Nel 2019 Mohamad Bazzi, dottorando dell’università di Uppsala, in Svezia, ha condotto una spedizione in Tunisia alla ricerca di fossili. Insieme ai colleghi, ha visitato le miniere di fosfati vicino a Gafsa, dove rocce di 56 milioni di anni fa conservano le tracce di un’epoca in cui la temperatura degli oceani s’innalzò rapidamente provocando estinzioni di massa, in particolare tra i superpredatori come gli squali.
Per questa spedizione Bazzi e i suoi colleghi hanno fatto delle scelte molto precise. Prima di tutto hanno assunto dei lavoratori tunisini per farsi aiutare negli scavi invece di portare studenti della loro università. Hanno inoltre deciso di coinvolgere il più possibile gli abitanti di Gafsa, anche improvvisando delle lezioni sulla storia dei fossili della regione per il pubblico di curiosi che si fermava a guardare cosa stavano facendo. Questo atteggiamento si discosta molto dalla riservatezza tipica dei paleontologi impegnati sul campo, che evitano di farsi pubblicità perché temono che gli scavi siano saccheggiati da chi vuole vendere i fossili sul mercato nero.

I reperti trovati a Gafsa sono importanti per conoscere meglio il modo in cui gli animali si adattarono al mondo estremamente caldo dell’eocene, un periodo a cui potrebbe somigliare il nostro pianeta nel futuro prossimo se le emissioni di anidride carbonica non diminuiranno.
La squadra di studiosi dell’università svedese ha insistito per stringere un accordo con le autorità locali in base al quale una volta terminate le ricerche i fossili saranno restituiti.
Nel corso della storia questo è successo molto di rado: gli abitanti dei posti dove vengono trovati dei reperti spesso non li rivedono più. Bazzi appartiene a una nuova generazione di paleontologi intenzionati a cambiare le pratiche della ricerca scientifica che derivano direttamente dal colonialismo ottocentesco, e che sfruttano le popolazioni di alcuni paesi e la loro storia.
Negli ultimi decenni molti stati hanno chiesto la restituzione di opere d’arte, antichità, oggetti di grande valore culturale e resti umani conservati nei musei in Nordamerica e in Europa. Allo stesso modo, paesi come la Mongolia e il Cile hanno preteso che fossero restituiti anche dei fossili, come le ossa di tirannosauro o i resti di megaterio, un bradipo gigante.
“Quando abbiamo a che fare con oggetti di grande valore scientifico o estetico vediamo ripetersi uno schema ricorrente: i reperti vengono sottratti al mondo in via di sviluppo e spediti altrove, per essere mostrati a un pubblico più ampio”, spiega Bazzi. “Ma bisogna ripensare queste pratiche, perché anche la gente del posto dovrebbe poter dire la sua sul destino di quegli oggetti”.

Un dibattito aperto
La Tunisia e altri paesi che hanno poche risorse da investire nella ricerca scientifica ospitano importanti depositi fossili che potrebbero aiutarci a comprendere meglio il mondo preistorico. Se la paleontologia vuole progredire, sostiene la nuova generazione di studiosi, è necessario trovare un modo per studiare quei campioni senza ricorrere a pratiche che risalgono all’epoca coloniale. Per farlo bisognerà cambiare metodi, come hanno fatto Bazzi e altri scienziati desiderosi di stabilire una maggiore collaborazione con le istituzioni locali.
Anche se nel corso della storia molte culture hanno sviluppato delle loro tradizioni di raccolta e studio dei resti fossili, la paleontologia come disciplina scientifica – e, di pari passo, la creazione dei moderni musei di storia naturale – è nata nel settecento, quando le potenze europee cominciarono a colonizzare vaste regioni del pianeta. Come spiega Emma Dunne, una paleontologa irlandese dell’università di Birmingham, nel Regno Unito, gli scienziati erano parte integrante di quel sistema coloniale, che s’impossessò di grandi ricchezze naturali, fossili compresi, per trasferirle nelle capitali imperiali.
Nel novecento alcuni stati hanno provato a fare resistenza. In Brasile e Argentina i governi hanno finanziato i loro studi in questo settore. Insieme ad altri paesi, come la Mongolia, hanno adottato leggi che proibiscono l’esportazione di fossili fuori dai confini nazionali. Brasile e Argentina hanno inoltre obbligato i ricercatori stranieri a collaborare con i paleontologi del posto.
“Ci sono ancora ricercatori stranieri che lavorano in Argentina accanto agli studiosi locali”, osserva Nussaibah Raja-Schoob, paleontologa mauritana dell’università tedesca di Erlangen-Nürnberg. “Però l’influenza argentina è decisamente più forte”.
Anche dopo la fine del colonialismo, i fossili provenienti da tutto il mondo continuano a finire nei musei statunitensi ed europei. Alcuni vengono raccolti nell’ambito di spedizioni scientifiche approvate. Ma poiché molti resti sono venduti privatamente, i paesi pieni di fossili ma senza leggi rigide sull’esportazione spesso vedono finire all’asta in occidente reperti interessanti e potenzialmente preziosi.
Negli ultimi anni si è discusso molto su dove debbano essere conservati i fossili e su chi debba studiarli. Per alcuni non è etico lavorare su fossili di collezioni private di dubbia provenienza, in particolare se si sospetta che siano stati esportati illegalmente. Allo stesso tempo diversi paleontologi occidentali hanno protestato per le leggi adottate da paesi come il Brasile.
Nel 2015 David Martill, un noto paleobiologo dell’università britannica di Portsmouth, fu intervistato dal giornalista scientifico brasiliano Herton Escobar. A una domanda sull’assenza di collaborazione tra la sua équipe e i ricercatori locali riguardo a un campione trovato in Brasile, Martill liquidò la questione: “Insomma, mi chiederete anche d’includere nella mia squadra per questioni etiche un nero, uno storpio e una donna, e magari anche un gay, giusto per un po’ di equilibrio generale?”.
In seguito Martill ha ammesso di essersi espresso molto male, ma continua a opporsi alle leggi che vogliono decidere cosa fare dei fossili. Nel 2020 ha pubblicato uno studio su un altro reperto proveniente dal Brasile, senza un coautore brasiliano. “Non penso che spetti a un governo stabilire chi deve studiare i fossili”, si difende. “Penso che gli scienziati debbano essere liberi di scegliere con chi lavorare”.
Queste polemiche sono solo un esempio di come la storia coloniale influenzi la paleontologia, afferma Raja-Schoob. Ma ce ne sono anche altri. La disciplina si studia per lo più in lingue come l’inglese, il tedesco o il francese. E secondo un progetto di ricerca condotto da Raja-Schoob e Dunne, i paesi con il pil più alto – come Stati Uniti, Francia, Germania o Cina – tendono a raccogliere un maggior numero di dati sui fossili, anche perché hanno più soldi da investire nel programmi universitari. Molte istituzioni accademiche in tutto il mondo non hanno gli strumenti né un adeguato sostegno dai loro governi per condurre ricerche approfondite. In questo caso i paesi ricchi potrebbero venire in aiuto.
“Dobbiamo chiederci perché stiamo accentrando il sapere invece di diffonderlo”, osserva Dunne. “Potremmo lavorare con strumenti come le scansioni tridimensionali dei fossili e le raccolte digitali di dati. Il problema è ottenere abbastanza fondi perché i musei facciano queste cose per conto loro”.
Secondo Raja-Schoob i soldi a disposizione delle università potrebbero essere usati per promuovere la geologia e la paleontologia in altri paesi. “Perché non usare quei fondi per pagare il lavoro degli abitanti del posto?”, si chiede. “Alla fine noi scienziati avremo comunque a disposizione i dati che ci servono. Non si capisce perché non dovrebbero trarne un vantaggio anche loro”.

Un museo perduto
Da tanto tempo le ricchezze fossili nascoste nelle rocce del Nordafrica e del Medio Oriente attirano cacciatori di fossili e scienziati. Ma secondo Bazzi, nella maggior parte dei casi il risultato del lavoro sul campo è che quei fossili finiscono in Europa o in Nordamerica.
I genitori di Bazzi sono libanesi, mentre la sua collega Yara Haridy – una dottoranda che lavora al Museo di storia naturale di Berlino – è nata in Egitto. In Medio Oriente nessuno dei due ha avuto la possibilità di lavorare con continuità nel campo della paleontologia.
Nella spedizione a Gafsa entrambi hanno cercato di costruire qualcosa invece di limitarsi a portar via delle ricchezze. È anche grazie a questo approccio, fatto di lunghe conversazioni davanti a tazze di caffè o tè con i tunisini che partecipavano al progetto, che Bazzi e Haridy sono venuti a conoscenza dei reperti conservati in un museo nella piccola città mineraria di Métlaoui.
Il museo era stato incendiato durante le proteste della rivoluzione dei gelsomini nel 2011. In quegli otto anni non era stato restaurato. Bazzi e Haridy erano arrivati in Tunisia da tre giorni quando un ingegnere minerario gli ha consigliato di visitarlo. Avanzando con cautela in mezzo alle macerie hanno scoperto un tesoro: immensi gusci di tartaruga, mandibole di coccodrillo, vertebre di dinosauro e perfino antichi resti umani, sparsi sui pavimenti polverosi in mezzo a detriti carbonizzati.
La squadra ha deciso che l’obiettivo doveva essere di mettere in salvo la collezione, ma senza portarla fuori dal paese. “Ci chiedevano di continuo: ‘Porterete via tutta questa roba?’”, racconta Haridy. “Noi rispondevamo: ‘No, è tutto vostro. Deve rimanere qui. Appartiene alla storia di questa regione’”.
Bazzi e Haridy hanno collaborato con gli abitanti di Métlaoui per mettere in sicurezza i reperti. Nell’arco di una giornata il sindaco e altre autorità hanno messo insieme una squadra di lavoratori e di studenti dell’università di Gafsa. Dopo la distribuzione di guanti e mascherine, gli abitanti di Métlaoui si sono messi all’opera per estrarre i fossili dalle macerie.
Nel Museo di storia naturale di Berlino, in Germania, i visitatori possono vedere il più grande scheletro di dinosauro mai ricostruito. Il sauropode Giraffatitan brancai, racconta la rivista statunitense Science, “ha attirato grandi folle fin da quando è stato presentato la prima volta al pubblico, nel 1937. Ma le pianure dove si aggirava 150 milioni di anni fa non erano in Europa. Il Giraffatitan viveva in Africa orientale, nell’odierna Tanzania, che era una colonia tedesca all’epoca in cui i fossili furono disseppelliti. Negli ultimi anni alcuni politici tanzaniani hanno chiesto che quelle ossa tornino in Africa”, anche se nel 2018 il governo tanzaniano ha escluso di voler rimpatriare quei fossili per ragioni logistiche.
Il museo berlinese non è l’unico ad aver ricevuto richieste di questo genere, accanto a quelle relative a resti umani e ad artefatti di valore culturale. Molti fossili furono acquisiti in modi che oggi consideriamo immorali, attraverso una dominazione coloniale brutale, che ignorava i diritti dei popoli nativi. “I musei di storia naturale non esisterebbero nella forma attuale se non ci fosse stato il periodo coloniale”, sostiene Holger Stoecker, esperto di studi africani dell’università Humboldt. Secondo lui le richieste di restituzioni mettono in discussione il mito della “scoperta” su cui alcuni musei hanno fondato la loro fortuna. I paleontologi tedeschi si presero il merito della scoperta del Giraffatitan, ma furono gli abitanti del posto – che sapevano dell’esistenza delle ossa e le usavano per riti religiosi – a guidare gli stranieri.
Tra il 1909 e il 1913 furono spedite a Berlino 225 tonnellate di fossili, acquisite nel corso di una spedizione sul monte Tendaguru, racconta la Berliner Zeitung. Secondo Stoecker tutti i contributi delle persone del posto furono cancellati. Nei documenti della spedizione si parla di un altro dinosauro, il Nyorosaurus, chiamato in onore di Seliman Nyororo, l’uomo che aveva portato alla luce quei fossili nel 1909. Ma quando fu esposto al museo gli fu cambiato nome in Dicraeosaurus sattleri, in ricordo dell’ingegnere minerario tedesco Bernhard Sattler. ◆
“È stata un’operazione importante”, racconta Haridy. “Erano tutti molto emozionati”.
La squadra ha catalogato le ossa prima di inscatolarle e spedirle in una struttura pubblica a Gafsa. La speranza è che i resti trovati nel museo formino il nucleo di un nuovo programma di paleontologia dell’università locale. Bazzi si è anche messo a disposizione degli studenti che avevano dimostrato un particolare interesse. Uno di loro, Mohammed Messai, ammette che prima di incontrare Bazzi non sapeva molto di paleontologia, ma ora ha deciso di usare il lavoro di identificazione dei fossili recuperati dal museo per la sua tesi di laurea.
Secondo Haridy è importante che i paleontologi stringano legami di collaborazione autentici con i ricercatori locali. In questo modo non solo si contribuisce ad alimentare l’impegno della comunità e a convincere le persone a conservare con cura i fossili, ma ci si assicura anche che i campioni siano studiati in modo professionale una volta restituiti al paese d’origine.
“Quando un paese chiede la restituzione di alcuni fossili, come fa da tempo l’Egitto, non è detto che insieme agli oggetti rientrino anche le conoscenze su quei reperti. E questo è un problema”, afferma Haridy. Senza investire in programmi di paleontologia nei paesi di provenienza i fossili possono finire in “una stanza polverosa senza che nessuno sappia cosa farci”.
Tuttavia i tentativi di dare vita a reti di studiosi più inclusive e ampie incontrano ancora ostacoli.
“Non è detto che i finanziatori delle ricerche siano interessati agli aspetti etici”, osserva Dunne. “Ci rivolgiamo ad altri paesi solo quando abbiamo bisogno di dati. I fossili sono di tutto il mondo, sono globali, non rispettano i confini politici. Ma dovremmo riconoscere i pregiudizi coloniali che ancora influenzano la nostra professione ed estirparli”.
Spinta locale
Per molti versi il solo fatto che questo dibattito esista è il segnale di un cambiamento. “Quando ho cominciato a occuparmi di paleontologia, quarantacinque anni fa, simili questioni non avevano alcuna rilevanza”, racconta Martill. “Oggi sembrano dominanti. Forse sono io a non essere più al passo con i tempi. Sta emergendo una fantastica nuova generazione di paleontologi che si fanno sentire e chiedono cose diverse”.
Per ora la squadra di Bazzi spera di far arrivare dei finanziamenti per la paleontologia in Tunisia.
“In un mondo ideale il governo tunisino lascerebbe lavorare gli studiosi del posto e si fiderebbe del loro giudizio sull’importanza, anche a livello internazionale, di alcuni fossili e sulla necessità di proteggerli”, dice Haridy. “Ma di fatto quando i politici vedono che gli scienziati stranieri chiedono attivamente di poterli studiare e per farlo collaborano con i ricercatori tunisini, allora mostrano un interesse maggiore”. “Oggi ci sono persone del posto che danno il via alle loro ricerche”, conclude Bazzi. “Alla fine non ci sarà più bisogno che vengano altri a farlo al posto loro”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati