La Turchia si è posta subito come la grande vincitrice dopo la caduta del regime di Bashar al Assad in Siria, per poi trarre delle conclusioni affrettate sul futuro di un paese martoriato da decenni di violenze e sofferenze. Dal 9 dicembre, con impeto coloniale, Ankara ha annunciato un progetto dopo l’altro per il suo futuro “protettorato”, usando la formula di capacity building per indicare opere imponenti che vanno da una nuova costituzione alla formazione di un esercito di trecentomila uomini, dalla riorganizzazione della vita pubblica alla ricostruzione delle infrastrutture. Quest’ultimo è il cantiere che in assoluto fa più gola alla Turchia: l’unica stima, risalente al 2019, fornisce una cifra che oscilla dai 250 ai 400 miliardi di dollari. Probabilmente oggi quel pacchetto è anche più sostanzioso.

Mentre moltiplica le visite diplomatiche e annuncia nuovi progetti fantasiosi, Ankara porta avanti con ancora più convinzione la sua battaglia contro chiunque somigli vagamente a un curdo, in Siria e altrove.

Mentre moltiplica le visite diplomatiche, Ankara porta avanti con ancora più convinzione la sua battaglia solitaria contro chiunque somigli a un curdo, in Siria e altrove

In realtà la Turchia è già presente nel nordovest della Siria, dove gli abitanti curdi e cristiani sono stati scacciati con la forza. Ankara gestisce questo territorio grazie a un contingente di circa tremila uomini, che in realtà sono molti di più. Il territorio occupato, inoltre, ospita le operazioni di una eterogenea forza militare riunita sotto la bandiera dell’Esercito nazionale siriano (Syrian national army, Sna), creato e addestrato da Ankara, forte di 70mila uomini, che aggrega soprattutto irregolari e jihadisti di ogni genere provenienti da tutto il mondo. Al suo interno si contano più di quaranta diverse nazionalità e numerosi ex combattenti del gruppo Stato islamico (Is).

La Turchia ha inviato nel territorio anche funzionari che gestiscono l’istruzione (in turco e in arabo), le comunicazioni, le finanze e altro, e vorrebbe estendere questa caotica esperienza a tutta la Siria. L’obiettivo dichiarato del governo turco è di occupare tutta la striscia di confine, e anche oltre, per disarmare i curdi.

Oggi che le armi tacciono quasi ovunque, a eccezione di alcune sacche di resistenza al nuovo potere del gruppo Hayat tahrir al Sham (Hts) e dal suo uomo forte Ahmed al Sharaa, la Turchia, come Israele, cerca di perseguire le sue mire coloniali con il solito pretesto delle “preoccupazioni in materia di sicurezza”, rivolte direttamente contro l’Amministrazione autonoma del nordest della Siria, nota ai più come Rojava, gestita dai curdi siriani, che dieci anni fa ha sconfitto l’Is sostenuto da Ankara. Il fatto è che la Turchia non sopporta la possibilità di un vicino che cerca di funzionare secondo princìpi democratici, proprio come la Russia ha fatto con l’Ucraina.

Kobane, città martire della guerra all’Is, difesa dai combattenti curdi di cui l’autocrate turco Erdoğan attendeva con impazienza la sconfitta, oggi è nuovamente minacciata, oltretutto dagli stessi protagonisti di allora. L’uomo forte di Ankara sarebbe contento di prendersi una rivincita. Il problema, però, è che l’Amministrazione autonoma del nordest della Siria nel frattempo si è dotata di un esercito formato dal Pentagono, forte di centomila donne e uomini. Questo significa che gli attacchi di Ankara attraverso i suoi mercenari non saranno una passeggiata, come dimostrano le recenti battute d’arresto subite dalle forze filoturche intorno alla diga idroelettrica di Tishrin.

D’altra parte l’aumento degli attacchi armati della Turchia è visibile tanto ai siriani stanchi della guerra quanto a chi vive nella regione o in occidente e vuole spegnere il fuoco siriano, così da permettere il ritorno dei profughi. La Turchia promette tutto il contrario, di pari passo con l’altra macchina da guerra, Israele.

Ankara non risparmia nulla per imporre il suo metodo alla nuova Siria, e al futuro del Rojava. Ma, pur controllando l’Esercito nazionale siriano, ha un’influenza limitata su Hayat tahrir al sham, poiché si sta esaurendo il credito guadagnato con il suo appoggio alla rivolta guidata dal gruppo: a Damasco il paternalismo turco piace sempre meno. E il 31 dicembre, nonostante la contrarietà del governo turco, alcuni dirigenti militari curdi hanno incontrato gli esponenti di Hts a Damasco, in un clima di dialogo.

La varietà etnica, religiosa e linguistica della Siria è sconosciuta alla Turchia nata dalla pulizia etnica di inizio novecento. Ankara vuole imporre ai siriani il suo modello autoritario e assimilazionista, infischiandosene delle differenze. Grazie al cielo non ha i mezzi tecnici, né intellettuali, per imporlo, se non con l’uso della forza, che però ha dei limiti.

La Turchia va nella direzione sbagliata, ma resta essenziale per la stabilità della Siria. Non fosse altro che per il ritorno volontario dei profughi. Spetta agli altri, sia ai siriani sia ai soggetti esterni, convincerla ad abbandonare le sue pretese irrazionali e la sua ossessione anticurda. ◆ fdl

Questo articolo è stato scritto per Internazionale.

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati