Quando scrivevo Missitalia, romanzo ambientato in parte negli anni del brigantaggio, uno dei miei interessi era capire com’era nato lo smercio di quadri che raffiguravano adolescenti nudi, tristi e meridionali nei mercati e nei salotti; quand’è che si è diffusa la massa di corpi scuri con il sopracciglio luciferino, una medaglietta d’oro tra i seni e nello sguardo un palpito di sconfitta, cercando di non finire troppo addosso a Caravaggio? Ci sono opere contemporanee che rinnovano questa domanda: per esempio la copertina di Furèsta, il nuovo disco di La Niña, al secolo Carola Moccia, in uscita il 21 marzo.
L’immagine è un dipinto a olio di Ciro Morrone, maestro di ritratti in stile partenopeo, che raffigura la cantante su un tamburello in pelle di capra. A suo modo ricorda le immagini delle donne sulle vecchie lattine dei pomodori e della pasta. Dentro ci si sente la nobiltà di una guerriera, ma anche la malinconia del consumo, che a sua volta invita a stare all’erta: la ragazza immaginata e ritratta nello stile che si vuole dal sud lo sa. Dai singoli Guapparìa e Mammamà, che anticipano l’uscita del disco, si capisce che in questi anni La Niña ha deciso di lavorare sulla tradizione musicale in maniera più coerente: la pizzica napoletana, il coro di voci femminili, ballo e canto che s’interrompono con una frustata, il lamento, l’esorcismo ritmico e il “commento”, ma non è un difetto. Sono due singoli in cui Moccia non soccombe sotto il peso della storia che ha scelto, ma la comunica in maniera nitida. A volte l’eredità va gestita così. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 110. Compra questo numero | Abbonati