anni, e alcuni hanno costruito rapporti stretti con i più importanti autori e autrici ancora viventi, come Chalfant con Adichie e Cusk, Jin Auh con Ling Ma, e Tracy Bohan con Sally Rooney. “L’agenzia non è più una cosa solo mia, o mia e di Sarah, com’era in passato”, dice Wylie.
Gestisce ancora una quarantina di contratti all’anno, ma negli ultimi dieci si è trovato spesso ad assolvere a un compito più macabro: annunciare la morte dei suoi clienti. Nel 2013 è toccato a Chinua Achebe e a Lou Reed. Nel 2018 a Philip Roth. Nel 2022 stava per capitare a Salman Rushdie, colpito da dieci coltellate durante una conferenza. L’anno scorso è morto Martin Amis. Oggi circa il dieci per cento dei clienti di Wylie sono gli eredi di scrittori defunti. Molti dei titani dell’editoria che ha creato, e con cui si è scontrato, non ci sono più. Intorno a lui un’epoca letteraria sta tramontando.
“Ho passato tanto tempo a cercare di convincere gli editori a investire in una letteratura che fosse davvero interessante”, dice a un certo punto, con una stanchezza eccezionalmente sincera. “Non so se è solo una lotta contro i mulini a vento, o se possa magicamente avere qualche effetto”. Paragona le grandi agenzie sue rivali a “uno stadio di calcio a mezzogiorno”: in loro non c’è nulla di raffinato e nobilitante. Eppure, sono l’emblema della nuova era letteraria. I loro clienti sono, secondo lui, una massa informe di inoffensivi autori scandinavi di libri di ricette, biografi “sotto dettatura” e scialbi comici con spettacoli in streaming.
Forse sono questi i nomi che contano oggi, ma per Wylie gli autori importanti restano Borges, Camus e Shakespeare, e forse perfino Kissinger. Senza questo peso culturale sulle spalle, come faranno le altre agenzie e le nuove stelle della letteratura a raggiungere quell’importanza mondiale che avevano autori del calibro di Roth e Amis?
“Come faranno a mostrare la loro autorità?”, si chiede Wylie. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1553 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati