A un incontro con i giovani registi della Cinéfondation a Parigi mi hanno chiesto: come calibri la dose di immaginazione e di realismo dei tuoi film? Cercando la risposta, mi sono resa conto che faccio fatica a distinguere tra visibile e invisibile, non riesco a vedere la frontiera e quindi non ho ricette. Mi sembra che si possa dividere il genere umano in due gruppi: chi vede le frontiere e alza muri invalicabili e chi le frontiere non riesce proprio a vederle. Per queste persone quello che viene chiamato confine è semplicemente il bordo vivo delle esperienze, dove c’è ancora spazio per crescere. Nella sua Storia politica del filo spinato il filosofo francese Olivier Razac racconta che nel 1874 un colono americano, per raddoppiare il fil di ferro del suo recinto lo mise in un macinacaffè: il filo si spezzò creando punte dolorosissime, e quell’invenzione casuale diventò un successo, un’arma perfetta per il mondo che si stava costruendo. Per la prima volta un confine non solo divideva, ma feriva, respingeva, poteva uccidere: tra i nomadi americani, che non conoscevano recinti, fu una strage. Da allora il filo spinato ne ha fatta di strada: ha recintato stati, guerre, campi di concentramento, ha marchiato i corpi di chi voleva oltrepassarlo con la cicatrice dell’esclusione. Ma è davvero necessario? C’è un altro modo di guardare ai confini, ne sono sicura: come dice il poeta Paul Éluard, c’è un altro mondo, ma è in questo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati