È un passo avanti enorme verso l’introduzione di un’aliquota fiscale mondiale di almeno il 15 per cento sui redditi delle multinazionali e, più in generale, di un regime fiscale adeguato al ventunesimo secolo, alla globalizzazione e all’economia digitale. Il 5 giugno, al termine di negoziati durati due giorni, i ministri delle finanze del G7 – il gruppo delle sette principali potenze economiche mondiali (Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Germania, Francia, Italia e Giappone) – hanno espresso il “forte sostegno” a una “imposta minima mondiale”. Al centro dei negoziati c’è stata anche la ripartizione “equa” tra i paesi del nord e quelli del sud dei “diritti d’imposizione” sui profitti delle grandi aziende. Nel comunicato finale, infatti, i ministri hanno precisato che “i paesi in cui le multinazionali operano avranno il diritto d’imporre aliquote di almeno il 20 per cento sugli utili superiori al 10 per cento delle entrate per le multinazionali più redditizie”. In seguito saranno indicate alcune eccezioni definite “appropriate”, per esempio quelle relative al settore minerario.

I ministri delle finanze hanno espresso appoggio unanime al progetto di riforma della fiscalità mondiale lanciato due anni fa dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Il compromesso raggiunto a Londra non è solo il simbolo di un ritrovato multilateralismo dopo la rottura degli anni di Donald Trump, ma anche la promessa di un accordo più ampio in vista del vertice dei ministri delle finanze del G20 previsto per il 9 e 10 luglio a Venezia, dove si giocherà davvero il futuro di questa riforma. La finalizzazione del progetto sarà discussa in via preventiva il 30 giugno e 1 luglio nell’ambito del quadro inclusivo dell’Ocse relativo al Beps (Base erosion and profit shifting), il piano d’azione per contrastare l’elusione fiscale internazionale che coinvolge 139 paesi. Il G7 propone di concentrare la riforma sulle cento multinazionali più grandi e redditizie, come già preannunciato dall’amministrazione statunitense.

La posta in gioco finanziaria di questa riforma fiscale è enorme

Dalle parole, pesate con grande attenzione, del comunicato finale dei ministri delle finanze emerge la volontà politica di introdurre un criterio di equità nel sistema fiscale internazionale, volontà rilanciata dall’elezione del democratico Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. Si tratta, in parole povere, della possibilità concreta per i governi di riprendere, dopo anni d’impotenza, il controllo dei profitti delocalizzati nei paradisi fiscali dai colossi dell’industria e dei servizi e da quelli tecnologici, i cosiddetti Gafa (Google, Apple, Facebook e Amazon).

Secondo calcoli fatti partendo dai dati dell’Ocse, oggi circa il 30 per cento dei profitti delle multinazionali statunitensi è tassato all’estero, contro il 5 per cento degli anni novanta. “La mobilità internazionale dei capitali e lo spostamento dei profitti hanno provocato una forte diminuzione delle imposte pagate dalle multinazionali in tutto il mondo”, ha spiegato l’Osservatorio fiscale dell’Unione europea in uno studio pubblicato il 2 giugno. “Quest’evoluzione, che permette ad alcuni colossi di pagare tasse bassissime, rischia di non essere più sostenibile né da un punto di vista politico né da un punto di vista economico”.

La posta in gioco finanziaria di questa riforma fiscale è enorme. Se dovesse essere introdotta un’aliquota fiscale minima del 15 per cento nell’ambito di un progetto negoziato sotto la guida dell’Ocse, ogni anno nelle casse degli stati potrebbero affluire fino a 150 miliardi di dollari (123,5 miliardi di euro). L’effetto “zero tasse” offerto da paradisi fiscali come le Cayman, le Isole Vergini britanniche o Jersey e Guernesey sarebbe di fatto neutralizzato, perché gli stati riceverebbero la differenza tra le tasse pagate all’estero dalle aziende e l’imposta del 15 per cento che queste avrebbero dovuto versare nel loro paese.

Secondo una simulazione pubblicata dall’Osservatorio fiscale dell’Unione europea, un’aliquota del 15 per cento permetterebbe ai governi dell’Unione europea di raccogliere cinquanta miliardi di euro di tasse in più nel 2021, l’equivalente del 7 per cento della loro spesa sanitaria. I guadagni raddoppierebbero se l’aliquota dovesse salire al 21 per cento. Senza riforma, nel 2021 le entrate derivanti dalle tasse sugli utili societari nell’Unione dovrebbero arrivare a 340 miliardi di euro.

L’imposta minima è uno dei due pilastri del progetto dell’Ocse. L’altro è la revisione totale delle regole per arrivare a una ripartizione globale più equa dei diritti d’imposizione tra i paesi in cui le multinazionali hanno la loro sede e quelli in cui hanno i mercati e i clienti. Secondo l’Ocse, quest’altra parte della riforma garantirà una base imponibile supplementare di cento miliardi di dollari all’anno.

Entrate necessarie

A Londra gli Stati Uniti volevano l’abolizione delle tasse imposte ai colossi digitali in Francia, nel Regno Unito e in Italia, in cambio di un comunicato con impegni precisi e dettagliati, ma Parigi si è opposta. La cosiddetta tassa Gafa (o digital tax) frutta ogni anno quattrocento milioni di euro alla Francia, che non vorrebbe revocarla prima dell’entrata in vigore della riforma a livello mondiale, cioè non prima di due anni. In questo progetto, ormai sostenuto anche dal G7, ci sono in palio centinaia di miliardi di nuove entrate fiscali, assolutamente necessarie dopo la crisi sanitaria ed economica legata al covid-19, che ha messo in difficoltà i conti pubblici di tutti i paesi. La pandemia, infatti, ha accelerato i negoziati. “I colossi digitali hanno beneficiato di una congiuntura economica molto favorevole durante la crisi grazie allo sviluppo del commercio on­line”, sottolinea un comunicato del ministero dell’economia francese. “Ora, con la loro mobilitazione, gli stati testimoniano una presa di coscienza internazionale sulla necessità di contrastare con più decisione l’elusione sugli utili societari”.

Da sapere
La doppia morale

◆ “Questo accordo piace poco a piccoli paesi come la Svizzera e l’Irlanda, che sfruttano le imposte più basse per attirare aziende e progetti di ricerca”, scrive la Neue Zürcher Zeitung. “I paesi più grandi si riempiono la bocca di equità e lotta ai paradisi fiscali, ma in questo modo rivelano solo una doppia morale insopportabile, perché in Germania, per esempio, chi investe nelle aree più arretrate riceve indietro dallo stato il 25 per cento di quello che ha speso. E se Amazon decide di aprire una nuova sede negli Stati Uniti, sceglierà il luogo che gli garantisce gli sconti fiscali migliori. E se si parla di paradisi fiscali, i territori d’oltremare legati al Regno Unito sono in cima alla lista”.


Ad aprile il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva perfino suggerito di creare una tassa straordinaria sui patrimoni o sui profitti delle aziende per finanziare le spese legate al covid-19, e allo stesso tempo aveva invocato “una riforma della tassazione internazionale improntata a una maggiore equità”. Secondo i calcoli dell’istituto, i paesi avanzati hanno speso nel 2020 l’equivalente del 6 per cento del loro pil per aiutare le proprie economie, facendo salire il loro deficit di bilancio complessivo fino all’11,7 per cento del pil.

I vantaggi politici di questa riforma sono molti: l’amministrazione Biden potrebbe sfruttarla per far approvare la sua riforma fiscale al congresso degli Stati Uniti; il trio europeo formato da Francia, Germania e Italia riesce finalmente a tassare chi ha guadagnato con la crisi e il gruppo delle grandi aziende tecnologiche; il Regno Unito si colloca in una posizione favorevole per negoziare il suo accordo commerciale post-Brexit con gli Stati Uniti. “L’accordo del G7 sulla fiscalità dimostra che è l’occidente a stabilire le regole del ventunesimo secolo”, sottolineano i collaboratori del ministro dell’economia francese Bruno Le Maire in riferimento alla crescita della potenza cinese.

In realtà il semaforo verde del G7 è solo un trampolino di lancio verso un accordo internazionale, perché bisogna trattare ancora su molti punti, e in particolare sulla ripartizione tra i vari paesi dei profitti delle multinazionali soggetti alla tassazione o sulle eventuali esenzioni per alcuni settori. Inoltre, bisogna ancora convincere i paesi contrari alla riforma, come l’Irlanda, particolarmente gelosa della sua competitiva aliquota del 12,5 per cento sui redditi societari, e diversi governi che vogliono conservare le loro esenzioni fiscali. Alcuni paesi in via di sviluppo vorrebbero far rientrare nella riforma un numero maggiore di imprese. Gli stati dovranno infine accordarsi sullo smantellamento delle tassazioni nazionali sulle grandi aziende tecnologiche. “La riforma della fiscalità internazionale deve avvenire adesso o non avverrà più. Se non avessimo raggiunto un accordo al G7, avremmo rischiato di perdere quest’occasione”, ha concluso Le Maire. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati