“Rumore” è una parola vaga. È rumorosa, in senso statistico. I suoi significati vanno dalla sfumatura più negativa a quella più positiva: dall’invadente al misterioso, dall’anarchico al sublime. In inglese, l’accezione negativa è insita nella radice stessa: gli etimologi fanno risalire la parola noise a nuisance (fastidio) e a nausea. Il rumore ci fa diventare matti, come il Grinch quando arriva Natale (“Oh, il rumore. Rumore! Rumore! Rumore!”). Il rumore è il suono stesso della follia, il frastuono della nostra mente. Il narratore impazzito del Cuore rivelatore di Edgar Allan Poe farnetica sul rumore mentre, in preda alle allucinazioni, sente il battito del cuore della sua vittima: “M’accorsi che il rumore aumentava sempre. Il rumore cresceva, incessante”.

Ma il rumore può essere anche virtuoso. I salmi della Bibbia sono pieni di un rumore gioioso rivolto al Signore. Nel libro di Ezechiele, la voce di Dio viene descritta come “il rumore di grandi acque”. Nel Paradiso perduto di John Milton, il paradiso fa un “rumore infernale” quando respinge gli eserciti dell’oltretomba. Bring the noise dei Public Enemy chiama a raccolta le forze per un altro tipo di battaglia. Allo stesso tempo, la parola può evocare ogni sorta di delicato sussurro: “L’isola è piena di rumori e dolci arie” (William Shakespeare, La tempesta). Alfred Tennyson parla di un “rumore di inni”. Samuel Coleridge del “rumore di un nascosto ruscello”. Nell’Inghilterra elisabettiana, la parola noyse poteva indicare una compagnia di musicisti, come quella che allietò di una “melodia celestiale” il corteo per l’incoronazione di Elisabetta I. Qualsiasi speranza di limitare l’estensione del concetto è sfumata da quando i teorici dell’informazione l’hanno staccato dall’acustica per applicarlo a qualsiasi attività ambientale che ostacoli un segnale. “Rumore” ha assunto il significato di una quantità eccessiva di dati: una situazione, più che un evento.

Se decidiamo di ascoltare qualcosa, allora non è rumore, anche se molti lo trovano orribile. Se siamo costretti ad ascoltare qualcosa, allora è rumore, anche se molti lo trovano magnifico

Altre lingue trattano il rumore in maniera un po’ meno vaga. In francese, il termine più comune è bruit, dal latino brugitum, che significa ruggito: una descrizione diretta del suono del rumore, più che una valutazione soggettiva del disturbo che provoca. In tedesco, Lärm tende a indicare i rumori più forti, Geräusch quelli più tenui e naturali. I russi hanno una gamma di parole, tra cui šum, che secondo Vladimir Nabokov esprime “più un sibilo che un fracasso”. Quando Osip Mandelštam ha scritto dello šum vremeni, il rumore del tempo, ha colto una sfaccettatura essenziale della vita moderna.

Rumore è un concetto abbastanza capiente da ispirare una piccola biblioteca, che continua ad arricchirsi di nuovi contributi. Oltre a varie storie culturali – Noise di Bart Kosko, Noise di David Hendy, Discord. The story of noise di Mike Goldsmith, il tomo di novecento pagine Making noise di Hillel Schwartz – ci sono storie di scene musicali rumoriste (Japa­noise, New York noise), saggi di critica letteraria incentrati sul rumore (Shakespeare’s noise, Kafka and noise) e filosofie del rumore (An epistemology of noise, Noise matters: toward an ontology of noise), senza contare le guide pratiche su come ridurre il rumore dei condizionatori d’aria o nella propria testa. Il rumore in relazione alla musica è un argomento di per sé assordante. Samuel Johnson propone una soluzione elegante: “Di tutti i rumori, io penso che la musica sia il meno spiacevole”. Musica è il nome che diamo al rumore che ci piace.

In mancanza di una definizione universale, il discorso sul rumore spesso parte dal personale. La mia storia con il rumore è contrastata: lo odio e lo amo. Da bambino ero molto sensibile ai suoni forti. Quando la mia famiglia mi portava a vedere i fuochi d’artificio o a visitare i musei dei treni a vapore, correvo sempre a ripararmi in macchina piangendo. Da adulto, quando mi sono trasferito nel rumoroso calderone di New York, ho sofferto per lo stereo dei vicini e il caos della strada. Ho insonorizzato le finestre con cuscini e materiali isolanti, ho comprato dei tappi per le orecchie per uso industriale e ho piazzato un enorme ventilatore accanto al letto. La nevrosi mi è passata, ma ancora oggi, quando vado in albergo, sono uno di quegli ospiti impossibili che cambiano stanza finché non ne trovano una che affaccia su un cortile vuoto.

Allo stesso tempo, ero attratto da un tipo di musica che altri avrebbero pagato pur di evitarlo. Cresciuto con la musica classica, avevo scoperto il raffinato pandemonio dell’avanguardia del ventesimo secolo: Edgard Varèse, John Cage, Karlheinz Stockhausen, György Ligeti. All’università conducevo un programma alla radio che quasi nessuno ascoltava, in cui trasmettevo pezzi come Poema sinfonico per 100 metronomi di Ligeti. Quando chiamavano in studio per segnalare che era andato via il segnale, io ribattevo che stavamo ascoltando un brano musicale. Lo stesso equivoco si è ripetuto quando ho mandato in onda Paesaggio immaginario 4 di Cage, una composizione per direttore, 24 esecutori e dodici radio. Una volta passato alla cosiddetta musica pop, avevo orecchie solo per le ribollenti dissonanze di Cecil Taylor e Sonic Youth. Ero il tastierista in un gruppo noise che fece un’unica apparizione pubblica, orgogliosamente caotica, nel 1991. A un certo punto, con i miei compagni improvvisammo su un loop dei minacciosi accordi iniziali della Donna senz’ombra di Richard Strauss.

Ovviamente, i miei problemi con il rumore ruotano intorno alla questione del controllo. Quando il rumore è alle mie condizioni, mi piace; quando mi viene imposto, mi ritraggo. Questa biforcazione è tipica, anche se sono un caso estremo. Garret Keizer, nel suo incisivo saggio del 2010 The unwanted sound of everything we want (Il suono indesiderato di tutto ciò che desideriamo), osserva che la distinzione tra rumore e musica è, in ultima analisi, etica: se decidiamo di ascoltare qualcosa, allora non è rumore, anche se molti lo trovano orribile. Se siamo costretti ad ascoltare qualcosa, allora è rumore, anche se molti lo trovano magnifico. Dunque, scrive Keizer, “Metal machine music di Lou Reed suonato in una sala da concerto non è rumore, un canto gregoriano che mi arriva in bagno dall’appartamento dei vicini sì”.

“Suono indesiderato” è la definizione fondamentale. È sottinteso un atto di aggressione: qualcuno sta esercitando potere proiettando un suono nel nostro spazio. A volte è un atto inconsapevole: le persone non si rendono conto di quanto è alto il volume, oppure danno per scontato che tutti apprezzino la musica che stanno ascoltando. A volte, invece, è un gesto di palese brutalità. Una notte, nel 2002, ho chiesto ai miei vicini, degli studentelli di una confraternita, di abbassare il volume della loro musica techno. Per tutta risposta lo hanno alzato ancora di più. Mi sono lamentato di nuovo, e uno di loro ha cominciato a urlare “brutto frocio!” scagliandosi contro la mia porta.

Raramente rifiutiamo i suoni delle persone che ci piacciono. Le dispute sul rumore mettono a nudo le spaccature sociali. Al cinema, un classico studio sulla musica, il rumore e la violenza è Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, in cui Radio Raheem entra nella pizzeria di Sal e mette a tutto volume Fight the power dei Public Enemy sul suo stereo portatile. “Cosa ti avevo detto di quel rumore?”, urla Sal. “Questa è musica. La mia musica”, protesta Radio Raheem. Pochi minuti dopo muore, ucciso dalla polizia.

La percezione dell’hip-hop come Black noise (Rumore nero) – che è il titolo di un libro del 1994 della studiosa di cultura pop Tricia Rose – fa parte di una lunga tradizione di disumanizzazione sonora di cui sono state vittime le minoranze. La parola “barbaro” nasce da un termine spregiativo greco, bárbaros, riferito ai presunti suoni incomprensibili emessi dai popoli stranieri (“bar bar bar”). La musicologa Ruth HaCohen racconta che per secoli gli ebrei sono stati percepiti dagli europei come un popolo particolarmente rumoroso. Lärm wie in einer Judenschule (rumore come in una sinagoga) è un’espressione tedesca rimasta in voga per tutta l’epoca nazista (in Il rumore del tempo, Mandelštam capovolge queste percezioni, elogiando la complessità del “caos ebraico”). I colonizzatori che disprezzavano gli strani suoni dei popoli nativi non tenevano conto del fatto che loro per primi stavano creando un frastuono senza precedenti, con campane, trombe, fucili, cannoni e macchine. Il rumore è uno strumento di potere. Come scrive Keizer, è un modo per dire: “Il mondo è mio”.

Nella confusione della vita di città, il silenzio è un lusso per persone ricche, che possono permettersi un attico di un intero piano o la casa in una zona tranquilla. Possono installare finestre a tripli vetri e insonorizzare le pareti. Se vogliono, possono diventare come Proust nella sua stanza rivestita di sughero. Per il resto della società, il rumore è sinonimo di difficoltà e fatica. Noise di David Hendy, basato su una serie trasmessa dalla Bbc nel 2013, documenta il trambusto di una casa popolare di Edimburgo nel settecento e il baccano infernale inflitto agli operai siderurgici a Glasgow nell’ottocento. Un medico scrive: “Il ferro su cui poggiano i piedi vibra intensamente sotto i colpi di una ventina di martelli branditi da uomini forzuti. Confinate tra le pareti della caldaia, le onde sonore sono enormemente amplificate e colpiscono il timpano con una potenza terrificante”.

La colossale cacofonia della rivoluzione industriale portò ai primi seri tentativi di controllare il rumore. Spesso questi tentativi tradivano un elitarismo malevolo. Il matematico Charles Babbage si lagnava di “suonatori di organetto e altre seccature simili” che minavano la produttività dei “lavoratori intellettuali”. Charles Dickens firmò una lettera in cui si sosteneva che gli scrittori e gli artisti erano diventati “gli speciali oggetti di persecuzione di suonatori sfacciati e dei loro strumenti sfacciati”. L’attivista antirumore newyorchese Julia Barnett Rice, che nel 1906 fondò la Society for the suppression of unnecessary noise, ruppe la barriera del narcisismo aristocratico spiegando che le persone di tutte le estrazioni nelle scuole e negli ospedali soffrivano per il rumore eccessivo. La sua intuizione fu poi confermata dagli studi scientifici: il rumore può inibire l’apprendimento e complicare i problemi di salute. E naturalmente, può provocare danni all’udito come gli acufeni o la sordità.

I tentativi di mitigare o di regolare per legge i livelli di rumore si scontrano inevitabilmente con la difficoltà di stabilire quali suoni sono eccessivi e sgradevoli. Anche la misurazione del volume è una questione complicata. La scala dei decibel, come la scala Richter, è logaritmica, e tiene conto di risposte neurali insolite a stimoli variabili. Un suono di venti decibel è generalmente percepito come due volte più rumoroso rispetto a un suono di dieci decibel, anche se in realtà l’intensità è dieci volte superiore. Inoltre, la scala dei decibel è ponderata per tenere conto di ulteriori peculiarità: siamo più sensibili alle frequenze più alte (un soprano è percepito più di un basso), ai suoni al chiuso, ai suoni notturni. Con tutte queste complessità, una legge sul rumore sarebbe difficile da applicare. Nel 2022, il dipartimento per la protezione ambientale della città di New York ha ricevuto quasi cinquantamila lamentele ma solo in 123 casi ha imposto una sanzione pecuniaria.

Pierluigi Longo

I segnali di pericolo – il corno da nebbia, il fischio della locomotiva, la sirena dell’ambulanza e dei pompieri – rientrano in una speciale categoria di rumori necessari a salvare la vita delle persone. Il clacson dell’automobile è un caso limite: a volte serve a evitare disastri, ma più spesso incoraggia l’aggressività al volante. Danger sound klaxon! (Clacson di pericolo!) di Matthew F. Jordan è uno studio di uno dei rumori più intenzionalmente fastidiosi dei tempi moderni, lo strombazzamento che all’inizio del novecento imperversava su tutte le strade degli Stati Uniti. In un contesto di regolamentazione del traffico praticamente inesistente, gli automobilisti avvisavano i pedoni e i conducenti di altri veicoli suonando senza sosta. La pubblicità del clacson originale – inventato dall’ingegnere elettrico Miller Reese Hutchinson e introdotto nel 1907 – ne magnificava la capacità di “sovrastare e sopprimere i suoni musicali”. L’obiettivo era il panico. Durante la prima guerra mondiale, fu usato per avvertire degli attacchi con il gas. Poi perse popolarità, anche perché i reduci traumatizzati reagivano negativamente ai suoi starnazzi.

Nonostante questa ambivalenza, noi umani abbiamo un’alta tolleranza al rumore. In qualche modo, sembra che ne abbiamo bisogno. Altre specie hanno reazioni diverse all’incessante caos sonoro dell’antropocene. Caspar Henderson, in A book of noises (Un libro dei rumori), osserva che quando la nostra specie è rimasta al chiuso durante la pandemia il mondo animale ha reagito con apparente sollievo: “Il canto degli uccelli ha recuperato qualità che erano state riscontrate per l’ultima volta decenni fa, quando le città erano più silenziose. Il passero corona bianca, per esempio, ha aumentato la sua estensione vocale raggiungendo frequenze più basse, e il suo canto è diventato più ricco, più pieno e più complesso”. Gli uccelli, inoltre, hanno ricominciato a cantare a volumi più bassi: prima “‘gridavano’ come la gente che alza la voce quando passa davanti a un cantiere o a una festa”. Probabilmente il livello di stress è diminuito. Il rumore è un’altra dimensione dei danni inflitti dall’essere umano al mondo naturale.

Di tanto in tanto, però, la natura scatena un rumore talmente imponente da ripristinare la grandezza biblica del mondo. Molti libri sul rumore citano il vulcano Krakatoa, in Indonesia, che nell’agosto del 1883 rigurgitò quello che è stato descritto come il suono più rumoroso della storia moderna. L’eruzione fu percepita fino a cinquemila chilometri di distanza. Il capitano di una nave britannica che navigava a sessanta chilometri dal vulcano scrisse: “Le esplosioni sono talmente violente che i timpani di metà della truppa si sono sfondati. I miei ultimi pensieri sono per la mia cara moglie. Sono convinto che sia arrivato il giorno del giudizio”.

Nell’ottobre 2023 sono andato alla Issue Project Room, un locale di musica sperimentale a Brooklyn, per ascoltare VirtuAural electro-mechanics, un collage audio di cinquanta minuti dell’artista sonoro Francisco López. Lo spazio che gli era dedicato – una cavernosa galleria in stile beux arts dello storico studio McKim, Mead & White – era completamente immerso nel buio. Al pubblico sono state consegnate delle mascherine per coprirsi gli occhi. In una nota nel programma López scrive: “Questa creazione è stata sviluppata con una miriade di registrazioni originali di suoni di congegni meccanici, sistemi elettromagnetici e ambienti industriali raccolti nel corso degli ultimi venticinque anni in tutto il mondo: dagli stabilimenti alimentari alle ‘camere bianche’, dagli automi del settecento ai computer, dal legno e i cavi al magnetismo, dal microscopico al monumentale”.

Se vi aspettate dalla musica che crei un’oasi di dolcezza melodiosa, VirtuAural electro-mechanics non fa per voi. È un’esperienza d’intensità schiacciante. Il volume non è la sua caratteristica principale – una discoteca o qualsiasi concerto rock la supererebbero – ma la gamma di frequenze e timbri è talmente vasta, dai bassi che scuotono i polmoni a scampanellii acutissimi, che il cervello fatica ad assimilarla tutta. Mi sono immaginato delle strutture fantasma nell’aria: era come se il suono si riversasse negli altri sensi.

VirtuAural electro-mechanics è musica? Non nel senso comune del termine. L’Oxford english dictionary associa la musica a concetti come “bellezza formale, armonia, melodia, ritmo, contenuto espressivo”, escludendo implicitamente le macchine delle fabbriche. Il grande fisico tedesco Hermann von Helm­holtz, nel suo Lehre von den Tonempfindungen (Teoria delle sensazioni tonali), del 1863, descrive la musica come il contrario del rumore. Un tono musicale, scrive, è un “suono perfettamente indisturbato, uniforme”. Il rumore è un’accozzaglia di segnali irregolari. Certe combinazioni di toni sono più piacevoli di altre, in virtù dei princìpi fisiologici che Helmholtz mappa nei minimi dettagli. I compositori europei hanno affinato l’arte dell’armonia, creando apparentemente un baluardo contro il rumore.

Pierluigi Longo

Proprio in quegli anni, però, i compositori cominciavano ad avere idee diverse. Come gli uccelli, ascoltavano il mondo circostante e ne imitavano il carattere sempre più chiassoso. Nell’Oro del Reno di Wagner, la fucina sotterranea dei nibelunghi viene evocata da una sezione di percussioni che, secondo la partitura, comprende diciotto incudini. Per alcune battute l’orchestra smette di suonare e le incudini martellano in solitudine, riproducendo il fragore dell’industria. Nel frattempo, l’armonia si stava allontanando dai suoi ormeggi tonali: le dissonanze minacciose della musica di Mahler, Strauss e Skrjabin evocavano sia la densità esteriore della vita moderna sia il tumulto interiore dell’individuo. Mahler disse: “Se vogliamo che migliaia di persone ci sentano nelle nostre enormi sale da concerto e nei nostri teatri dell’opera, dobbiamo semplicemente fare tanto rumore”.

Nel 1913 la situazione degenerò. I brutali accordi che risuonano nella seconda sezione della Sagra della primavera di Stravinskij concentrano sette delle dodici note della scala cromatica occidentale in uno spazio compresso, riducendo la tonalità a una macchia indistinta. T.S. Eliot scrisse che la Sagra sembrava “trasformare il ritmo delle steppe nell’urlo del motore, lo sferragliare delle macchine, lo stridore delle ruote, il pestare del ferro e dell’acciaio, il ruggito della ferrovia sotterranea… e trasformare questi rumori disperanti in musica”. Il 31 marzo 1913, due mesi prima del debutto della Sagra, un concerto a Vienna in cui furono eseguite le opere di Arnold Schönberg e della sua cerchia aveva sprigionato suoni ancora più inquietanti. Nel lied per voce e orchestra Über die Grenzen des All (Oltre i limiti dell’universo) di Alban Berg, i fiati e gli ottoni intonano un suono soffuso e sovrannaturale in cui si fondono tutte e dodici le tonalità. Era un’approssimazione strumentale del rumore bianco, prima ancora che nascesse l’espressione. Il concerto si concluse in una rivolta più clamorosa di quella scatenata dalla Sagra. Ci furono scazzottate, intervenne la polizia e la storia finì in tribunale.

In quello stesso anno il pittore futurista Luigi Russolo pubblicò un manifesto intitolato L’arte dei rumori, in cui scriveva: “Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto di più nel combinare idealmente dei rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti”. A tale scopo, Russolo e suo fratello Antonio crearono una batteria di strumenti da rumore fatti in casa. Una registrazione del 1921 fa pensare a un’orchestrina da bar che strimpella in una stanza con dietro un pessimo impianto idraulico. Altri compositori si cimentarono in tentativi più convincenti: le opere per sole percussioni di Amadeo Roldán e di Edgard Varèse, i primi esperimenti elettronici di Paul Hindemith e di Oskar Sala, i collage rumoristi del giovane John Cage. Il mastodontico pezzo orchestrale Amériques di Varèse, eseguito alla Carnegie hall nel 1926, richiamò il pandemonio della metropoli, con la sirena dei pompieri di New York a completare l’orchestra. George Antheil, per il suo Ballet méca­nique, che arrivò alla Carnegie nel 1927, voleva delle eliche d’aereo che roteavano sul palco, ma si dovette accontentare di una fila di ventilatori elettrici.

Anche la musica popolare fu arricchita dal rumore. I musicisti jazz, estendendo la tradizione del blues, recuperarono tonalità che andavano oltre la gamma delle dodici note. Il suono simile a una sirena del glissando del trombone diventò un marchio di fabbrica. Il jazz non si limitò a scalfire la superficie del rumore, ma ci attinse a piene mani. L’emergere di una vera e propria avanguardia jazz dopo la seconda guerra mondiale portò il modernismo musicale al vertice della sua esuberanza. Il rock entrò nella sua fase art-noise negli anni settanta e ottanta, con le pulsazioni industriali di band come Throbbing Gristle e Einstürzende Neubauten. L’hip-hop ha manipolato il rumore fin dai suoi albori. Hank Shocklee, produttore dei Public Enemy, facendo eco alla retorica di Varèse e Cage osservava: “Crediamo che la musica non sia altro che rumore organizzato. Puoi prendere qualsiasi cosa – suoni della strada, noi che parliamo – e renderla musica organizzandola. Questa cosa che chiami musica è molto più ampia di quello che pensi”.

La rumorista per antonomasia è Yoko Ono, che prima di raggiungere la fama mondiale grazie alla sua relazione con John Lennon si era fatta conoscere come maestra della provocazione nella scena di New York (al suo confronto, Cage sembrava timido). Il suo why furiosamente gridato e pieno di sfumature all’inizio dell’album Yoko Ono/Plastic Ono Band del 1970 fu un magistrale gioco al rialzo rispetto all’assalto maschilista del rock. Gli appassionati dei Beatles, messi di fronte a un rumore di ordine superiore, inorridirono come gli aristocratici mondani che avevano fischiato La sagra della primavera. Il rumore è solo una parte del volubile repertorio di Ono (ci sono altrettanti esempi di dolcezza e contemplazione), ma le va riconosciuto un ruolo centrale nella storia del rock, dalla quale è stata per lo più esclusa.

Nell’arte del rumore è implicita una promessa di resistenza. Per millenni, la musica è stata un mezzo di controllo; il rumore, dunque, è una liberazione. Schönberg parlava addirittura di “emancipazione della dissonanza”, assimilando le sue innovazioni armoniche a una questione di diritti civili. Il sociologo Jacques Attali, in Rumori: saggio sull’economia politica della musica, del 1977, dà una lettura ancora più sofisticata. Il bruit nouveau che Attali sente emergere dal free jazz e dall’avanguardia europea ha un significato rivoluzionario: nega il mercato, rifiuta il gusto popolare, prevede l’“invenzione di nuovi codici” e il “suonare per il proprio piacere”. Saggi successivi come Noise/Music di Paul Hegarty conservano il dualismo di Helmholtz ma ne ribaltano i pregiudizi, identificando nel rumore l’eroico distruttore delle soffocanti banalità della musica.

La domanda è: resistenza a cosa? Fare rumore non è una garanzia di virtù personale o politica. Russolo, come molti altri esponenti del movimento futurista, trovò il modo di conciliare le sue idee antiborghesi con l’estetica fascista. Varèse si macchiò di razzismo e antisemitismo. In tempi più recenti, l’iconografia e il vocabolario nazista hanno accompagnato i dischi noise dei Whitehouse e di Boyd Rice. Il maestro rumorista giapponese Masami Akita, che ha prodotto centinaia di registrazioni implacabilmente annientanti con lo pseudonimo di Merzbow, ha ammesso di essere consapevole di questa mentalità di dominio. “A volte vorrei uccidere i giapponesi troppo rumorosi con il mio rumore”, ha detto. “Gli effetti della cultura giapponese sono che c’è troppo rumore dappertutto. Con il mio rumore voglio fare silenzio. Forse è un modo fascista di usare il suono”.

Stephen Graham, docente di un corso di musica underground all’università Goldsmiths di Londra, esprime un punto di vista diverso in Becoming noise music, uno studio del settore a partire dagli anni settanta. Conscio dell’opacità del concetto di resistenza, Graham si concentra sull’estetica del genere. La contrapposizione di rumore e musica non lo soddisfa: il fascino del rumore, il più aspro tra tutti i generi, è proprio nell’eliminazione delle barriere tra i due concetti. Non si può parlare del rumore senza tenere conto del piacere. Il piacere sarà pure confinato a un pubblico di nicchia, magari un po’ masochista, ma comunque esiste. Nessuno sceglie di ascoltare un suono per ciò che non è.

Come si fa a spiegare l’estetica di una musica che segue la logica dell’eccesso più estremo? Graham ci prova con una certa efficacia in alcune pagine dedicate a Noisembryo, un album di Merzbow del 1994. Comincia osservando, in modo piuttosto asciutto, che l’ascoltatore “si trova di fronte a una specie di ‘ordine’ caotico o di una musicalità che appare e scompare a intermittenza quando, a un certo punto, emerge una pulsazione regolare, oppure spunta palpitando un bordone di basso, o ancora un panritmo stratificato di rumori stridenti improvvisamente si consolida in una sequenza poliritmica”. Poi passa a un flusso di coscienza che esprime il fremito della resa: “Mi lascio trasportare nel mondo del battito e resto lì, mentre la musica continua a cambiare e a pulsare; è possibile trascendere – in trance – allo stesso modo con una musica più convenzionale, ma il tasso minimo di ripetizione e l’alto tasso di densità e stranezza del rumore fanno sì che questa trance abbia una qualità di tensione particolarmente ricca una volta che la si raggiunge… Questa musica mi porta fuori da me stesso e mi rende cosmico”.

Questi sproloqui sono sempre un po’ imbarazzanti da leggere, ma qualsiasi critico che voglia catturare il piacere deve, prima o poi, imbarazzare il lettore. Provo sensazioni simili a quelle di Graham quando mi perdo in passaggi di rumore musicale come quelli di Merzbow e di Ono, oppure nelle scene di guerra apocalittiche nell’opera Infinite now di Chaya Czernowin. L’emozione che mi provocano questi suoni non è in contraddizione con il mio amore incrollabile per Bach, Schubert e Brahms, così come la frenesia astratta di Jackson Pollock non è in contraddizione con la calma radiosa di Beato Angelico. Quello che amo del rumore è la sua insistenza sull’alterità, sulla differenza. Se la musica dovesse mai diventare un linguaggio universale, sarebbe morta.

Quanto a VirtuAural electro-mechanics di López, mi ha lasciato in uno stato di felice vuoto, come se i detriti digitali del mio cervello fossero stati spazzati via. Mi sono impegnato ad ascoltare in modo attivo e vigile. Ho annuito e ondeggiato a tempo, anche se non c’era un vero e proprio battito. Lo scontro delle pulsazioni sembrava condensarsi in un ritmo fantasma di fondo, insistente come il martellare di un basso. “La mente è il suo luogo”, come dice il Lucifero di Milton. Può stabilire il suo ordine, la sua armonia. Sono uscito per le strade di Brooklyn sentendomi vivo, sereno, singolarmente libero. Quando mi sono ritrovato nel caos della metropolitana, però, ho avuto un sussulto e mi sono messo le cuffie antirumore. ◆ fas

Alex Ross è un giornalista statunitense. È critico musicale del New Yorker. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Wagnerismi. Arte e politica all’ombra della musica (Bompiani 2022). Questo articolo è uscito sul settimanale New Yorker con il titolo What is noise?

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Questo articolo è uscito sul numero 1569 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati