All’inizio del romanzo, che ha fatto vincere a Jane Smiley il premio Pulitzer nel 1992, la narratrice, una donna di nome Virginia Cook Smith, descrive la fattoria di Zebulon County, nello stato dell’Iowa, in cui è cresciuta con le sue sorelle, Rose e Caroline: “Pagata fino all’ultimo centesimo, senza oneri, piatta e fertile, nera, friabile ed esposta come qualunque altro appezzamento al mondo”. E poi arriva la terribile consapevolezza. Nel 1979 il padre, Larry Cook, decide di dare a ognuna delle figlie un terzo della proprietà. E lì comincia una tragedia di ingratitudine e conflitti generazionali. La mente del lettore vola a Shakespeare e si chiede fino a che punto l’autrice possa portare avanti i paralleli con la tragedia del Re Lear. Smiley ha tutta l’intenzione di portarli molto lontano. In Erediterai la terra tutta la cattiveria si scatena quando gli esseri umani tentano di imbrigliare la natura. Si può dire che il veleno che in Shakespeare uccide Regan, qui danneggia l’intera comunità. Il fantasma delRe Lear, in queste pagine, serve lo scopo di dare a quello che potrebbe sembrare un fosco melodramma della prateria la dimensione della tragedia classica correndo il grande rischio di ricordarci che titanica opera d’arte sia il suo modello. Ma alla fine la narrazione romanzesca ci guadagna anziché perderci, anche solo perché lo leggiamo con due sguardi diversi che finiscono per completarsi in modo molto soddisfacente.
Christopher Lehmann-Haupt, The New York Times (1991)
È inverno e Natale è vicino. La storia si svolge alla periferia di Oslo, sulla riva orientale del fiume. Una bambina di dieci anni con il suo costume perfettamente stirato intona canti natalizi. La madre non c’è più e il padre è al pub dove servono le pinte di birra meno care della città o è a casa a smaltire la sbronza. Non è stato capace di tenersi il suo lavoro di venditore di alberi di Natale e al suo posto ci sono le figlie, rispettivamente di dieci e diciassette anni, che vendono ghirlande ai passanti sempre più frettolosi. Il loro appartamento è un luogo caldo e sicuro ma è spesso invaso da cognati e parenti del padre. Nella periferia est di Oslo, sotto Natale, c’è molta solidarietà tra le persone che hanno poco. Il padre è uno spiantato alcolizzato ma adora le figlie, con loro crea una dinamica che molte persone che hanno vissuto situazioni simili riconosceranno: le due ragazzine si adattano al comportamenti della persona che soffre di dipendenza sperando di poterlo aiutare. Insieme, per esempio, fanno di tutto per sfuggire ai servizi sociali. Nei libri di Ingvild Rishøi lo stato sociale è pieno di buchi come nella famosa favola natalizia di Charles Dickens. Questa storia però contiene anche un piano mitico che si esprime nel sogno del padre di vivere lontano dalla città, in una casetta di legno o in una tenda. In questa storia la natura si affaccia solo sotto forma di piccoli abeti decorati dalla vita brevissima. Una bella storia di Natale adattata ai nostri tempi e alla nostra società.
Knut Hoem, Norsk rikskringkasting
Nino Haratischwili, drammaturga, regista e scrittrice georgiana, aveva l’idea di scrivere un romanzo su come la guerra cambia la gente. Su come indurisce il carattere, su come trasforma una persona tranquilla in una persona rumorosa, una disinteressata alla politica in una creatura politica. La gatta e il generale è un romanzo che parla di come si può diventare criminali senza volerlo e di cosa significhi la colpa: “Forse è semplicemente il destino dell’uomo quello di non farla franca, che sia colpevole o no”. È questo il tema centrale di un romanzo che è strutturato come un thriller. Haratischwili racconta la storia di un cosiddetto “generale” russo il cui vero nome è Aleksandr Orlov. Vorrebbe espiare un crimine che ha commesso con tre commilitoni durante la prima guerra cecena nel 1995. Orlov non accetta la sua colpa, non riesce a giustificare ciò che è accaduto a lui stesso e al mondo intero come semplice danno collaterale di una più ampia missione russa. L’autrice conosce a fondo le dinamiche della guerra in Cecenia e in diverse pagine riesce a spiegarsi con molta chiarezza. A volte però s’intravedono la sua fatica e il duro lavoro che fa per tenere insieme la trama.
Christiane Lutz, Süddeutsche Zeitung
Libro senza nome, che Shushan Avagyan ha scritto nel 2006 in dialetto armeno orientale, ci fa entrare in un mondo popolato da figure immaginarie e letterarie ma anche storiche e contemporanee. Questi personaggi parlano attraverso cartoline, poesie, lettere, brutte copie e racconti di sogni. Un personaggio spiega tutta questa frammentarietà come “la strana, familiare esperienza della diaspora”. È un romanzo sperimentale e ambizioso che ci obbliga a rivisitare un passato che abbiamo o rimosso o ripulito dei suoi aspetti più inaccettabili. Attraverso ventisei capitoli (e mezzo) si muove in maniera non lineare attraverso i racconti dei suoi quattro “autori”: le scrittrici armene dei primi del novecento Shushanik Kurghinian e Zabel Yessayan e due studiose di oggi. Avagyan non ridà solo vita a due voci storiche della letteratura armena ma libera i generi letterari da qualunque calcificazione: taglia, copia, incolla e trasforma testi letterari, poetici e accademici. Ogni parola di questo libro è un invito alla riflessione e all’interpretazione. Libro senza nome è una lettura impegnativa e stimolante che vale assolutamente lo sforzo.
Lisa Gulesserian, The Armenian Weekly
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