Viviamo in un mondo caratterizzato da violenza e aggressività: insultare gli altri pubblicamente e nei social media è diventato normale e negli ultimi mesi in Germania ci sono state diverse aggressioni contro i politici. Ma anche nella vita quotidiana spesso siamo poco bendisposti: alla cassa del supermercato siamo scortesi, tra colleghe e colleghi i toni si accendono quando il lavoro diventa stressante. Comprendere i sentimenti degli altri non è sempre facile, ma si può imparare a farlo anche da adulti.

Noi umani siamo esseri sociali e la nostra convivenza dipende da quanto riusciamo a capire cosa provano le altre persone. Questo ci aiuta a prevedere il loro comportamento. Non si tratta solo di una comprensione cognitiva, l’empatia riguarda la sfera emotiva: è la capacità di immedesimarsi nei sentimenti e nelle emozioni altrui.

Chi ha relazioni basate sul rispetto e la sensibilità riesce più facilmente a mantenerle forti e sane. L’empatia facilita la comunicazione e la cooperazione, sia nella vita privata sia sul lavoro: permette di evitare i malintesi e di risolvere meglio i conflitti. Inoltre favorisce un comportamento prosociale, ovvero ci motiva ad aiutare le altre persone e a sostenerle in situazioni difficili. Con il mio gruppo di ricerca ci siamo chiesti se si può imparare l’empatia. Abbiamo mostrato a un gruppo di volontari dei video in cui si vedevano delle mani ricevere stimolazioni dolorose. Poi gli abbiamo fatto vedere come avevano reagito a quei filmati altre persone: abbiamo mostrato reazioni empatiche e non empatiche. E il risultato è stato che chi aveva assistito a una reazione particolarmente empatica ha reagito poi mostrando una maggiore sensibilità.

Contemporaneamente abbiamo misurato con la risonanza magnetica l’attività cerebrale delle donne e degli uomini e abbiamo osservato una maggiore attivazione della parte anteriore della corteccia insulare, la stessa area cerebrale che si attiva quando proviamo dolore. Più quella zona era attiva, maggiore empatia provavano. In altre parole, quando abbiamo una reazione di vicinanza e solidarietà, comprendiamo i sentimenti dell’altro anche al livello neuronale.

La capacità di essere empatici si sviluppa tra il primo e il secondo anno di vita. In questo periodo impariamo a distinguere noi stessi dagli altri. Solo quando ci riusciamo, possiamo capire se stiamo reagendo a quello che prova un’altra persona. Una forma preliminare di empatia è il contagio emotivo: i bambini cominciano a piangere quando sentono un altro bambino o bambina che piange, senza nemmeno saperne il motivo. Un po’ come succede con lo sbadiglio, l’emozione si trasmette dall’uno all’altro. Non esiste però un “gene dell’empatia”: la capacità di essere più o meno compassionevoli dipende da una combinazione di predisposizione genetica e influenze ambientali. Dai nostri studi è emerso però che si può imparare a essere più empatici e migliorare questa capacità nel corso della vita. Durante l’infanzia apprendiamo a immedesimarci soprattutto attraverso le figure di riferimento più strette, come i genitori, i nonni o altri componenti della famiglia. In seguito entrano in scena anche educatori e insegnanti. Ma pure da adulti possiamo imparare qualcosa da amiche o amici, sul posto di lavoro o anche da personaggi pubblici, come i politici. Qualunque sia il nostro modello di riferimento, gli studi hanno dimostrato che vivere in un ambiente tollerante ci rende più empatici, anche se non conosciamo personalmente le persone a cui ci ispiriamo.

Esempi di tolleranza

Tutti noi possiamo migliorare: se lavoro alla cassa del supermercato posso fare un sorriso a una cliente stressata. O al contrario, se sono io a fare la spesa, posso cercare di alleviare lo stress di chi è alla cassa dicendo: “Non ho fretta, faccia con calma”. Spesso è già sufficiente.

Chi ha un ruolo dirigenziale può provare ad avere delle attenzioni nei confronti dei propri collaboratori. Per esempio non sovraccaricando chi ha avuto un lutto e chiedendo se ha bisogno di supporto, oppure invitando un collega di cattivo umore a prendere un caffè. Se sto litigando per un parcheggio, posso provare a mettermi nei panni dell’altra persona senza alzare subito la voce: forse ha avuto una giornata stressante o magari deve fare la spesa di corsa prima di prendere i bambini all’asilo? Magari a quel punto mi accorgo che quel parcheggio non è così importante quanto il sorriso di sollievo dell’altra persona quando le cedo il posto. Ci sono mille piccole cose che possiamo fare ogni giorno. Ognuna e ognuno di noi può contribuire a rendere la nostra società un po’ più comprensiva.

È importante ricordarsi che per essere empatici dobbiamo prima di tutto essere emotivamente stabili. Se non stiamo bene, pensare al benessere degli altri può diventare stressante. Per questo è fondamentale prendersi cura di sé. Bisogna assicurarsi che la pressione provienente dal dolore degli altri non si sommi alle nostre difficoltà. Più siamo sereni ed equilibrati e più è probabile che reagiremo in modo empatico.

Le persone che si confrontano ogni giorno con la sofferenza degli altri, come quelle che lavorano in ospedale, dovrebbero imparare a canalizzare l’empatia. Hanno bisogno di supporto, per esempio di una buona supervisione, per rimanere in sintonia con il dolore degli altri, ma allo stesso tempo devono proteggersi. È fondamentale essere consapevoli della nostra forza interiore e ricordarci che non siamo del tutto impotenti di fronte alla sofferenza degli altri. Possiamo fare davvero qualcosa per alleviare il dolore altrui, per esempio ascoltare un amico triste, portarlo fuori per distrarlo, andare a trovare nostra madre in ospedale e occuparci del giardino di casa sua. Potremmo anche decidere di dedicarci al volontariato. Allora l’empatia crea qualcosa di molto prezioso: l’aiuto. ◆ nv

Anna-Lena Schlitt è una giornalista della Zeit, antropologa culturale ed etnologa.

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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 115. Compra questo numero | Abbonati