Quando il razzo ha colpito, ad Addis Abeba i caffè erano pieni e l’atmosfera nelle strade rilassata. Nella capitale etiope non si è visto né sentito nulla. La piazza del mercato bombardata lo scorso 22 giugno era a Togoga, mille chilometri a nord, nella regione del Tigrai. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, l’attacco dell’aviazione etiope ha causato almeno una sessantina di morti. Ma i mezzi d’informazione etiopi, almeno inizialmente, non hanno dato la notizia. Nella capitale praticamente nessuno si è accorto di quello che succedeva al nord. Al bar, tra un caffè espresso e l’altro, si discuteva delle chances dei fondisti etiopi alle Olimpiadi di Tokyo e ci si compiaceva dello svolgimento pacifico delle elezioni del giorno prima. Il primo voto “libero e regolare” nella storia del paese: così l’ha definito il capo del governo Abiy Ahmed. Di certo, sono state più libere e regolari di qualsiasi elezione precedente.

Addis Abeba e Togoga vivono due realtà molto diverse.

Etiopia, 2021: una potenza del Corno d’Africa con più di 110 milioni di abitanti e numerosi successi nella lotta alla povertà. Beniamina dell’occidente, in particolare delle agenzie di cooperazione allo sviluppo e degli investitori. Dall’aprile 2018 è governata da un premier giovane e carismatico, che dice di voler modernizzare, democratizzare e unire il paese. Un suo slogan è “Mega: make Ethiopia great again”.

Questo è un lato.

Etiopia 2021: un paese formato da più di ottanta gruppi etnici, scosso dalla crisi economica innescata dalla pandemia di covid-19, dai conflitti con i paesi vicini per i confini e le risorse idriche, dalle violente tensioni interetniche che costringono centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le loro case. È governato da un primo ministro che usa l’esercito e le milizie contro gli abitanti della regione del Tigrai, con un livello di violenza che ricorda le guerre nei Balcani. Abiy, secondo alcuni, sta portando l’Etiopia alla dissoluzione.

Questo è l’altro lato. In mezzo ci sono innumerevoli zone grigie dove tutto si confonde. Il desiderio della popolazione di maggiore libertà convive con la paura. La speranza che dopo le elezioni legislative Abiy si confermi, nonostante tutto, un riformatore e un pacificatore va di pari passo con il timore che ricalchi i metodi autoritari dei suoi predecessori.

“Per quale motivo i tigrini dovrebbero ancora credere di far parte dell’Etiopia?”

Per una giornalista straniera, fare pronostici sarebbe azzardato. “Capire cosa sta succedendo è difficile anche per noi etiopi”, mi ha detto uno storico di Addis Abeba. Ma ci sono piste da seguire e voci da ascoltare. Non tutti i miei interlocutori vogliono essere citati per nome e alcuni vivono all’estero.

Un candidato non ideale

La prima opinione che raccolgo è quella dell’uomo che due anni e mezzo fa ha candidato Abiy Ahmed al premio Nobel per la pace. “Non rimpiango di averlo fatto”, assicura Awol Kasim Allo, che insegna legge alla Keele university nel Regno Unito. In virtù della sua professione può proporre dei nomi al comitato norvegese per i Nobel. Awol vive in Inghilterra e di questi tempi evita il suo paese d’origine. “Le informazioni disponibili all’epoca giustificavano la candidatura di Abiy”, dice. “Ma quando vedo l’estrema violenza che consuma oggi il mio paese, non riconosco più l’uomo di allora”.

Nel dicembre 2019, quando fu insignito dell’onorificenza, Abiy aveva 43 anni ed era un politico carismatico e pieno di energia. Nel suo discorso di ringraziamento auspicò la pace, la democrazia, la riconciliazione e il rispetto dello stato di diritto per tutta l’Africa. Era diventato premier un anno e mezzo prima, dopo che centinaia di migliaia di giovani avevano protestato contro la violenza e la corruzione dello stato, costringendo l’élite al potere da trent’anni a fare un passo indietro. Una specie di “primavera etiope”. Abiy, anche lui membro del vecchio apparato e in particolare dei servizi segreti, aveva aperto le carceri, cancellato lo stato d’emergenza, nominato un governo composto per metà di donne, avviato procedimenti giudiziari contro i potenti del passato, siglato un trattato di pace che aveva messo fine alla guerra con la vicina Eritrea, l’acerrimo nemico contro cui l’Etiopia combatteva dalla fine degli anni novanta. Nei primi mesi era stato acclamato come un messia. Ma quando l’onda di tutta quest’euforia aveva, con un certo ritardo, raggiunto anche Oslo, in Etiopia si stavano già diffondendo – ancora prima della guerra in Tigrai – la disillusione e la violenza.

Per percorrere i 170 chilometri in direzione sud che separano Addis Abeba dal villaggio di Adami Tullu ci vogliono tre ore. Mentre dallo specchietto retrovisore dell’auto vediamo allontanarsi gli edifici moderni della capitale, passiamo davanti a quartieri satellite e accampamenti per sfollati. Poi seguono villaggi polverosi, piccole chiese ortodosse e moschee dai tetti in lamiera. Greggi di capre governate da pastori bambini attraversano strade fiancheggiate da serre gigantesche, inframmezzate da minuscoli campi di cipolle, pomodori e angurie. Sulle rive del lago Ziway i marabù muovono le loro lunghe zampe nell’acqua bassa. A prima vista è un paradiso naturale, il sogno di ogni turista.

Lungo la strada principale ci aspetta Abinet Geletaw, che quando arriviamo ci fa cenno di seguirlo in una stradina secondaria e poi ci apre il cancello di ferro della casa dei suoi genitori. I vetri delle finestre sono in frantumi, le stanze piene di sabbia e schegge di vetro. Una parte del muro è stata imbiancata. “Per nascondere le macchie di sangue”, spiega Abinet, 31 anni. È una persona riservata ma determinata. Di mestiere fa il tornitore, e abita e lavora a poche centinaia di metri da questa casa. Lui e la sua famiglia appartengono al gruppo etnico amhara, mentre il loro villaggio, Adami Tullu, si trova nella regione a maggioranza oromo. Fino al 29 giugno 2020, Abinet era convinto che questo fosse del tutto irrilevante. Lui parla entrambe le lingue, l’amarico e l’oromo, e s’incontrava con i vicini per ascoltare la musica di Hachalu Hundessa, il noto cantante oromo. Le sue canzoni erano diventate la colonna sonora delle proteste di piazza che avevano portato Abiy al potere. Era la prima volta che un oromo governava il paese e ad Abinet sembrava una cosa normale.

Ma presto si è cominciato a intuire che le riforme promosse di gran fretta da Abiy avevano lasciato campo libero non solo ai sostenitori della democrazia e dei diritti civili, ma anche agli etnonazionalisti di ogni genere. La storia dell’Etiopia è unica nel continente africano: per molto tempo fu un impero, ed è il solo paese africano a non essere stato colonizzato. Per ben due volte – alla fine dell’ottocento e durante la seconda guerra mondiale – respinse i soldati italiani che l’avevano invasa. Questo è un motivo di orgoglio nazionale per gli etiopi. Ma sotto questo orgoglio si celano le fratture e i solchi prodotti dalle lotte secolari tra amhara e tigrini, che si contendevano il dominio sottomettendo e marginalizzando altri gruppi etnici, come gli oromo, che oggi sono i più numerosi. Sono le ferite di una politica imperiale che non è occidentale, ma africana. I nuovi spazi di libertà aperti dalla liberalizzazione di Abiy e la povertà diffusa hanno contribuito ad accendere la miccia.

Abinet aveva sentito parlare di aggressioni contro gli amhara da parte di bande di giovani oromo armati e delle tensioni etniche scoppiate in altre regioni. Su internet aveva letto discorsi che istigavano all’odio. Ma a casa sua si era sempre sentito al sicuro. Fino alla mattina del 29 giugno 2020, quando da Addis Abeba era arrivata la notizia che avevano sparato al cantante Hachalu. “Hanno ucciso la nostra voce”: questa frase era diventata virale sulle pagine Facebook e gli account Twitter degli oromo. Molti pensavano che ad ammazzarlo fossero stati gli amhara.

“Oggi resta a casa”, aveva raccomandato la madre ad Abinet parlandogli al telefono, “qualcosa bolle in pentola”. È stata l’ultima volta che si sono sentiti.

Quando Abinet è riuscito a raggiungere la loro casa, i corpi dei suoi genitori, della sorella, del più piccolo tra i suoi fratelli e di un cugino erano già stati portati via. La folla aveva sfondato il muro del giardino e abbattuto il cancello di ferro. “Poi si sono avventati sulla mia famiglia con lance e machete”, racconta. La polizia è arrivata solo quando il saccheggio era già finito: gli assassini avevano portato via tutti gli oggetti di valore.

Nei disordini innescati dall’uccisione di Hachalu, sono morte almeno 120 persone, linciate dalla folla o abbattute dai colpi delle forze dell’ordine, che in ogni caso arrivavano quasi sempre troppo tardi. Abinet conosce bene alcuni degli autori delle violenze. Un tempo li salutava se li incontrava per strada. Non sentendosi più al sicuro nel villaggio si è trasferito ad Addis Abeba ed è alla disperata ricerca di un lavoro.

Un’ombra lunga

Negli ultimi anni simili esplosioni di violenza sono diventate più frequenti. In alcuni periodi gli sfollati interni hanno superato i tre milioni, più del totale di tutti i profughi che dal 2015 hanno raggiunto l’Europa. In molti posti – e questo è un altro tassello che compone l’immagine sfaccettata del paese – ci sono state persone e gruppi che si sono opposte all’odio: i preti, gli imam, gli anziani e gli atleti famosi hanno cercato di fare da mediatori e di mettere pace. Ma le loro azioni sono state messe in ombra da quello che è successo nel Tigrai.

Da sapere
L’arma della fame

◆ Dopo la presa di Mekelle il 28 giugno 2021, migliaia di soldati etiopi catturati dalle Forze di difesa del Tigrai (Tdf) sono stati fatti sfilare per le strade della città il 2 luglio. I ribelli tigrini affermano che più di seimila combattenti avversari sono nelle loro mani. Nonostante i festeggiamenti per il ritorno del Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf, il partito che domina la politica regionale e che costituisce il grosso delle Tdf), gli abitanti di Mekelle vivono in condizioni di emergenza, con scorte di generi alimentari e carburante agli sgoccioli. Si stima che otto mesi di combattimenti abbiano costretto due milioni di persone ad abbandonare le loro case. Per 400mila tigrini è arrivata la carestia. Ancora incerto il bilancio delle vittime dei combattimenti, che potrebbero essere migliaia. Cnn, Bbc, The New York Times


Lì si concentrano gli avversari di Abiy. Nel 1991, insieme ad altri gruppi ribelli che si erano formati su base etnica, il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) era riuscito a rovesciare un regime socialista che aveva ucciso i suoi cittadini in massa. La coalizione guidata dal Tplf aveva imposto un nuovo ordine, introducendo il federalismo su basi etniche. Aveva combattuto con successo la fame, attirato imprese straniere e assicurato una crescita economica sostenuta con il plauso della comunità internazionale. Ma il potere era tutto ad Addis Abeba, nelle mani di un Tplf sempre più autoritario. La crescita economica avveniva a spese di migliaia di piccoli agricoltori che erano stati cacciati dalle loro terre. La rabbia suscitata da questi espropri alla fine ha fatto declinare il potere del Tplf e preparato il terreno all’ascesa di Abiy.

Nel novembre 2020 la lotta politica tra il governo di Addis Abeba e le autorità del nord ha conosciuto un’escalation, che ha portato a una guerra. Per liberarsi una volta per tutte del Tplf, il premio Nobel per la pace ha inviato in Tigrai l’esercito nazionale e le milizie etniche sue alleate. Poche settimane dopo ha annunciato di aver portato a termine vittoriosamente la missione. Ma nell’interruzione di tutte le comunicazioni hanno cominciato a filtrare le prime notizie di atrocità: civili tigrini cacciati in massa dalle milizie amhara, amhara massacrati dai tigrini, stupri e saccheggi sistematici da parte dei soldati eritrei. Abiy aveva trasformato l’accordo di pace con la vicina Eritrea in una fratellanza d’armi contro il Tplf. Più recentemente le Nazioni Unite hanno avvertito che almeno 400mila civili rischiano di morire di fame perché i combattenti ostacolano l’arrivo degli aiuti umanitari.

Come l’ex Jugoslavia

Torniamo ad Addis Abeba. Davanti al parco dell’Unità i visitatori fanno la fila sotto la pioggia. I bambini tenuti per mano dai genitori si agitano impazienti. Lo zoo ospita ghepardi, leoni bianchi, pavoni e scimmie. Dietro di loro si stagliano, come una suggestiva scenografia, i nuovi grattacieli di uffici e le gru con il logo di aziende cinesi.

Nel parco dell’Unità una guida porta un gruppo di turisti a scattare il selfie di rito di fronte alla scritta “I love Ethiopia”, dai caratteri alti quanto una persona. “È un’iniziativa del primo ministro”, dice la guida con entusiasmo mentre indica il parco con il braccio. “Lo stesso vale per le aiuole piene di fiori e gli alberi che costeggiano le strade. Con Abiy il nostro diventerà un paese verde”. Ma quando gli altri si sono allontanati bisbiglia verso di me: “Ho paura che finiremo come la Jugoslavia”.

Può darsi che il modello dello stato-nazione non sia il più adatto per l’Etiopia, mi dice la sera stessa uno scrittore davanti a una birra. È tornato dall’esilio grazie ad Abiy e ora vorrebbe aprire una casa della letteratura. Secondo lui sarebbe meglio una federazione di stati, “un po’ come l’Austria e l’Ungheria” nel periodo precedente alla prima guerra mondiale.

“Come prima cosa dobbiamo riscrivere la nostra storia”, afferma invece un’insegnante oromo che sogna un’Oromia indipendente. La secessione è un’aspirazione estrema, osserva Awol Kasim Allo. L’uomo che aveva proposto Abiy per il premio Nobel oggi è uno dei suoi critici più agguerriti, ragion per cui nel suo paese d’origine lo aspetta un mandato d’arresto per aver tentato di “dividere il paese”. “Prendiamo per esempio i tigrini: dopo tutto quello che è successo per quale motivo dovrebbero ancora credere di far parte dell’Etiopia?”.

Il 28 giugno gli eventi sono precipitati: le milizie tigrine hanno cacciato l’esercito etiope da Mekelle, il capoluogo del Tigrai. Il governo di Addis Abeba è stato costretto ad annunciare un cessate il fuoco unilaterale, mentre l’Onu chiede che vengano lasciati passare aiuti umanitari in quantità sufficiente. Nessuno sa cosa faranno le truppe eritree che sostengono Abiy né quale strada prenderà il primo ministro quando, prossimamente, sarà annunciata la sua probabile vittoria elettorale: opterà per compromessi e negoziati, o al contrario per una ripresa dell’offensiva militare?

In questi giorni migliaia di persone hanno ricordato Hachalu Hundessa, il cantante ucciso. Nell’anniversario del suo omicidio è uscito un nuovo album, registrato poco prima che morisse. S’intitola Maal mallisaa, che significa: “Qual è la soluzione?”. Abinet del villaggio Adami Tullu se ne procurerà una copia. Nonostante tutto quello che ha passato, ama ancora la musica di Hachalu. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati