Ha scritto e pubblicato circa quindici dischi, considerando nuove edizioni, ep, album dal vivo. Ha fatto altri dischi ed ep con uno dei gruppi più importanti degli anni novanta, gli Scisma. Ha suonato su qualsiasi tipo di palco. Ha creato, in vent’anni da solista, una vera comunità. All’inizio era piccola, concentrata e riconoscibile, poi di recente si è espansa, mantenendo le sue caratteristiche. Quest’uomo, questo artista, ha creato una comunità d’ascolto basata sulla fiducia, il rispetto delle reciproche fragilità, ha traghettato molte persone attraverso stadi d’indicibile malinconia e di un amore utile che talvolta si è fatto inutile. Ha lenito ferite, altre ne ha inevitabilmente create, al di là di una questione personale: la forza della sua scrittura è stata nel rendere accessibile, e vicina, una mappa di cicatrici affiorata sul corpo di qualcun altro.

Ascoltandolo, ci si poteva scambiare la parte. E chi l’ha amato è sempre stato con lui, perché sentiva che l’artista era dalla sua parte, in maniera fraterna e orizzontale (malgrado il mare verticale). Si è sempre detto che era gentile, uno splendido musicista con cui suonare, con cui conversare. E tuttavia in questa gentilezza si evince anche un cuore sicuro o senz’altro consapevole del fatto che si possono scrivere canzoni serie e proporre forme di temporalità e di ascolto che si scollano da mode e manifesti e volano su un altro piano. Questa consapevolezza ha sempre un costo per l’artista che la persegue, ma lui ha avuto la grazia di non metterlo mai in cifre, e di lasciarlo sempre in poesie. Ciao Paolo Benvegnù. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati