Cosa verrà ricordato di Recep Tayyip Erdoğan tra un secolo? Il suo genio politico o il suo autoritarismo dal forte accento populista? Si dirà che non ha mai perso un’elezione in un paese con tassi di affluenza alle urne da far impallidire tutte le democrazie occidentali, che ha reso nuovamente la Turchia una potenza di primo piano sulla scena regionale e internazionale o che ha rinchiuso in carcere decine di migliaia di oppositori? Sarà considerato alla pari di Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, o come il politico che ha rovinato l’eredità del primo presidente della repubblica?
Dopo vent’anni al potere, nel corso dei quali ha rimodellato il paese a sua immagine, Erdoğan sembra ancora inaffondabile. Al secondo turno delle elezioni presidenziali, il 28 maggio, ha conquistato il suo terzo mandato consecutivo con il 52 per cento delle preferenze, mentre il suo paese attraversa una crisi economica senza precedenti. Certo, il reïs, come lo chiamano le persone a lui vicine, controlla tutte le leve del potere (i mezzi d’informazione, la giustizia, la pubblica amministrazione, la polizia), quindi il suo rivale partiva già dall’inizio con un serio svantaggio. E il candidato dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroglu, non era probabilmente la scelta migliore. La partita sarebbe stata senza dubbio più difficile per Erdoğan contro il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, che non ha potuto partecipare al voto perché nel 2022 è stato condannato in un processo con accuse discutibili. Certo, il presidente turco ha approfittato di un contesto geopolitico in piena trasformazione, nel quale ha potuto far valere la sua esperienza e i rapporti con i leader del pianeta per rassicurare il proprio elettorato.
La mappa elettorale turca somiglia a quel che si può osservare in diverse democrazie: un paese molto frammentato e sospeso tra due idee della realtà e due progetti politici che appaiono quasi inconciliabili
Ma questo non spiega tutto. La maggioranza dei mezzi d’informazione ha colpevolmente sottovalutato la resistenza di questo presidente sfuggente, che a forza di dietrofront, forzati o voluti, ha finito per essere una caricatura di se stesso, fino a incarnare il peggio della fusione tra l’ultranazionalismo turco e il neo-ottomanesimo.
Cosa ci dice allora la sua ennesima vittoria sullo stato della Turchia contemporanea? Racconta di un “malato”, come poteva essere l’impero ottomano all’inizio del secolo scorso? Descrive un paese conservatore e nazionalista, incapace di guardare in faccia il proprio passato se non mitizzandolo al punto da essere ossessionato dai simboli identitari e religiosi?
La vittoria di Erdoğan s’inserisce in una situazione internazionale in cui il populismo, l’autoritarismo e l’identitarismo (il reïs manovra tutte e tre le cose) sono al potere, o quasi, in molti paesi. La mappa elettorale turca in effetti somiglia a quel che si può osservare in diverse democrazie: un paese molto frammentato e sospeso tra due idee della realtà e due progetti politici che appaiono quasi inconciliabili.
La sua rielezione probabilmente andrà a rafforzare il carattere illiberale della democrazia turca e l’iperpresidenzializzazione del potere. Senza dubbio rafforzerà la sua fuga in avanti economica e la sua distribuzione clientelare dei soldi pubblici. Lo spingerà a rilanciare ulteriormente la necessità di preservare i valori turco-islamisti dalle devianze e della decadenza occidentale. Finirà per convincerlo a fare tutto il possibile per sradicare il nemico curdo, sul piano interno come in tutta la regione. Lo incoraggerà a prendere ancora di più le distanze dall’occidente e a sfruttare la Russia contro la Nato, e viceversa. Lo renderà ancora più audace nella sua politica bellicosa e talvolta imperialista in Libia, a Cipro, nel Caucaso, in Siria o in Iraq.
Erdoğan rischia di essere sempre lo stesso, in peggio. È una cattiva notizia per la democrazia turca e per gli occidentali che potevano sperare in una relazione più sana con Kiliçdaroglu. Ma è comunque il male minore per i siriani che si oppongono ad Assad, sia in Turchia sia in Siria. Naturalmente Erdoğan non smetterà di usarli strumentalmente e finirà anche lui per normalizzare i rapporti con Assad. Ma questo avverrà, sembra, in modo meno radicale e violento di quello che lasciavano pensare le ultime ore di campagna elettorale del suo principale avversario. Kiliçdaroglu non ha solo perso. È stato sconfitto dopo aver sposato il nazionalismo più stantio per compiacere gli istinti più vili di un elettorato che in fatto di xenofobia e fanatismo non ha nulla da invidiare a Erdoğan. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati