Il convegno degli imprenditori su ruote si è svolto in un albergo di montagna con vista sul lago Guntersville, in Alabama, nell’estate del 2019. Ai partecipanti, che avevano pagato una quota di 300 dollari, era stato promesso non solo un lungo weekend di incontri con persone che vivono in camper, roulotte o furgoni, ma anche laboratori e seminari con i dirigenti delle aziende specializzate in attività all’aria aperta. Nella platea c’erano persone di tutti i tipi: giovani che si sono costruiti da soli i furgoni in cui vivono, famiglie con bambini che girano il paese in camper e adulti che viaggiano su veicoli grandi come case e devono continuare a lavorare per pagare le bollette. Nella sala conferenze dell’hotel si sono scambiati i loro contatti Instagram e hanno mangiato barrette energetiche. Io ero uno di loro. All’epoca vivevo in un furgone da quasi un anno. Al convegno avrei imparato come vivere in modo alternativo senza smettere di guadagnare.
In apparenza l’incontro somigliava a una classica fiera commerciale, con tanto di aperitivi sponsorizzati dalle aziende e discorsi programmatici. Christina Gambino, che vive in un camper e sostiene di essere una delle concorrenti più basse del reality show American ninja warrior (è alta un metro e 48 centimetri), ha dato il via al dibattito con un discorso motivazionale. Ai vari eventi partecipavano coppie di successo che avevano fondato aziende online dalla loro roulotte, blogger che si guadagnavano da vivere scrivendo del design dei camper e influencer di YouTube di una bellezza imbarazzante. Aziende come Camping World e Dometic regalavano i loro prodotti. Tra gli omaggi più ambiti c’erano uno strumento per controllare la pressione degli pneumatici, un frigorifero a basso consumo di energia e una scatola di pellet profumati per i wc a secco.
Ambiziosi e istruiti
Le aziende stavano promuovendo una nuova versione del sogno americano in cui la promessa non è la stabilità e la sicurezza ma l’idea che tutto sia possibile: puoi fare il lavoro dei tuoi sogni e allo stesso tempo puoi goderti una vacanza senza fine.
È il sogno che hanno deciso di inseguire Jeff e Candace Smith, una coppia di Austin, in Texas, quando a lui hanno comunicato che avrebbe lavorato solo da remoto. All’epoca stavano pensando di comprare casa, ma ci avevano rinunciato quando si erano resi conto che non potevano permettersela. “Il mercato immobiliare laggiù è folle”, mi ha detto Jeff durante un aperitivo. “Andavamo a vedere degli appartamenti e i prezzi erano sempre più alti”. Stesso discorso per gli affitti: negli ultimi dieci anni a Austin i prezzi sono aumentati più rapidamente che in qualunque altra città statunitense. A quel punto gli Smith hanno comprato una grande roulotte usata e hanno cominciato a viaggiare, anche se Jeff doveva rispettare il solito orario di lavoro (dalle nove della mattina alle cinque del pomeriggio) e Candace continuava a fare la consulente nutrizionista. Ma dopo qualche tempo hanno capito che spostarsi continuamente e rispettare gli orari di lavoro era stancante. “Ci toccava lavorare otto ore e poi guidare per altre sei. Era estenuante”, mi ha detto Jeff. “Abbiamo fatto un casino. Non lo raccomanderei a nessuno”. A quel punto hanno pensato che la soluzione fosse licenziarsi e mettersi in proprio.
Gli Smith somigliavano a gran parte delle persone che avevano comprato un biglietto per assistere al convegno in Alabama: ambiziosi, istruiti e con dei risparmi che gli permettevano di vivere da nomadi. Molti lavoravano ancora a tempo pieno dai loro camper, e cercavano idee su come evitare di dover lavorare ancora di più. La filosofia del convegno, se ce n’era una, era piuttosto vaga: tanti discorsi sul fatto di sentirsi vuoti e senza scopo, come in una ruota per criceti, e tanta speranza di trovare qualcosa di più appagante.
I viaggiatori a tempo pieno rappresentano una sottocultura della vita statunitense che negli ultimi anni è cresciuta molto. Nel 2018 un milione di persone viveva in questo modo negli Stati Uniti. La pandemia ha indebolito ulteriormente la sensazione di appartenere a un luogo e ha rafforzato l’idea di poter cercare altre possibilità. È impossibile stabilire con precisione cosa sta causando questo sradicamento, soprattutto tra i giovani. Ma degli indizi ci sono: negli Stati Uniti ci sono quasi cinquanta milioni di persone che devono restituire i prestiti studenteschi, e molte di loro hanno pochissimi risparmi e nessuna opportunità di comprare casa. Secondo i dati della Federal reserve, nel 2019 i millennial (le persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e la metà degli anni novanta) possedevano solo il 4 per cento del patrimonio immobiliare nazionale. Nel 1990 i baby boomer (i nati dopo la seconda guerra mondiale) ne possedevano più del 30 per cento.
Oggi il reddito medio di un millennial è intorno agli ottomila dollari netti all’anno, molto più basso di quello delle generazioni diventate adulte nella seconda metà del novecento e nel primo decennio degli anni 2000. La maggior parte delle famiglie statunitensi non ha risparmi per la pensione, e lo stesso vale per un esercito sempre più disperato di lavoratori anziani. Dato che sono sempre meno i posti di lavoro che garantiscono una pensione, oggi i giovani si sentono ripetere che dovrebbero investire metà del loro stipendio in fondi pensionistici che salgono e scendono a seconda dei capricci del mercato. La vita nomade non è un rimedio a questi problemi, ma riesce a promettere due cose contemporaneamente: un modo per tenere basse le spese quando le prospettive economiche sono pessime e la sensazione di mantenere il controllo davanti a un presente sempre più caotico.
Il camion della posta
Non esiste un unico profilo del viaggiatore a tempo pieno. Ci sono persone che viaggiano da sole, famiglie con tanti bambini, nuovi hippy e professionisti che fanno lavori a tempo pieno. Persone che, per scelta, vivono in caravan nelle foreste e nei parchi nazionali e poi vanno a lavorare in città; altre che la notte parcheggiano nelle strade delle città, fanno la doccia in una palestra e lavorano da un bar o da una biblioteca pubblica. Anche se la vita nomade viene descritta come una fuga dalla crisi del capitalismo, è una scelta che implica dei costi: la spesa per comprare o costruirsi un mezzo e viverci stabilmente può variare da poche migliaia di dollari per un piccolo furgone usato a centinaia di migliaia di dollari per un mega camper come quelli che portano in giro le rockstar (io ho speso cinquemila dollari per comprare e allestire il mio furgone).
Nei due anni che ho passato vivendo da nomade ho incontrato un infermiere che tra un turno e l’altro viveva nel suo furgone parcheggiato nel garage dell’ospedale (o nei boschi, quando poteva), e molti “strateghi dei social network” e “creatori di contenuti” che si guadagnavano da vivere grazie all’economia dell’invidia digitale. Ho conosciuto qualcuno che a trent’anni era economicamente indipendente e viveva una vita spensierata, ma la maggior parte riusciva a malapena ad arrivare alla fine del mese. Ma c’era anche chi viveva in questo modo per necessità drammatiche (Nomadland, il libro di Jessica Bruder del 2017 da cui è stato tratto il film uscito quest’anno, ha raccontato questa comunità spesso trascurata). Molti condividevano spazi fisici, sia nei parchi nazionali sia sulle odiate strade cittadine. I confini tra questi gruppi spesso si confondevano. È uno stile di vita che tende ad attirare soprattutto persone bianche e giovani (come me), anche se esistono gruppi più inclusivi come Diversify vanlife e l’Associazione nazionale degli afroamericani in caravan.
L’interesse crescente per questo stile di vita ha alimentato una piccola industria di podcast, newsletter, seminari, conferenze, servizi e gruppi di pressione rivolta esclusivamente a chi rifiuta di restare fermo in un solo posto.
Una delle organizzazioni più importanti del settore si chiama Escapees RV Club, e ha stabilito la sua sede in un edificio nei boschi del Texas sudorientale. Sei giorni alla settimana un semirimorchio del servizio postale statunitense imbocca una discesa dietro un edificio di mattoni che si trova a 120 chilometri a nord di Houston per consegnare la posta a diecimila persone che in realtà non abitano lì. L’organizzazione dice di avere 70mila iscritti in tutto il mondo. Ma molte delle persone che usufruiscono del servizio postale “risiedono” a Livingston, in Texas, in un’unica strada e nello stesso edificio. Grazie a questo indirizzo fantasma possono votare, prendere la patente, registrare un veicolo e, approfittando delle leggi fiscali del Texas, evitare di pagare le tasse statali sul reddito.
All’inizio Escapees riceveva la corrispondenza tramite l’ufficio postale della vicina Livingston, ma quando il numero degli iscritti è cresciuto le poste della cittadina – che conta poco più di cinquemila abitanti – non sono più riuscite a smaltire la corrispondenza. Così ora la posta arriva direttamente su un semirimorchio con 18 ruote. All’interno dell’edificio una macchina per lo smistamento automatico elabora decine di migliaia di lettere e pacchi al giorno. Le stanze sono piene di lunghe file di bidoni di plastica e cartelle appese tra cui si muovono i dipendenti che raccolgono e depositano ogni singolo pezzo. Una volta organizzata, la posta è inoltrata, scansionata, distrutta o conservata in attesa che sia ritirata. Escapees sostiene di gestire il più grande servizio postale privato del paese.
I consulenti spiegano come richiedere la residenza in Florida o in South Dakota, che come il Texas non hanno imposte statali sul reddito
Gli iscritti all’organizzazione possono contare su una schiera di consulenti, tra cui commercialisti, esperti di tasse e avvocati. Questi servizi hanno un costo aggiuntivo, oltre alla quota annuale d’iscrizione che è di 49,95 dollari. Una volta iscritti, i viaggiatori hanno il diritto di partecipare a seminari di formazione gratuiti su come vivere in strada e a laboratori sul lavoro da remoto. I consulenti spiegano come richiedere la residenza in Florida o in South Dakota, che come il Texas non hanno imposte statali sul reddito. In South Dakota basta mostrare la ricevuta di una notte in campeggio e firmare un modulo in cui ci si impegna a stabilirsi nello stato una volta finito di viaggiare.
Escapee è anche una lobby. I suoi dirigenti fanno pressione sui parlamenti statali e sui consigli comunali per approvare leggi favorevoli ai viaggiatori a tempo pieno. Nel 2000, quando le autorità del Texas contestarono il diritto di voto degli iscritti – sostenendo che non vivevano realmente all’indirizzo riportato sulla scheda elettorale – Escapees organizzò una manifestazione davanti alla corte suprema del Texas. Vinsero la causa e da allora hanno lanciato iniziative simili in Tennessee e in South Dakota. Il gruppo ha anche promosso iniziative contro le leggi che vietano di dormire in macchina, che impongono nuove tasse sui veicoli con rimorchio e che richiedono una residenza vera e propria per ottenere la patente. Di recente ha fatto pressioni sulle autorità locali per tenere aperti i campeggi durante la pandemia.
L’organizzazione ha anche una bacheca di annunci con offerte di lavoro stagionale e da remoto, tra cui: esperti di software, cuochi, gestori di campeggi, un “ambasciatore del tè” e una guardia di sicurezza in un campo petrolifero.
La solita vita
Per andare incontro al crescente interesse dei più giovani per la vita nomade, nel 2015 Escapees ha lanciato un’organizzazione gemella, chiamata Xscapers. Da allora il numero di adulti che vivono in camper, roulotte o furgoni non ha smesso di crescere. Secondo uno studio della RV Industry Association, solo il 35 per cento degli intervistati che hanno scelto di vivere così invece che in una casa tradizionale ha più di 55 anni. Quasi il 60 per cento sta ancora lavorando.
◆ Il 10 settembre 2021 è stato annunciato un nuovo governo in Libano, ma tredici mesi di trattative politiche hanno aggravato una crisi economica a causa della quale milioni di libanesi sono piombati nella povertà. Najib Mikati, l’uomo più ricco del Libano, è diventato primo ministro, un incarico che ha già ricoperto due volte. Tra i 24 ministri del nuovo esecutivo, metà cristiani e metà musulmani, c’è una sola donna. Il governo precedente si era dimesso in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, che ha devastato il porto di Beirut, causando più di duecento morti, settemila feriti e lasciando trecentomila persone senza casa. L’Orient-Le Jour
Mentre pochi fortunati riescono a guadagnarsi da vivere sfruttando la cosiddetta “economia degli influencer” – promuovendo la propria versione della vita nomade – la maggior parte delle persone fa fatica a tirare avanti. Invece di cercare di ricavare un guadagno dal loro stile di vita, molti integrano il piccolo reddito che arriva dalla creazione di contenuti personali con impieghi stagionali, lavoretti temporanei da remoto oppure, come speravano tanti dei partecipanti al convegno in Alabama, lanciando un’azienda di successo. Tra queste persone c’è Summer Slevin, una donna di 28 anni di Peoria, in Illinois, che vive in un vecchio furgone della Ford con il suo cane, un incrocio shih tzu-chihuahua-terrier di nome Rocky Roadtrip. Dopo essersi laureata in giornalismo radiotelevisivo, Slevin ha faticato a trovare lavoro nei mezzi d’informazione, così per un po’ ha lavorato part-time in una escape room e poi si è occupata di marketing per uno scrittore. Quando è stata licenziata, nel 2018, ha deciso di cambiare strategia. Ha comprato il furgone e lo ha allestito in modo da poterci vivere. “Ho pensato: al diavolo, proviamoci!”, mi ha detto.
Slevin spendeva 150 dollari al mese per pagare le rate del furgone, 500 dollari per la benzina e dai 300 ai 400 per mangiare. Parcheggiava nei parchi nazionali, nelle aree di sosta e nei parcheggi gratuiti. Per guadagnare qualcosa ha lanciato un podcast sui parchi nazionali statunitensi e ha raccolto fondi su Patreon. Pensava che il nuovo stile di vita l’avrebbe trasformata nella persona che aveva sempre sognato di essere, come quando cerchiamo di convincerci che un nuovo paio di scarpe da corsa ci motiveranno a fare jogging. Aveva pensato che in qualche modo sarebbe diventata il tipo di donna che si sveglia sempre all’alba per fare yoga, che segue le sue passioni e trascorre il tempo libero leggendo libri importanti invece di stare sempre su Twitter. Addio per sempre alla persona insicura, piena di dubbi e di ansie che tutti sentiamo di essere. Non ha dovuto aspettare troppo per rendersi conto che non bastava il furgone.
“In strada rimango la stessa stramaledetta persona che sono a casa. Ho portato con me il vizio di rinviare sempre tutto. Sono sempre la stessa persona di merda”, mi ha detto. “Sono ancora ansiosa e continuo a chiedermi se sto facendo la cosa giusta. Non ho più quella disperazione che mi soffocava l’anima, ma continuo a non avere voglia di lavorare”.
L’esperienza di Slevin dimostra che vivendo in strada si incontrano spesso le stesse trappole di qualunque altro luogo: costi inattesi, lavoro imprevedibile, spese crescenti per l’assistenza sanitaria (quando la pandemia ha costretto gran parte del paese a fermarsi, molti viaggiatori non hanno più potuto andare nei bagni e nelle docce su cui erano abituati a contare). Slevin ha passato un anno a visitare decine di parchi nazionali, ma poi il suo furgone si è rotto e alla fine si è trasferita nel Montana, dove ha trovato un lavoro. Oggi vive in una casetta di legno. Nonostante gli sforzi, è quasi impossibile diventare indipendenti dalla realtà economica statunitense, pur avendo seguito workshop e seminari.
Nonostante questo, per molte delle persone che hanno scelto di fare questa vita o ci si sono trovate per necessità, il nomadismo offre delle opzioni. È comprensibile che chi negli ultimi anni ha vissuto una serie tremenda di crisi economiche faccia fatica – o forse sia semplicemente incapace – di mettere radici in un posto. Avere delle ruote sotto i piedi significa avere una speranza di fuggire quando arriverà la prossima catastrofe. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati