L’assistente di volo che aveva portato la birra era la stessa che aveva fatto la dimostrazione di sicurezza un’ora prima mentre stavano per decollare dall’aeroporto di San Francisco. “Nell’improbabile eventualità che dovessimo atterrare in acqua”, aveva detto una voce incorporea mentre la donna s’infilava un giubbotto di salvataggio dalla testa. “Improbabile” non era abbastanza, pensò Conor. Odiava essere pedante, ma comunque. Era improbabile che avesse messo in valigia un adattatore per le prese europee, ma nel groviglio di accessori che aveva infilato in valigia mentre il taxi lo aspettava sotto casa se ne sarebbe potuto materializzare uno. Era improbabile che l’uomo seduto alla sua sinistra smettesse subito di parlare, ma non era inconcepibile che a un certo punto gli sarebbe venuto il mal di gola. In un certo senso, c’era qualcosa di sbagliato nel fatto che la possibilità di finire nelle gelide acque dell’Atlantico per farsi mangiare gli occhi dai pesciolini fosse messa sullo stesso piano di queste altre eventualità più banali. Di sicuro, come minimo, era “altamente improbabile”, no?

Dall’altra parte sedeva la sua ex moglie, Reece. Erano sposati da dieci anni quando aveva scoperto che lei aveva una relazione con uno dei suoi colleghi del centro di biologia marina, un uomo più giovane di nome Dan. O Quinoa Dan, come Conor lo chiamava tra sé, con il suo codino, le sue Converse e le sue torte vegane. Conor era stato nell’appartamento di Dan una volta, prima che cominciasse la relazione. Aveva mangiato una torta vegana senza farina per il trentacinquesimo compleanno di Dan nel loft di un vecchio impianto d’imbottigliamento a Mission Bay, uno spazio aperto rettangolare, con mobili riciclati e pavimenti in sughero. Quando le aveva chiesto della sua relazione, Reece aveva risposto che le dispiaceva, ma non che avrebbe smesso di vedere Dan. Anzi, aveva preparato in silenzio una valigia e se n’era andata. Era gennaio.

Si diressero a nord. L’ultima volta che avevano percorso quella strada era una giornata d’estate, non grigia come quella. Era una splendida giornata di sole

“Potrebbe sembrarti un po’ strano” erano state le parole con cui aveva preceduto la sua richiesta quando l’aveva chiamata un sabato sera di fine aprile.

“Continua”, aveva detto lei.

La relazione con Dan a quel punto era finita e Reece viveva in affitto in un monolocale a Belmont. Si stavano comportando in modo civile riguardo al divorzio, perché come avrebbero potuto fare altrimenti, pensò Conor, a quel punto della loro vita, lui cinquantadue anni, Reece quarantasette. Non era come se fossero liceali, impazziti per la fine di un amore giovanile.

“Ti ricordi che mio padre ti ha sempre adorato?”, aveva detto. “Tuo padre è un tesoro. Gli sarò sempre molto affezionata”. “Il fatto è”, aveva detto lui, “che papà non è stato bene ultimamente”. Si era fermato. Aveva riflettuto a lungo su quella chiamata, ma ora temeva di aver sbagliato i calcoli. “Ha problemi al cuore, ai polmoni e anche i reni non funzionano tanto bene. Il 10 luglio è il suo compleanno e Joanne vorrebbe che ci fossimo anche noi”.

“Noi?”.

“Sì. Io e te”.

“Oh”, aveva detto lei. Aveva sentito un leggero rumore metallico dall’altra parte. Aveva immaginato che lei avesse appoggiato il telefono e si stesse girando una ciocca di capelli intorno all’indice, come faceva sempre quando era perplessa.

“Reece, ci sei ancora?”. Si era chiesto se stesse dormendo. Aveva immaginato la sua voce viaggiare lungo la linea, fino alla nuova camera da letto della moglie.

“Non mi aspettavo di essere invitata”, aveva detto lei alla fine. “Temevo che tuo padre pensasse male di me. Che mi attribuisse la colpa del divorzio”.

E a chi altro doveva dare la colpa? aveva pensato Conor. “Non ne devi parlare”, aveva detto. “Mio padre non lo sa”.

“È il tipo di cosa che un padre dovrebbe sapere. Come hai potuto non dirglielo?”.

“Lo avrebbe ucciso, Reece, gli avrebbe spezzato il cuore. Ha sempre pensato che tu fossi perfetta”.

“Joanne lo sa?”. Joanne era la sorella di Conor.

“Pensa che stiamo passando un periodo di crisi”.

Reece era rimasta in silenzio per un po’. “Chiedono ancora di me?”, aveva detto.

“Naturalmente”, aveva risposto. “Dico sempre che stai benissimo”. Aveva fatto una pausa. “È chiederti molto, lo so. Ovviamente pagherò tutto io”.

“Non so, Conor. Non è una specie di bugia?”.

“No”, aveva detto lui, “è un atto di gentilezza. Mio padre non arriverà al prossimo compleanno, forse non arriverà neanche a questo. Voglio fare questa piccola cosa per lui. Voglio che muoia pensando che siamo felici”.

Lei non aveva replicato. Tu sei felice, Reece? Avrebbe voluto chiederglielo, ma non l’aveva fatto. Non gli sarebbe dispiaciuto se avesse risposto di sì. Dopo tutta quella sofferenza, sarebbe stato un peccato che nessuno dei due fosse felice, sarebbe stato un tale spreco.

“Ok”, aveva detto lei sottovoce. “Ci vengo. Ho sempre voluto bene a tuo padre”.

L’aereo entrò in una sacca di turbolenza e si accese il segnale delle cinture di sicurezza. Improbabile. Conor strinse di più la sua birra. Accanto a lui c’era un uomo robusto del Delaware dal volto paonazzo, che emanava calore come uno di quei mattoni che i vittoriani usavano per riscaldare i letti. L’uomo del Delaware lavorava per un’azienda che installava stanze antipanico e gli aveva spiegato i minimi dettagli di quegli spazi, ogni corridoio illuminato da strisce a led, ogni trompe l’oeil, in un tono sibilante a metà strada tra la tirata di un venditore e un sonetto. “Come vive l’altra metà, eh?”, aveva detto a Conor, e per un momento lui si era sentito offeso per essere stato assegnato accuratamente e in così poco tempo a una metà specifica. Erano in classe economica, e la considerevole corporatura dell’uomo straripava dallo spazio che gli spettava, un braccio, una gamba, il ventre e tutto il suo corpo sudato continuavano a sconfinare. Dall’altra parte di Conor, Reece si era attentamente sistemata in modo da non toccarlo.

Gabriella Giandelli

All’aeroporto di Dublino affittarono un’auto e si diressero a nord. L’ultima volta che avevano percorso quella strada era una giornata d’estate, non grigia come quella. Era una splendida giornata di sole, con i tappeti stesi davanti alle case e corpi, pallidi, spettrali, sdraiati sui prati come stoccafissi lasciati a seccare. Oggi i prati erano avvolti da una pioggia sottile. La luce era soprannaturale, argentea sulla lontana superficie dei laghetti. L’autunno precedente Reece era andata al lago Merritt per un weekend di addestramento con un gruppo di ambientalisti volontari tra i quali c’era anche Quinoa Dan. Quando pensava a un lago, adesso Conor immaginava una barca con Dan e Reece, lei in pantaloncini e reggiseno del bikini, con il sole che le abbronzava le spalle già abbronzate mentre la barca li portava verso i letti di zostere o i luoghi dove nidificavano uccelli rari.

Reece armeggiava con i canali radio. Parlava della conservazione delle zostere e di un nuovo tipo di pannelli solari che avevano montato sul tetto del centro di biologia marina. Poi scivolò nel silenzio. “Non vuoi sapere niente di me, Conor?”, disse dopo un po’. “Non vuoi sapere come sto? Ammetto la mia responsabilità per com’è andata a finire, ma dopo dieci anni di matrimonio, nelle ultime sette ore non mi hai neanche chiesto come stavo”.

“Come stai?”, chiese lui.

Reece sospirò e si girò a guardare fuori dal finestrino. “Lascia perdere”, disse.

Suo padre viveva a Listrane con sua sorella Joanne. A poco più di un chilometro dalla cittadina c’era un monumento, quattro busti scolpiti nel marmo appoggiati su un blocco di pietra calcarea in memoria di quattro uomini del posto catturati dai Black and tans, l’unità di polizia creata dai britannici negli anni venti durante la guerra d’indipendenza irlandese. Ricordava il racconto sentito da bambino: erano stati portati in una capanna, gli avevano sparato alle gambe e avevano appiccato il fuoco alla capanna. Il finestrino dell’auto in affitto era aperto e Conor aveva la sensazione che l’aria fosse diventata più densa e pesante.

“Chissà se una cosa così terribile continua ad aleggiare nell’atmosfera di un luogo”, disse Reece.

Le aveva raccontato la storia degli uomini ai quali avevano sparato la prima volta che l’aveva portata lì. “Intendi dire come un fantasma?”, le chiese.

“Forse non proprio un fantasma”, disse lei. “Più come una foto sviluppata sopra un’altra”.

Durante le visite precedenti avevano sempre dormito dai suoi, ma adesso non potevano condividere il letto singolo della stanza che era di Conor da ragazzo. E lui non poteva dormire sul divano al piano di sotto, Joanne stava già facendo troppe domande. L’aveva informata che sarebbero andati in albergo perché Reece aveva bisogno del wifi per lavoro.

“Qui abbiamo internet”, aveva detto Joanne. “Ho anch’io uno di quei maledetti aggeggi”.

“Reece ha bisogno di una connessione veloce”, aveva ribattuto prontamente. “Ha molto da fare in questo periodo”.

Gabriella Giandelli

“Spero che non mancherà alla festa di papà”, aveva detto Joanne.

“Neanche per sogno”, aveva risposto lui. “Vuole molto bene a papà”.

L’albergo, una pensioncina a conduzione familiare, era l’unico in città. Chiedendo due stanze si sarebbero fatti scoprire, perciò aveva concordato con Reece di prenderne una con due letti. Ma quando girò la chiave nella toppa, vide che ce n’era uno matrimoniale. Reece entrò dietro di lui e posò la valigia. Lui fissò il letto ben fatto con sopra una serie di cuscini. Si chiese se Reece l’avrebbe fatto tornare giù e insistere con l’addetto alla reception per avere due letti separati. Forse poteva convincerla a essere pragmatica, dopotutto avevano dormito per tanto tempo uno accanto all’altra senza fare sesso. Non era una cosa impossibile.

Il loro matrimonio non andava esattamente bene l’anno prima dell’arrivo di Quinoa Dan, cosa che Conor aveva ammesso con se stesso solo di recente. Avrebbe potuto scherzarci sopra. “È tutto a posto, Reece”, avrebbe potuto dire. “Come ai vecchi tempi”.

Reece fece scattare la chiusura della sua valigia. “Va bene così”, disse. Tirò fuori un cambio di vestiti e il beauty case. “Vado a farmi una doccia”.

Era sorpreso che non avesse fatto storie sul letto. Forse, pensò, era il segno che provava ancora qualcosa per lui. D’altra parte, poteva significare che il sesso era l’ultima cosa che aveva in mente e presupponeva che fosse lo stesso per lui.

La casa dov’era cresciuto era in una strada senza uscita. Le mura esterne erano coperte di ciottoli e aveva un giardino davanti e un cortile dietro, con una rispettabile quantità di siepi in fiore e un quadrato di asfalto leggermente consumato dove Joanne parcheggiava l’auto. Quando suonò il campanello, non aprirono immediatamente, ma qualcuno spostò leggermente la tenda e guardò fuori. Era una donna anziana che Conor riconobbe come una vicina, la signora Dillon. La tenda tornò al suo posto e un momento dopo suo padre era alla porta. “Reece!”, esclamò. “Benvenuti, benvenuti, entrate”.

“Ciao, papà”, disse Conor porgendogli una bottiglia di whisky.

Poi uscì di corsa Joanne, che salutò Conor prendendolo per le spalle e lanciò un’occhiata al padre mentre lo seguivano lungo il corridoio. Il padre reggeva la bottiglia di whisky davanti a sé come una torcia. Indossava un paio di pantaloni marroni sgualciti nello stile che aveva adottato venti anni prima e un cardigan di Aran grigio abbottonato fino al collo. Camminava più lentamente di quanto Conor ricordasse.

In cucina, suo padre agitò la mano in direzione della signora Dillon. “Conosci Agnes”, disse.

È cosi che si chiamava, allora. Conor non ricordava di aver mai sentito quel nome.

Gabriella Giandelli

“Certo che mi conosce”, disse lei. “Io me lo ricordo quando portava i pannolini!”.

Conor fece un sorrisetto. “Piacere di rivederla, Agnes”, disse. “Questa è mia moglie Reece”. Gli sembrava quasi blasfemo chiamare Agnes per nome. Non ricordava di averlo mai fatto da piccolo. Anche per sua madre, era sempre stata la signora Dillon.

Reece e Agnes si strinsero la mano. “Piastrelle nuove?”, disse Reece battendo il piede sul pavimento della cucina.

“Sì”, disse suo padre compiaciuto. “Agnes ha pensato che fosse ora di cambiarle. E il lavoro è venuto proprio bene, devo dire”.

Conor notò la facilità con cui suo padre e Agnes si muovevano insieme in cucina, il sorriso indulgente di suo padre quando lei rovesciò la piccola saliera di porcellana. Nel frattempo Joanne metteva l’insalata nei piatti, con i pomodorini che rotolavano come palline da biliardo. Lui continuava ad aspettare che Agnes se ne andasse, ma sembrava che sarebbe rimasta con loro.

“Com’è San Francisco?”, chiese Agnes. Si era seduta accanto a Conor, di fronte a suo padre.

“Bellissima”, rispose Conor. “San Francisco è bellissima”.

“Ci sono musulmani?”, chiese suo padre.

“Sì, ci sono musulmani”, rispose Conor.

“Ne abbiamo anche qui adesso”, disse il padre. “Con tutti i loro turbanti, le barbe e il resto”.

Conor si schiarì la gola, desiderando che gli si presentasse una risposta adeguata. Fu salvato dalla signora Dillon, che proprio in quel momento diede un piccolo colpo di tosse, seguito da un suono strozzato. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Infilò un dito in bocca e tirò fuori qualcosa di verde e filaccioso, probabilmente sedano, e lo posò sul bordo del piatto. Arrossì abbassando lo sguardo. Conor vide suo padre allungare il braccio e accarezzarle la mano. C’era qualcosa d’inquietantemente intimo in quel gesto, come se si fossero abbandonati a un atto sessuale davanti a lui. Sentì anche qualcos’altro, qualcosa che non poté identificare immediatamente, anche se dopo un momento capì. Era gelosia. Era geloso di un padre di ottant’anni e di Agnes Dillon, che doveva averne almeno settantacinque, e che in quel momento si stava asciugando il dito bagnato di saliva sulla gonna a pieghe.

Tu sei felice, Reece? Avrebbe voluto chiederglielo, ma non l’aveva fatto. Non gli sarebbe dispiaciuto se avesse risposto di sì. Dopo tutta quella sofferenza, sarebbe stato un peccato che nessuno dei due fosse felice, sarebbe stato un tale spreco

“Papà”, disse Joanne corrucciata, “forse potresti versare a Agnes un bicchiere d’acqua”. Si rivolse a Reece. “Avete progetti per domani?”. Era venerdì e il compleanno di suo padre sarebbe stato solo domenica. Ufficialmente erano in vacanza

“Andiamo a Belfast a visitare il museo del Titanic”, disse Reece. “Uno dei miei antenati salpò su quella nave da Cobh. V’inviterei a venire con noi ma suppongo che l’abbiate visto un milione di volte”.

“Io non l’ho mai visto”, disse Joanne.

“Mai?”, disse Reece. “Allora devi venire con noi!”.

“Non l’ho mai visto neanche io”, disse Agnes. Guardò il padre di Conor dall’altra parte del tavolo. “Tu l’hai visto, Dennis?”. A quanto pareva Dennis non l’aveva visto.

“Più siamo e meglio è”, disse Reece. “C’è tanto spazio nell’auto, vero Conor?”.

Lui appoggiò la forchetta sul bordo del piatto. Un viaggio in macchina con la signora Dillon. Sai che divertimento. La prima volta che aveva sentito parlare del progetto Titanic era stato mentre aspettavano che l’impiegato dell’autonoleggio riempisse il modulo. “Tantissimo spazio”, aveva detto facendo di sì con la testa

Joanne si alzò e cominciò a raccogliere i piatti e a posarli rumorosamente nel lavandino. “È molto gentile da parte tua, Reece”, disse, “ma domani devo andare a sistemare i fiori sull’altare. Comunque”, disse lanciando un’occhiataccia al padre, “suppongo che tu e Conor preferireste passare la giornata da soli”.

Finito il pranzo, suo padre e Agnes andarono a fare la spesa per la sorella di Agnes, e Conor, Reece e Joanne si trasferirono in salotto.

“Che sta succedendo qui?”, chiese Conor con il tono più leggero possibile.

“L’amore”, disse sottovoce Reece. “Ecco che sta succedendo”.

“Non devi intrometterti nella vita di tuo padre”, disse Reece. “E neanche Joanne”. Ebbe la sensazione che lo avesse scoperto a fissarla. “È nostro padre”, disse. “Se non c’intromettiamo noi, chi può farlo?”. “È un adulto”, disse Reece. “È libero di sposare chi vuole”

Joanne versò il caffè, fece girare le tazze e i piattini e un vassoio di biscotti. Si sedette sul divano accanto a Reece. “Non ci capisco più niente”, disse. “L’ultima è che lei gli sta facendo prendere un nuovo tipo di pastiglie”. Mise la mano nella tasca del vestito e tirò fuori due capsule, ammaccate e schiacciate, da una delle quali uscirono dei piccoli granuli argentei. Gliele mostrò sul palmo della mano. “Cosa potrebbero essere, Conor?”.

Aveva provato, senza riuscirci, a spiegare a sua sorella che faceva solo il professore di chimica alle superiori, e di farmaci non ne sapeva di più di qual­siasi adolescente medio, probabilmente anche meno. “Non ne ho idea”, disse. “Devo vedere la scatola”.

Joanne sospirò e si fece scivolare di nuovo le capsule in tasca. “Non so dove tiene la scatola”, disse. “Queste le ha lasciate vicino al telefono”.

“Ma fa tenerezza, vero?”, disse Reece. “Io penso di sì”.

Joanne posò la tazza e il piattino. Sbatté le palpebre furiosamente e Conor temette che si mettesse a piangere. Quando parlò di nuovo, si rivolse a Reece. “Sai cosa gli fa fare adesso?”, disse. “Yoga per anziani. L’altra sera li ho sorpresi. E ha cominciato a parlare di sposarla. È insopportabile, se penso a come lei guardava dall’alto in basso nostra madre. Tutti noi. Se c’incontrava per strada non ci salutava. Se fosse qualsiasi altra non sarebbe così terribile. Non sarebbe comunque un granché, te lo assicuro. Ma Agnes Dillon! Le interessa la casa, naturalmente, lo sappiamo tutti. E non ho ancora trovato il modo di dire a papà che non può sposarla. Grazie al cielo, adesso ci sei tu, Conor”.

“Io?”, disse lui.

“Sì, ho pensato che potresti parlargli. Ti ha sempre ascoltato”.

Per un secondo, si sentì onorato che lei lo immaginasse all’altezza del compito. E c’erano davvero molti avvertimenti che poteva dare a suo padre sul matrimonio, come gli aveva spezzato il cuore e aveva fatto di lui un guscio d’uomo che la sera per addormentarsi aveva bisogno di due diversi tipi di pillole. Ma non poteva dire nulla di tutto questo a suo padre, il quale era convinto che il figlio fosse felicemente sposato.

Joanne lo guardava trepidante.

“D’accordo”, disse, “ma dovrò aspettare il momento giusto”.

A quel punto si scusò e uscì fuori, percorse la stradina sul retro che scorreva dietro le case e poi sbucava sulla strada principale. Camminò fino a raggiungere la statua dei quattro patrioti morti. Non se n’era mai accorto prima, ma alcuni di loro avevano un’espressione quasi compiaciuta, anche se era difficile capire di cosa potevano essere compiaciuti. Si stava facendo tardi, la luce del giorno se ne stava andando. Si voltò per tornare indietro. Non aveva le idee più chiare su cosa avrebbe dovuto fare a proposito di suo padre e Agnes. Un venticello fece stormire gli alberi i cui rami verdi e lussureggianti si protendevano sul vialetto costringendolo ad abbassarsi. Gli sembrava che la sera possedesse la giusta combinazione di ombra e solitudine che ci si poteva ragionevolmente aspettare per formulare saggi consigli, o almeno una risposta pratica. Ma non gli venne in mente nulla.

Il vagone si era arrampicato su una salita davanti a una replica del timone del Titanic. Conor guardò giù e vide Reece che salutava con una mano mentre l’altra era appoggiata sulla spalla di suo padre, che sorrideva radioso

Quella sera, nella stanza d’albergo, s’infilarono nel loro unico letto nel modo più distaccato possibile. Quando spensero le luci e rimase solo la tenue illuminazione dei lampioni stradali, Conor lanciò uno sguardo a sua moglie, se lo era ancora. Era distesa sulla schiena e fissava il soffitto. Il suo viso sembrava calmo, rilassato. Era impossibile indovinare a cosa stesse pensando. Nessuno era impenetrabile come Reece. L’apocalisse o un’incrinatura su un barattolo di vetro comprato a una vendita di beneficenza potevano provocare sul suo viso la stessa espressione interdetta ma comunque difficile da interpretare.

“Non devi intrometterti nella vita di tuo padre”, disse Reece. “E neanche Joanne”.

Ebbe la sensazione che lo avesse scoperto a fissarla. “È nostro padre”, disse. “Se non c’intromettiamo noi, chi può farlo?”.

“È un adulto”, disse Reece. “È libero di sposare chi vuole. E comunque non ho ancora capito qual è il problema”.

Prima, quando era tornato dalla sua passeggiata, Joanne aveva passato un’altra mezz’ora a cercare di spiegare il problema. Aveva avanzato, secondo Conor, alcune obiezioni molto valide. Reece era poco convinta. “Una cercatrice d’oro?”, aveva detto ridendo. “Dai Joanne, sul serio?”. E Conor aveva visto il mento di sua sorella sporgere in fuori, come faceva quando era offesa.

“Potrebbe essere la cosa migliore che sia mai capitata a Joanne”, continuò Reece dal letto.

Stava ancora fissando il soffitto. “Potrebbe essere la sua salvezza. È prigioniera della routine, si occupa di tuo padre da anni. Non c’entra nulla con la memoria di tua madre, Conor. È che Joanne non vuole cambiamenti, non vuole Agnes nel suo territorio”.

“Forse Joanne è felice nel suo territorio”, disse lui. “Non ci hai pensato?”.

“Ti sembra felice?”, disse Reece.

In strada qualcuno spaccò una bottiglia sul marciapiede, e un cane lanciò un ululato a metà. “Ma dove andrebbe”, disse lui alla fine. “Cosa farebbe se andasse via? Una donna sola a questo punto della sua vita?”.

“Farò finta di non aver sentito”, disse Reece, girandosi su un fianco dalla parte del muro. Si tirò la trapunta sulle spalle. “Promettimi”, disse senza girarsi.

Sentì anche qualcos’altro, qualcosa che non poté identificare immediatamente, anche se dopo un momento capì. Era gelosia. Era geloso di un padre di ottant’anni e di Agnes Dillon, che doveva averne almeno settantacinque, e che in quel momento si stava asciugando il dito bagnato di saliva sulla gonna a pieghe

“Cosa?”.

“Promettimi che non dirai nulla a tuo padre”.

Chi sei tu per parlare di promesse? pensò Conor. “Te lo prometto”, disse.

Il museo del Titanic era adeguatamente enorme, alto otto piani. Dall’esterno sembrava un iceberg. All’interno, la prima cosa che catturò l’attenzione di Reece fu la stampa incorniciata di una vecchia pagina di giornale. L’articolo era intitolato “Un elenco parziale dei sopravvissuti”. L’umanità ha sempre assecondato la speranza, pensò Conor, indipendentemente dal fatto che avesse senso o no. Quand’è che pubblicarono la lista definitiva dei sopravvissuti? A chi era spettato il compito di decidere quando non c’era più speranza? Pensò ai passeggeri che galleggiavano in quelle acque scure in attesa di essere salvati, e poi pensò ai corpi che erano già distesi sul fondale marino e non aspettavano più nulla.

L’antenato di Reece era affondato con il Titanic, ma nel negozio dei ricordi comprò comunque una copia della pagina. “Pensi che a tuo padre piacerebbe averne una?”, chiese. Sapeva che suo padre a proposito di una cosa simile avrebbe detto che erano soldi buttati. Ma era il suo padre di una volta. In quel momento la sua nuova incarnazione stava esaminando alcuni foulard di seta con Agnes, portandone uno alla cassa nonostante le sue proteste e avvolgendoglielo amorosamente al collo. Erano come una coppia in luna di miele. Joanne aveva ragione, bisognava dirgli qualcosa. Certo, sua madre era morta da molto tempo, era morta nell’anno in cui lui si era laureato. Ma dato che suo padre aveva aspettato tutti quegli anni e né lui né Agnes avevano avuto un disperato bisogno l’uno dell’altra in tutto quel tempo, era forse irragionevole chiedergli perché dovevano fare quel casino, ora che non ne valeva più la pena?

C’era un percorso su binari in cui dei vagoni dai colori vivaci trasportavano i visitatori attraverso un cantiere navale. In ogni vagone c’era posto per due persone. Agnes voleva salirci, ma il padre di Conor no, perché era preoccupato per il suo cuore. “Dov’è Reece?”, chiese, ma lei non si vedeva da nessuna parte. “Allora verrà Conor con te”, disse il padre, e Agnes sorrise e gli porse il braccio.

Mentre lei saliva per prima sul vagone, Conor si accorse che aveva una chiazza di calvizie in cima alla testa, un lembo di pelle rosa circondato da un anello di capelli bianchi, come un monaco medievale. Così da vicino, notò che le calze elastiche davano alle sue gambe una sfumatura arancione. Se la ricordava quando lo sgridava perché correva per strada, da bambino, e l’aria di superiorità che assumeva quando parlava con sua madre dell’Associazione dei residenti. Guardati adesso, avrebbe voluto dirle, non ce l’hai più quella superiorità del cazzo, vero? Ma non lo fece. Non fu la gentilezza a trattenerlo, ma la paura che potesse rispondergli a tono. Era consapevole di non essere invecchiato bene, non era Brad Pitt o George Clooney. E nemmeno Quinoa Dan.

Un assistente abbassò la sbarra di sicurezza e il vagone partì. Era possibile, si chiese Conor, che quella fosse un’opportunità inattesa? La possibilità di parlare un po’ con Agnes mentre Reece era occupata in qualcos’altro? Sarebbe stata una chiacchierata ragionevole. Avrebbe detto a Agnes che era una persona deliziosa, ma che sfortunatamente – “sfortunatamente” era la parola giusta? Forse meglio “purtroppo” – purtroppo non poteva sposare suo padre. Lui glielo avrebbe proibito. Ma “proibito” evocava l’idea di un amore contrastato, come quello di Romeo e Giulietta o Lancillotto e Ginevra, e avrebbe potuto solo incoraggiarla. Doveva pensare a un modo migliore di mettere la cosa.

“Tutto bene, Conor?”, chiese Agnes.

Si rese conto che stava picchiettando con le dita sulla sbarra di sicurezza. “Mio padre è fragile”, disse. “È vecchio”.

“Non lo siamo tutti?”, disse Agnes.

Ora lui e quella donna con i capelli bianchi e un po’ di peli sul viso appartenevano più o meno allo stesso gruppo. Essendo un insegnante delle superiori aveva capito da tempo che non esistono gradazioni significative di vecchiaia

Non gli era piaciuto il modo in cui aveva detto “tutti”, non gli era piaciuto per niente, ma non poteva dissentire. Ora lui e quella donna con i capelli bianchi e un po’ di peli sul viso appartenevano più o meno allo stesso gruppo. Essendo un insegnante delle superiori aveva capito da tempo che non esistono gradazioni significative di vecchiaia.

“Non vorrei che qualcuno ne approfittasse”, disse.

“Qualcuno?”, replicò Agnes.

“Lei”, disse. “Non vorrei che lei se ne approfittasse!”. E poi, dato che lo stava guardando in modo strano. “Non voglio che sposi mio padre”.

“Ah”, disse Agnes, un po’ come a volte faceva Reece. Lei rimase in silenzio e distolse lo sguardo, apparentemente tutta presa dai cancelli originari del cantiere navale Harland e Woolf davanti ai quali si era fermato il vagone. “Non nego che me lo abbia chiesto”, disse lei.

Conor ebbe la stessa sensazione di quando arrivava davanti alla metro e le porte si erano appena chiuse. “Cosa gli ha risposto?”.

“Gli ho detto che dovevo pensarci”.

Conor strinse più forte la sbarra mentre il vagone ripartiva. Cosa c’era da pensare, si chiese. “Mio padre è un brav’uomo”, disse.

Lei annuì. “Un uomo delizioso”.

“Gli spezzerà il cuore”. Gli venne in mente che avrebbe dovuto dire il contrario, ma sapeva che quello che aveva detto era vero.

“Andrò a stare con mia figlia a Canberra. Me lo chiede da tempo e ho pensato: perché no? Mi piacerebbe vedere quella parte del mondo prima di morire, e mi piacerebbe vedere i miei nipotini. Non l’ho ancora detto a tuo padre. Glielo dirò dopo il suo compleanno. Forse non dovrei neanche dirglielo, sai, non è stato bene ultimamente…” e si fermò.

Il vagone si era arrampicato su una salita davanti a una replica del timone del Titanic. Conor guardò giù e vide Reece che salutava con una mano mentre l’altra era appoggiata sulla spalla di suo padre, che sorrideva radioso. Il vagone fece una curva e quando lui guardò di nuovo giù, Reece non c’era più. Suo padre era ancora lì, con la testa leggermente piegata all’indietro sorridente come un bambino.

Quando la corsa finì, mentre scendeva inciampò e gli rimasero i pantaloni impigliati sul bordo di una sbarra. Recuperò l’equilibrio in tempo, ma adesso aveva un pezzo di stoffa che ciondolava davanti alla coscia sinistra, uno strappo perfettamente regolare di diversi centimetri. Si accigliò. Suo padre corse ad aiutare Agnes a scendere dal vagone, e lei smontò con l’aria di un’attricetta degli anni venti. Reece era tornata e prese il braccio di Conor per tirarlo da una parte.

“Hai fatto qualcosa di orribile?”, gli chiese.

“Hai detto qualcosa a Agnes a proposito del suo rapporto con tuo padre?”. Nessuno era mai riuscito a leggergli nella mente come Reece. Quando lui non rispose, lei sospirò. “Spero proprio che tu non abbia detto nulla d’inopportuno, Conor”.

Tirò fuori qualcosa dalla borsa, era un altro ricordo, questa volta una cartolina che riproduceva l’elenco parziale dei sopravvissuti, con uno spazio vuoto nel quale, presumibilmente, andava scritto il nome del destinatario. Conor pensò che fosse di cattivo gusto. Ma Reece ne aveva comprate parecchie, e adesso gliene offrì una. C’era qualcosa di rituale nel modo in cui gliela porse, e lui pensò di aver intravisto un raro tocco di timidezza mentre lo guardava prenderla. Girò la cartolina e vide che lei aveva scritto i loro due nomi. Reece e Conor, solo quello, nello spazio vuoto. Aveva tracciato un cerchio intorno ai nomi. Guardò più da vicino. Forse quel cerchio era un cuore.

Durante il viaggio di ritorno a casa guidò lui, mentre Reece gli era seduta accanto e suo padre e Agnes stavano dietro. Lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore e vide che suo padre era rosso in viso, felice, e continuava a ripetere che bella giornata era stata, com’era ben organizzato il museo. “Dite quello che vi pare sul Titanic”, disse suo padre, “ma era una gran bella nave”. S’interruppe per aggiustare il nuovo foulard di Agnes, che le era scivolato dalla spalla. Agnes era più silenziosa del solito, guardava fuori dal finestrino e per un attimo si sentì solo il cigolio dei tergicristalli che facevano avanti e indietro. Aveva cominciato a piovere appena fuori Belfast, una pioggerella che via via era diventata più intensa.

Conor si scoprì a sperare che alla festa di compleanno suo padre si sarebbe talmente sforzato per spegnere le candeline da dare l’ultimo respiro, morendo felice con il suo amore e la sua ignoranza. Era insopportabile pensare che suo padre, ancora una volta, avrebbe perso l’amore. Dio sa se avrebbe avuto il tempo di trovarlo di nuovo. Avrebbe convinto Joanne ad accendere tutte e ottanta le candeline, decise. Non le avrebbe detto perché. Come se il suo pensiero l’avesse evocata, apparve sul suo telefono un messaggio della sorella. “Sono ancora in chiesa. Ci sono dei sandwich al pollo in frigo”. Cosa avrebbe fatto Joanne, si chiese, adesso che la cosa che doveva salvarla dopotutto non sarebbe successa?

Si stavano di nuovo avvicinando al memoriale. Erano quasi arrivati a casa. Tolse il piede dall’acceleratore, lasciò che l’auto rallentasse, ma non si fermò. Voleva disperatamente tenere suo padre lì sul sedile il più a lungo possibile, per proteggerlo in quello spazio in cui non si poteva dire nulla di triste finché non fossero arrivati. Se avesse potuto, avrebbe continuato a guidare per sempre, se quello avesse potuto salvare suo padre da qualsiasi cosa. Reece gli mise una mano sulla gamba, appoggiò le dita sulla pelle nuda nel punto in cui la stoffa si era strappata. Erano arrivati al monumento e questa volta tenne il finestrino chiuso. Non aveva nessuna intenzione di invitare a salire quei morti con il loro coraggio e le loro mascelle serrate. I tergicristalli andavano avanti e indietro facendo schizzare via dal parabrezza l’acqua e, per quanto ne sapeva, gli atomi invisibili di quei patrioti morti. Quando ci passarono davanti, fece un breve cenno di saluto con il capo alle quattro teste di marmo, uomini fortunati, pensò Conor, ai quali era stato chiesto solo di mettersi alla prova in guerra, non gli era mai stato chiesto di dar prova di sé in quella faccenda molto più spaventosa che era l’amore. ◆

Danielle McLaughlin è autrice della raccolta di racconti Dinosaurs on other planets (2015) e del romanzo The art of falling (2021). Tra i suoi riconoscimenti il Windham-Campbell prize e il Sunday Times short story award. Il titolo originale di questo racconto è A partial list of the saved . È uscito su Being various , un’antologia di racconti irlandesi a cura di Lucy Caldwell e pubblicata da Faber. La traduzione è di Bruna Tortorella.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati