Il dramma della vita domestica è abbastanza prevedibile: ci sono persone con dei ruoli; c’è uno spazio delimitato; le relazioni sono definite; le azioni si ripetono. Una sceneggiatura insomma, che Laura Marling definisce “schemi in ripetizione”, come il suo nuovo disco. La cantautrice britannica, che ha cominciato a suonare così presto che una volta le venne proibito di entrare in un locale dove avrebbe dovuto esibirsi perché sembrava troppo giovane, ha sempre avvolto nel mistero la sua vita personale, almeno fino alla svolta di Song for our daughter del 2020. In quel disco il suono era diventato più intimo e quieto e così è ancora nel nuovo Patterns in repeat, arrivato dopo la nascita di sua figlia. È un album scritto e registrato a casa e che in questo contenitore si trova a proprio agio, come del resto la stessa artista. Sembra infatti che all’interno di questi limiti Marling trovi con la sua chitarra un sacco di spazio per momenti gioiosi e leggeri. I testi restano sempre evocativi ma diventano più maliziosi, pieni di rime assonanti e giochi di parole. Queste canzoni sono piene di storie e soprattutto c’è tanta onestà, un nuovo punto d’arrivo espressivo per la musicista dello Hampshire. Marianela D’Aprile, Pitchfork
Nei primi anni in cui Phil Elverum scriveva canzoni con il progetto The Microphones e poi come Mount Eerie, sembrava che il tempo e lo spazio fossero le uniche cose che prendeva in considerazione nel suo lavoro. Viveva, e vive ancora, nella campagna di Washington, abbastanza lontano dal resto del mondo (in particolare dall’altra Washington, quella della politica) per sentire che la natura e il ciclo della vita erano le uniche cose con un significato per lui. Poi ha avuto un incontro violento con la verità quando la sua compagna di lunga data e madre di suo figlio, Geneviève Castrée, è morta di cancro. Improvvisamente la morte è diventata una cosa reale. Per reazione, ha ridotto la sua musica alle immagini più scarne in album toccanti come A crow looked at me e Now only. Le sue uscite più recenti avevano mostrato un graduale ritorno alla musica più semplice e voluminosa che faceva prima della scomparsa di Castrée. Negli 81 minuti di Night palace, il suo primo album in quattro anni, possiamo dire che la natura lo sta guarendo. Night palace è il suo lavoro più vario finora, e passa da momenti acustici a passaggi quasi black metal.
Rob Hakimian, Beats Per Minute
Nella serie di sei sonate per violino solo di Eugène Ysaÿe il virtuosismo senza sforzo di Hilary Hahn, la sua fusione di struttura e spontaneità, la sua ampia tavolozza di sfumature, il suo uso generoso ma sapiente del vibrato e il suo dono per la caratterizzazione contribuiscono tutti a dare vita e significato alla musica. Per avere un esempio, si può sentire l’intensità dell’articolazione di Hahn nelle doppie corde nel finale della prima sonata. Nel secondo movimento la sua fuga sembra arrivare da due strumenti e due esecutori diversi. Nella terza sonata, quella più celebre, la sua esecuzione potrebbe essere la più decisa, fluente ed espressiva dai tempi delle classiche registrazioni di Michael Rabin e David Oistrakh. La violinista statunitense assapora la ferocia nell’allemande di apertura della quarta sonata in un modo che lascia i suoi concorrenti più letterali nella polvere. La quinta sonata è la più inventiva e originale. Nell’apertura L’aurore, il vibrato scarno di Hahn e il suo tono tagliente da violinista di campagna forniscono contrasti stridenti ed efficaci ai pizzicati della mano sinistra, che nella Danse rustique conclusiva combina in modo impressionante serietà e abbandono. Nella sesta sonata Hahn è pirotecnica e incisiva con una sicurezza che renderà umili per anni i giovani aspiranti violinisti. Le note di copertina della violinista su com’è nato questo disco sono deliziose e la registrazione è di qualità superiore. Raccomandato con entusiasmo.
Jed Distler, ClassicsToday
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