Che sia il chitarrista dei Wednesday o il collaboratore dei Waxahatchee, MJ Lenderman ama le collaborazioni. Quindi è un po’ sorprendente che in questo terzo album da solista suoni disgustato dagli altri al punto da voler stare solo per sempre. “Non ho mai veramente lasciato la mia stanza /Sono stato sveglio fino a tardi con Guitar Hero”, proclama nella traccia di chiusura, Bark at the moon. In effetti Manning fireworks è un affare solitario: Lenderman ha registrato la maggior parte dell’album per conto suo, con l’aiuto di qualche amico. Non si può biasimarlo per il fatto che si gode la loro compagnia, se l’alternativa è passare il tempo con gli ubriaconi, gli sporcaccioni e i perdenti che popolano queste canzoni. La traccia di apertura, un valzer country sgangherato, parla del tipo di feccia che si lancia in invettive bibliche mentre scommette sulle corse dei cavalli e molesta le donne. She’s leaving you è il ritratto di un uomo che dice di essere stato a Las Vegas solo perché gli piacciono le luci (sua moglie non sembra crederci). In Rudolph Lenderman immagina Saetta McQueen, il personaggio della Pixar, ubriaco fradicio mentre investe l’omonima renna. Ma c’è abbastanza sarcasmo nella sua voce che, se non si riesce a provare simpatia per gli alienati di cui canta, almeno si ride. Lo stile da chitarrista di Lenderman non è appariscente, ma punta sul sentimento. Se Manning fireworks è il risultato di notti passate a giocare a Guitar Hero, allora speriamo che Lenderman non lasci mai la sua stanza.
Jeremy Winograd, The Skinny
Dal 2014 gli Spirit of the Beehive si sono affermati come maestri del collage e della sintesi, attingendo dal rock psichedelico, dal metal, dal post-punk e dall’industrial. Con il nuovo album continuano su questa traiettoria in cui convergono suoni diversi, oltre alla sensibilità pop. La loro estetica è basata su fertili contrapposizioni: il giocoso e il sinistro, l’eufonico e il cacofonico, l’ordine e l’anarchia. Let the virgin drive comincia con una melodia manipolata al vocoder e un’atmosfera da easy listening anni settanta. Poi si trasforma, diventando completamente strumentale e facendoci sentire come Neo di Matrix che ha appena inghiottito la pillola rossa. La band di Filadelfia discende da una stirpe che dedica la vita a dimostrare come i confini territoriali, tra generi o persone, siano arbitrari e innaturali. Possiamo considerare il loro lavoro il risultato delle ibridazioni del secolo scorso. Nella storia della sperimentazione troveranno posto come narratori che provocano la vita nel nuovo millennio.
John Amen, Pop Matters
Ecco tutte le registrazioni che Catherine Collard (1947-1993) fece per le etichette oggi parte della Warner. Sono accompagnate da testi di musicisti come Anne Queffélec e Nathalie Stutzmann. Non capita spesso d’incontrare artiste come Collard. Nikita Magaloff, che una volta era andato a suonare a casa sua per farsi dire se dopo una lunga pausa era pronta o no per riprendere come professionista, raccontava l’emozione di sentire questa giovane collega. Nei sette cd troviamo il suo famoso Schumann (Fantasia, Davidsbündlertänze, Kinderszenen e la prima sonata) e la migliore registrazione in assoluto della Symphonie Cévenole di Vincent d’Indy. Ci sono anche degli album meno noti, con sonate per violino di Lekeu, Franck, Schumann e Prokofiev in cui la pianista dialoga con Catherine Courtois, che qui si alza a vette stupefacenti per potenza espressiva. Non va dimenticato il Satie a quattro mani (Morceaux en forme de poire e La belle excentrique) con Anne Queffélec. Catherine Collard era capace di unire rigore analitico e abbandono folgorante, con una devozione che faceva trovare al pubblico l’essenza della musica.
Alain Lompech, Diapason
Articolo precedente
Articolo successivo
Inserisci email e password per entrare nella tua area riservata.
Non hai un account su Internazionale?
Registrati