Paolo Benvegnù è lontano dall’essere un best kept secret, ma il suo nome coincide con un dato statistico: è lì che andiamo a parare quando interpello persone dai gusti diversi alla ricerca di un nome del cantautorato italiano dove far convergere passioni capaci di disegnare direttrici di somiglianza all’interno di una costellazione fatta dall’invincibile sete dei deserti (parole sue, fanno pensare a Camus). Ma lo facciamo con una certa timidezza.

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Quello di Benvegnù è un lavoro scritto per sedimentarsi, non richiede troppe parole di complemento, nel timore che vadano a sciupare l’impressione precisa delle sue. Che si fanno ancora più terse nel suo ultimo disco, È inutile parlare d’amore, forse l’opposizione più fiera a un modo di scrivere canzoni orientato alla perdita progressiva di senso, canzoni fatte di ritornelli ripetitivi che rievocano lo spettro di Wittgenstein nel cancellare tutto quello che si può dire e ci disancorano dalla realtà. Ecco, con le sue analogie oceaniche e i suoi pescatori di perle, Benvegnù crea un ambiente in cui vivere un’esperienza d’immersione, in cui forse manca la vocazione al racconto autoconclusivo – può scrivere inni ma non parabole –, ma la musica fa sì che ci sia un senso di approdo e anche di riconoscibilità. La memoria istantanea di brani come Il nostro amore indifferente è importante, perché in mezzo alla stratificazione della carriera di Benvegnù è facile ricordarsi del sentimento generale e meno dei singoli momenti. Invece questo disco è un’armonia d’istanti che portano in alto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati