Una massima del mondo del crimine recita che chi controlla il prezzo della droga controlla anche il mercato. Ma chi domina questo spazio economico si assicura anche il potere sul territorio. Nel 2019, seguendo queste massime, il cosiddetto clan degli albanesi a Roma ha avviato la sua macchina di contatti con l’aiuto del clan dei Casamonica, una famiglia molto potente in città, e ha affittato un aereo privato. L’obiettivo era far arrivare dal Brasile sette tonnellate di cocaina, una quantità sufficiente per inondare di droga i quindici municipi della capitale e stravolgere l’equilibrio nella frammentata scena criminale della città eterna.
L’operazione di polizia internazionale Brasile low cost, coordinata da Roma, a cui hanno partecipato alcuni agenti sotto copertura della Dea, l’agenzia antidroga statunitense, ha sventato l’arrivo del carico di cocaina proveniente dal Brasile. Il clan degli albanesi voleva prendersi una parte della città. Il simbolo della folgorante ascesa di questo gruppo criminale è Elvis Demce, 37 anni, albanese di seconda generazione, nato alla periferia di Roma. “Io sono dio”, aveva proclamato uscendo dal carcere nel maggio 2020 dopo essere stato assolto dall’accusa di omicidio. Demce ha preso il posto dei compatrioti arrestati durante l’operazione Brasile low cost, guadagnando più di dieci milioni di euro in otto mesi grazie alla cocaina che arrivava direttamente dal Sudamerica con il permesso della ’ndrangheta. Ma ha infranto la prima regola della mafia: non fare rumore. “Se non lo avessimo arrestato avrebbe un potere enorme”, spiegano fonti delle forze dell’ordine.
Roma non ha mai voluto un padrone. Nella capitale il crimine organizzato si spartisce un territorio enorme (Roma è la seconda città più grande d’Europa per estensione) per trafficare droga e riciclare denaro, evitando le esplosioni di violenza. Nonostante i tentativi fatti da cosa nostra, camorra e ’ndrangheta, l’unica organizzazione in grado di riunire i criminali della capitale è stata la banda della Magliana negli anni settanta e ottanta, formata da delinquenti e neofascisti dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari). Dopo la fine della banda della Magliana, figure come quella di Michele Senese, di Napoli, l’uomo della camorra a Roma, sono diventate i catalizzatori degli interessi criminali in città. Ma l’arresto di Senese nel 2013 e il declino del suo clan hanno aperto la strada nel 2017 a nuovi gruppi, tra cui quello degli albanesi. “Anche un altro evento ha sancito l’inversione di rotta: l’assassinio di ‘Diabolik’”, spiega un pubblico ministero che conosce l’universo delle mafie dell’est europeo.
Fabrizio Piscitelli, soprannominato Diabolik, era il leader degli ultras della Lazio, ma anche un criminale che controllava parte del traffico di droga a Roma, con l’aiuto dei malviventi albanesi. È stato Diabolik a introdurli sulla scena criminale romana. “Condividevano la fede calcistica e politica”, spiega un magistrato. La fede politica è il fascismo, quella sportiva è il tifo per la Lazio. Diabolik il 7 agosto del 2019, mentre era seduto su una panchina del parco degli Acquedotti, a Roma, è stato ucciso da un sicario argentino vestito da runner che gli ha sparato alla nuca. La Direzione investigativa antimafia (Dia) seguiva da tempo Diabolik, che cercava di diventare il capo del crimine a Roma. Il 13 dicembre 2017 Piscitelli aveva incontrato le famiglie degli Spada, dei Casamonica e degli Esposito per stabilire chi comandava nel municipio di Ostia. In quell’occasione erano presenti gli albanesi, rappresentati da Dorian Petoku, protagonista del tentativo di importare le sette tonnellate di cocaina dal Brasile, poi sventato. Piscitelli voleva tenere gli albanesi vicino a sé, e quando Petoku è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Brasile low cost è arrivato il momento del nuovo re.
Conversazioni criptate
Elvis Demce aveva più fame di tutti gli altri. “È uscito l’Isis”, ha detto agli amici nel 2020 lasciando il carcere e annunciando l’avvento di un nuovo ordine, come ha raccontato il quotidiano La Repubblica in un’inchiesta. Un magistrato che conosce bene il modus operandi di Demce ha ricostruito l’ascesa del gruppo. “Per venticinque anni gli albanesi hanno lavorato per il clan napoletano di Senese, prima come buttafuori nei suoi locali e poi come spacciatori. Sono più violenti degli altri e traggono il loro potere da questa inclinazione alla violenza. Molti sono finiti in carcere, dove sono entrati in contatto con i calabresi. La prigione permette una rete di contatti, e gli accordi stretti dietro le sbarre tra gli albanesi e la ’ndrangheta sono stati fondamentali”, spiega il magistrato.
Per spacciare tanta droga bisogna essere sicuri di venderla e di controllare un’infrastruttura logistica e di distribuzione
Il prezzo della cocaina viene fissato anche in base alla capacità del compratore di occuparsi delle fasi successive all’importazione: recuperare la droga al porto, custodirla, trasportarla, tagliarla e distribuirla. La banda di Demce era particolarmente abile, tanto da pagare un prezzo competitivo: trentamila euro al chilo. I contatti hanno permesso agli albanesi di acquistare grandi quantità di cocaina, prima dai calabresi e poi direttamente dai cartelli sudamericani.
Gli albanesi non si sono sostituiti ai calabresi nel controllo della droga all’origine, ma hanno puntato su alcuni porti del nord Europa e dell’Albania. “Alcuni trafficanti albanesi riuscivano a vendere a Roma trenta chili di cocaina a settimana. Per spacciare tanta droga bisogna essere sicuri di venderla e di poter controllare un’infrastruttura logistica e di distribuzione. Significa conquistare il territorio, e lo si fa con la violenza o accordandosi con altri gruppi”, afferma il magistrato. Gli albanesi hanno seguito entrambi i percorsi. Un magistrato della Procura nazionale antimafia ritiene che “l’affermazione di questo tipo di criminalità mafiosa, capace di controllare il territorio, è una novità. Hanno strutture fluide. Gli albanesi gestiscono alcuni canali della droga. Si sono rafforzati vendendo l’eroina afgana e l’hashish albanese e marocchino. Usano soprattutto i porti di Rotterdam e Amsterdam”.
Il problema è che quando Demce è uscito dal carcere ha voluto prendersi ciò che considerava suo. Ma il territorio era già occupato da un altro albanese. “Quelle zone erano controllate da Ermal Arapaj, e così è scoppiata una guerra fratricida”, spiegano fonti del Nucleo investigativo del comando dei carabinieri di Roma. Demce ha tentato di assassinare il rivale. “Qui c’è solo una chiesa, e anche i sampietrini sono nostri”, ha detto in una conversazione intercettata. Arapaj si è rifugiato in Spagna, poi è tornato a Roma per uccidere Demce. A quel punto si è scatenato il caos e sono state infrante tutte le regole che cosa nostra aveva imparato a sue spese durante gli attentati negli anni novanta. Il caos ha attirato l’attenzione delle forze dell’ordine e dei pubblici ministeri, che hanno preso di mira l’organizzazione criminale. A quel punto Demce ha deciso di attaccare lo stato. Il piano era assassinare alcuni agenti di polizia e i fratelli Francesco e Giuseppe Cascini, due magistrati che stavano indagando sull’organizzazione, spiega una fonte dei carabinieri. “Una follia. Non so se erano pronti ad andare fino in fondo, ma di sicuro avevano granate, fucili, bazooka”.
Le conversazioni telefoniche in cui Demce spiegava che l’organizzazione avrebbe compiuto l’attentato a piazzale Clodio, sede del tribunale, sono state fatte con SkyEcc, un’applicazione per mandare messaggi criptati, trovati nel server mesi prima dall’Europol. “Nei server c’erano le conversazioni di 170mila utenti”. Tutto era spiegato nel dettaglio, dalle operazioni alle quantità.
Nel marzo del 2021 sono partiti gli arresti. “È stato come scoperchiare il vaso di Pandora. La maggior parte dei criminali usava quel sistema per comunicare. Avevamo un materiale probatorio di enorme rilievo. Ci stiamo ancora lavorando”, spiega una fonte dei carabinieri.
L’operazione si è conclusa con ventisette arresti e lo smantellamento di parte dell’organizzazione, accusata di traffico internazionale di stupefacenti aggravato dal metodo mafioso. “Oggi sono indeboliti, ma sono ancora lì. Hanno una struttura che gli permette di riarmarsi rapidamente”, spiegano fonti legate all’indagine. Si dice che una vita non basti per conoscere Roma. Elvis Demce ha provato a conquistarla in dieci mesi, ed è finito in carcere. Forse i suoi successori proveranno a farlo con più tempo. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 41. Compra questo numero | Abbonati