Una delle retoriche inossidabili legate al festival di Sanremo è quella dei furti: i posizionamenti immeritati in classifica, che i vincitori morali di un’edizione non dimenticheranno mai. Fa bene Nino D’Angelo a sottolinearlo ancora rispetto all’ottavo posto di Senza giacca e cravatta con Brunella Selo, arrivata all’ottavo posto nel 1999. Un paio di anni fa mi è capitato di sentirla in un vicolo di Sarajevo, proveniva da una finestra e, come allora, mi ha fatto piangere: è una vetta insuperata di quel che si può fare con una lingua e una melodia codificata nella storia napoletana. A proposito di retoriche, l’ultimo Sanremo ha visto l’ombreggiarsi della canzone napoletana a favore di mamma Roma, con un dilagare di riferimenti a Porta Portese e bullismi romantici poco credibili.
Ma tra il napoletano e il romano ci sono altri dialetti che si possono piegare alla canzone e possono essere lavorati, scavati nelle loro asprezze per produrre qualcosa d’inaspettato: è quello che segna il percorso di Nicola Pomponi, in arte Setak, che fa dell’abruzzese la sua materia prima. Basta ascoltare L’erba ’nzì fa pugnale dall’ultimo album Assamanù per capire la sua intelligenza: invece di proporre ritmi sassosi e banalmente percussivi e suoni da sacrificio biblico legati all’entroterra, c’è una levità onirica che fa pensare ad alcuni dei brani più quieti dei Volcano Choir. Non è semplice appoggiarsi a una lingua locale senza opacizzare le canzoni; Setak indovina di volta in volta le melodie necessarie per rendere la lingua una base ossea a cui sovrapporre altri materiali, più fantasiosi e leggeri. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati