Saša Stanišić, nato nel 1978 a Višegrad, in Bosnia, ha cercato un villaggio della Germania orientale per ambientarci il suo nuovo romanzo. Sapeva esattamente che aspetto avrebbe dovuto avere. Cercava dei bei paesaggi incorniciati da due laghi e li ha trovati a Fürstenfelde, nell’Uckermark. Il fiume si apre in svariati laghetti, è pieno di piccole isole, un paesaggio che può permettersi ancora il lusso di appartenere alla natura e agli animali e non agli esseri umani. Soprattutto cercava di salvare ciò che poteva della vita del buon tempo andato interrogando i suoi abitanti, ma anche osservando e inventando. Prima della festa è un romanzo sugli ultimi tedeschi non globalizzati e comincia con un addio: “Siamo tristi perché non abbiamo più un traghettatore”. Anche il suo primo romanzo, che descriveva un’infanzia nella Bosnia anteguerra, cominciava con una morte, quella di nonno Slavko che però aveva lasciato in eredità una bacchetta magica. In Prima della festa al posto della bacchetta magica c’è un frigorifero pieno di scatolette di tonno inabissato nel fango del fiume. A Fürstenfelde Saša Stanišić trova una Germania dimenticata che nessun abitante di una grande città può neanche provare a immaginare; e soprattutto trova una minuscola storia dal sapore universale. Il narratore rimane invischiato e diventa a sua volta parte della vicenda e usa, quasi gridando, il “noi”. Per lui questo remoto villaggio, indisturbato dalla modernità urbana, è una sorta di tesoro nascosto.
Verena Auffermann, Die Zeit
Questo romanzo è una lunga apologia che il protagonista Erik Schroder scrive alla moglie Laura per giustificare in qualche modo il rapimento della loro figlia di sei anni. C’è qualcosa di Humbert Humbert in Erik e lascia nel lettore il sospetto che la storia di un uomo che rapisce la sua bambina possa solo prendere una piega cupa. Eppure il personaggio creato da Gaige è un uomo solitario e pieno di fantasie ma del tutto inoffensivo. Schroder non è un rapitore ma un buon papà nel bel mezzo di una brutta causa per l’affidamento della figlia: non è machiavellico, solo sconsiderato. Soprattutto però deve cominciare a spiegare alla moglie, che lo conosceva come Eric Kennedy, perché in realtà è un tedesco di nome Erik Schroder. Qualcosa di oscuro scorre sotto la pelle di questo narratore: non è quello che temiamo sia ma nemmeno il bonaccione che vorrebbe apparire. Mentre lentamente comprendiamo la sua personalità nascosta e il vuoto interiore che nasconde cominciamo a temere sia per lui sia per la figlia, Meadow, e non solo perché lei lo ama teneramente. È una bambina stoica, testarda, con diverse tracce di un altro personaggio memorabile della letteratura statunitense: Phoebe, la sorellina del protagonista del Giovane Holden. Schroder confida per la prima volta la verità a Meadow ed è a lei che osa raccontare il suo passato. Se lui potrà mai essere perdonato o se si riconcilierà con ciò che ha fatto è una domanda che continua a risuonare fino all’ultima pagina.
Sadie Jones, The Guardian
Lo scrittore albanese Ismail Kadare (1936-2024) aveva più di ottant’anni quando ha scritto Quando un dittatore chiama, un lavoro in diretta connessione con un suo romanzo del 1978, Il crepuscolo degli dei della steppa, ispirato dal suo soggiorno a Mosca tra il 1958 e il 1960. È una storia che cerca di tratteggiare l’eredità culturale dello stesso Kadare ma anche quella di chiunque abbia patito sotto un sistema politico oppressivo. Ci sono momenti brillanti in questo lavoro, che però non raggiunge le vette drammatiche e narrative di suoi capolavori come Il successore o L’impedita – Requiem per Linda B. Parte di questa inconsistenza è dovuta al fatto che il romanzo sembra oscillare tra momenti d’intensa introspezione, teoria letteraria, autofiction e laboriosa ricostruzione storica. Quando un dittatore chiama si affida a un gran numero d’ingranaggi in movimento per arrivare a discutere idee enormi e molto spesso mette il carro davanti ai buoi. Più della metà del libro è impiegata nella descrizione di tredici testimonianze di una telefonata di tre minuti intercorsa tra Stalin e una persona che lui chiama Boris Pasternak il 23 giugno del 1934. Nella tredicesima ricostruzione è Kadare stesso a parlare: Osip Maldestam e gli altri scrittori che, come lui, sono stati testimoni obbligati della dittatura non sono soli. E le loro voci resteranno nel tempo.
Cory Oldweiler, Los Angeles Review of Books
Il romanzo di debutto di Jakob Guanzon comincia in un McDonald’s e finisce in un grande magazzino Walmart. Descrive l’agghiacciante giornata di un bracciante ed ex carcerato del Minnesota di nome Henry, che vive in un furgone con suo figlio Junior. La gita da McDonald’s è per festeggiare l’ottavo compleanno del bambino, per cui Henry ha anche deciso di svenarsi per passare la notte in un motel con acqua calda e tv via cavo. Questo lusso è anche un modo per prepararsi a un colloquio di lavoro che potrebbe dare alla sua vita una svolta. Abbondanza è una storia di suspence che segue tutti i tentativi che fa Henry per tenere insieme la sua vita in vista di quell’incontro che lui vede come risolutivo. Ogni capitolo del libro segna i pochi soldi di Henry che man mano vanno in fumo: all’inizio ha 89,34 dollari e ogni pagina è un sofferto, doloroso calcolo. Tutto per cercare disperatamente di rimanere a galla.
Sam Sacks, The Wall Street Journal
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