Lazarus, l’opera quasi postuma di David Bowie scritta insieme al drammaturgo Enda Walsh (andò in scena poco prima della sua morte), debutta nei teatri italiani grazie all’adattamento di Valter Malosti e l’interpretazione di Manuel Agnelli. Lo spettacolo è, inevitabilmente, un’opera sulla corruzione: del tempo, della mente e del corpo.
Anche il canzoniere di Bowie che vive nella nostra memoria appare corrotto, in una maniera che può sconcertare o dare piacere in base a effetti voluti dallo stesso Bowie, enfatizzati qui da una band di musicisti oggettivamente stellari (tra cui Stefano Pilia, Paolo Spaccamonti e Laura Agnusdei).
Interpretando i brani in un inglese non sempre arrotondato e perfetto, il cast introduce ulteriori elementi di straniamento, come se non solo l’alieno Thomas Jerome Newton intrappolato sulla Terra ma tutti i personaggi fossero fuori posto: se a New York Changes nella versione di Cristin Milioti faceva irrompere Joni Mitchell e Carly Simon sul palco, l’interpretazione della coreografa e danzatrice Michela Lucenti riporta alla memoria una figura femminile più acida, una Juliette Lewis più fragile e sbadata.
Il musical è da vedere, se non altro per come fa transitare l’androginia programmatica di Bowie ai tempi di L’uomo che cadde sulla Terra nella figura carnale e allo stesso tempo macilenta di Agnelli, passando per il vampiro depresso di Solo gli amanti sopravvivono. Un gioco di trasferimenti che permette alla sua Absolute beginners di superare quasi l’originale, togliendole qualsiasi velo ironico per restituirci un cuore vecchissimo e spaccato. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati