L’indirizzo del sindacato è corso Unione Sovietica 351, a Torino. In questo punto del viale dedicato a un gigante che non esiste più, si vede un pezzo di quello che un tempo era il cuore di un altro impero scomparso: lo storico palazzo della Fiat, con la sua sagoma modernista e i suoi fantasmi. Oggi l’edificio che rappresentava l’ingresso alla fabbrica di Mirafiori è vuoto.

Nella sala riunioni della sezione locale del sindacato Fiom-Cgil, decorata con fotografie di lotte combattute in un passato lontano, Giacomo Zulianello parla dell’azienda in cui è entrato nel 1996: “La Fiat era tutto in questa città. Poi c’è stato il lento disimpegno. Lo presentano come se fosse frutto del destino, ma è il frutto di un abbandono voluto”, sottolinea l’operaio di 58 anni, che è più o meno l’età media dei dipendenti dello stabilimento. Oggi Fiat sta cercando di convincere i lavoratori a dimettersi proponendo indennità astronomiche rispetto ai loro stipendi. Da settembre Zulianello e gli altri 3.200 operai di Mirafiori sono in cassa integrazione, con poche speranze di riprendere il lavoro a tempo pieno. Il settore dell’auto è in cattive acque, e quello dell’operaio carrozziere è uno dei mille volti della crisi che si è abbattuta in tutta Europa. La domanda di veicoli è in caduta libera, mentre le auto elettriche, come la versione a batteria della Fiat 500 prodotta a Torino, si vendono poco. I costruttori si preoccupano dei loro margini di guadagno e faticano a rispettare la normativa europea che dovrebbe portare all’abbandono del motore a scoppio entro il 2035.

Giorno dopo giorno, dalla Volkswagen alla Ford si susseguono gli annunci di tagli di migliaia di posti di lavoro. Il gruppo Stellantis, datore di lavoro di Zulianello, è il depositario dell’eredità della Fiat, ma il nome glorioso del vecchio fiore all’occhiello dell’industria italiana è solo uno dei quattordici marchi controllati dalla società, insieme a Maserati, Peugeot, Chrysler e Opel.

Il 1 dicembre l’amministatore delegato del gruppo Carlos Tavares, l’uomo che ha accelerato la globalizzazione della Fiat e che ormai era in conflitto perenne con il governo italiano, è stato spinto alle dimissioni. L’unica azienda automobilistica attiva in Italia ha ridotto progressivamente la produzione nel paese, suscitando la collera di un governo che non ha più alcuna presa sui vertici societari, anche se il presidente del gruppo, John Elkann, è l’erede diretto degli Agnelli, la dinastia dei fondatori della Fiat. Elkann non si è nemmeno “degnato” di andare a Roma, di fronte ai componenti di una commissione parlamentare che lo avevano convocato per chiarire il futuro della Stellantis in Italia. Dopo la partenza di Tavares toccherà a lui gestire la transizione.

Corso Unione Sovietica finisce in piazzale Caio Mario, da cui parte corso Giovanni Agnelli, trisavolo di Elkann, il figlio di proprietari terrieri che nel 1899 fondò la Fiat. Per molto tempo la storia di questa famiglia e di questa azienda si è fusa con quella di Torino e dell’Italia. “La Fiat ha tirato fuori il paese dalla sua condizione provinciale, è stata una forza di modernizzazione”, spiega Maurizio Torchio, responsabile del Centro storico Fiat. Nel piccolo museo deserto c’è un’atmosfera nostalgica che avvolge le carrozzerie dell’inizio del novecento e le linee curve della Fiat 500 del 1957, simbolo delle utopie meccaniche del miracolo economico, quando l’azienda aveva quasi un monopolio. All’epoca i lavoratori del sud, spinti dalla povertà, riempivano le fabbriche di Torino mentre in Italia nasceva la classe media e la cultura di massa. La Juventus, della famiglia Agnelli, è la squadra italiana che ha vinto più scudetti, con tifosi in tutto il paese. In passato la Fiat produceva anche lavatrici per le famiglie italiane e dighe idroelettriche in Iran.

Centro di gravità

Il secondo Giovanni Agnelli, l’uomo che ereditò questo periodo d’oro e lo prolungò assumendo la guida dell’azienda nel 1966, non è altro che un lontano ricordo. Nato nel 1921, “Gianni” Agnelli era amico dei Kennedy, di Henry Kissinger e dei grandi del pianeta, abile comunicatore e famoso come il papa. Con la sua figura aristocratica e i modi raffinati, era il simbolo di un’Italia nuova e conquistatrice, prospera, europea e atlantista. Più che uno stato nello stato, la Fiat di Gianni Agnelli era uno stato accanto allo stato. La sua morte, nel 2003, è coincisa con una delle crisi più gravi vissute da questa azienda che ha segnato per sempre l’identità italiana.

Dopo un periodo di transizione durato sei anni, la nuova generazione degli Agnelli ha preso in mano il gruppo nel 2010 e John Elkann, nipote di Gianni, è stato nominato presidente dell’azienda, che si è internazionalizzata. La fusione con la Chrysler nel 2014, seguita da un avvicinamento alla francese Psa, ex holding della Peugeot che aveva acquisito la Citroën e la Opel. Nel 2021 dalla fusione delle due aziende è nata Stellantis, che era il quarto gruppo automobilistico mondiale.

A quel punto il centro di gravità della nuova entità si è spostato nettamente verso Parigi, anche considerando che lo stato francese detiene il 6 per cento del capitale, mentre il governo italiano non ha nessuna quota. Alla fine del 2023 il gruppo aveva 258mila dipendenti in cinquanta stabilimenti, ma solo il 17 per cento della forza lavoro di Stellantis era impiegata nelle fabbriche italiane. Oggi l’Italia non è più il mercato di riferimento del gruppo. Dal 2021 Stellantis ha tagliato più di diecimila posti di lavoro.

La Fiat si è dunque dissolta in un impero multinazionale. Anche se John Elkann è il presidente della Stellantis, il suo ruolo non è operativo. La Exor, la holding di famiglia guidata da Elkann con sede ad Amsterdam, controlla appena il 14,2 per cento del gruppo. Gli Agnelli non sono più i signori di Torino né tanto meno i re d’Italia, ma si evolvono su un piano diverso da quello degli stati-nazione. Eppure il paese a cui devono la loro fortuna non li ha dimenticati, anche perché resta legato al destino della Stellantis e rischia di pagare le conseguenze delle sue difficoltà.

Dopo anni positivi, gli utili del gruppo sono calati del 48 per cento nel primo semestre dell’anno. La produzione dei veicoli ha rallentato e le vendite sono calate del 27 per cento nel terzo trimestre. Nelle concessionarie la situazione è molto tesa, con problemi di qualità e prodotti che vengono rimandati indietro più volte. La politica della riduzione frenetica dei costi voluta da Tavares ha mostrato tutti i suoi limiti. Le aziende italiane del gruppo non sono sfuggite alla crisi, e la produzione è crollata. A gennaio è stato chiuso uno stabilimento Maserati di Torino.

Le critiche del governo

È in questo contesto che è scoppiato un aspro conflitto tra la Stellantis e il governo guidato da Giorgia Meloni, deciso a far valere le radici italiane dell’azienda. Il costruttore chiede maggiori incentivi pubblici per restare in Italia, ma Roma risponde che l’azienda ha danneggiato la produzione e il lavoro in Italia nonostante i tanti aiuti economici avuti in passato. “Le vecchie generazioni degli Agnelli avevano a cuore l’Italia e l’auto, mentre quella attuale guarda oltre e ragiona da un punto di vista puramente finanziario e non nazionale”, spiega Antonio Sileo, esperto del settore automobilistico e professore dell’università Bocconi di Milano.

Già nel 2021, quando era all’opposizione, Meloni aveva criticato la fusione con la Psa descrivendola come una conquista straniera di un tesoro nazionale. Da presidente del consiglio Meloni ha attaccato i vertici di Stellantis e la loro “distanza” dagli interessi nazionali, accusando il gruppo di approfittare del legame storico con l’Italia e allo stesso tempo di abbandonarla. “Se si vuole vendere un’auto sul mercato internazionale pubblicizzandola come gioiello italiano allora quell’auto deve essere prodotta in Italia”, ha dichiarato. Il gruppo è stato costretto a cambiare il nome di un modello Alfa Romeo da Milano a Junior, perché l’auto è prodotta in Polonia. A maggio sono state sequestrate 134 Fiat Topolino nel porto di Livorno a causa della presenza sulle portiere di una bandiera italiana, nonostante fossero state assemblate in Marocco.

A ottobre, di fronte alle commissioni attività produttive della camera e industria del senato, Tavares ha confermato una linea basata sulla richiesta di sovvenzioni, su investimenti limitati a Torino e su impegni molto vaghi. Elkann, che ha giudicato sufficienti le risposte di Tavares, si è rifiutato di rispondere alla convocazione del parlamento, una “mancanza di rispetto” secondo Meloni. “Tavares non ha convinto, perché il governo vuole un piano industriale preciso e non la promessa generica di non allontanarsi, soprattutto se i dati di produzione dicono il contrario”, spiega Valentina Meliciani, direttrice della School of european political economy dell’università Luiss di Roma.

Nel tentativo di migliorare i rapporti tra il gruppo e Roma, Elkann ha informato direttamente Meloni delle dimissioni di Tavares, diventato un bersaglio del governo italiano. “Era ora che se ne andasse”, ha reagito Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla camera e nominato il 2 dicembre ministro degli affari europei al posto di Raffaele Fitto, che farà parte della nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen.

“Nel contesto della transizione verso l’elettrico, Stellantis avrebbe dovuto investire in massa e cercare un compromesso con i governi anziché voltargli le spalle e preoccuparsi unicamente dei margini di guadagno”, sottolinea Tommaso Pardi, ricercatore del Centro nazionale di ricerca scientifica e direttore del Gruppo di studio e di ricerca permanente sull’industria e i lavoratori dell’auto, che hanno sede a Parigi. “Politici e sindacalisti fanno bene a chiedere conto al gruppo”, ha detto.

“Regioni, comuni, sindacati, e i partiti di governo e di opposizione. Tutta Italia chiede a Stellantis di investire. Una rivendicazione che viene dalla storia di questo paese”, ha dichiarato Adolfo Urso, ministro dello sviluppo economico e del made in Italy. Urso ha ricordato che Agnelli, a suo tempo, aveva ammesso che l’azienda doveva tutto a suo nonno, al diritto di proprietà e al diritto di successione. Il patriarca aveva vincolato il suo lascito per gli eredi al “dovere di essere responsabili” nei confronti dell’Italia.

Secondo il ministro “il rilancio dell’auto e dell’industria italiana si basa su questa responsabilità, che ricade sulle spalle degli eredi della Fiat di Agnelli”. Ma in realtà quella che un tempo veniva chiamata “mamma Fiat” è morta da tempo. Con o senza Tavares, il gruppo non mostra alcun legame con la memoria e l’orgoglio ferito di una vecchia nazione industriale. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati