Con l’uscita di Wild God, l’ultimo disco di Nick Cave and The Bad Seeds, grazie a un amico trapiantato a Palermo mi è riapparsa la storia della presunta residenza di Cave alla Vucciria, verso la fine degli anni ottanta. Non ci sono molte prove, ma ho deciso di crederci anche per una concomitanza: al festival del cinema di Venezia il regista Giuseppe Schillaci ha presentato un documentario sulla vecchia scena punk di Palermo. S’intitola Bosco grande, come il quartiere popolare, e prende l’avvio ideale dalla stagione in cui la città era una rassegna di omicidi, manifestazioni e processioni. In quel contesto emersero dei ragazzi punk.

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Se fosse un documentario punk tradizionale si chiamerebbe Balla coi topi: lo suggerisce uno dei primi aneddoti raccontati da Sergio Spatola, tatuatore abusivo da trent’anni, che con l’arrivo della mezza età non ha smesso di essere punk. Per essere un documentario classico, mancano le band e i documenti, ma chi lo guarda sceglie di crederci, perché sono proprio il corpo, il Vangelo e la storia di Spatola a incarnare il punk. Molte persone si sono chieste se la scrittura di Joan Didion sarebbe diventata una dottrina mistica se lei non fosse stata così magra. Con Nick Cave la domanda non si pone nemmeno: la sua musica aveva bisogno di quel corpo. Eppure, ascoltando le profezie di Spatola, che nel punk è stato vorace, arrivando a pesare 260 chili, e che sembra essersi mangiato un po’ le vite di tutti quelli intorno a lui, viene il sospetto che forse il nichilismo vero poteva andare solo così: divorando tutto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati