È luglio in Inghilterra, sono a una festa in giardino e parlo con un’avvocata che ha due figli poco più che ventenni. Il maggiore vive in Scozia, mentre l’altro, un ombroso studente universitario, è tornato a casa per un mese, a prendersela con tutti. “E invece lei”, mi chiede, “ha figli?”.
“No, no”, rispondo. “Almeno non ancora. Ma non sono single”.
Dice che le fa molto piacere.
“Il mio fidanzato mercoledì compie ventun anni”, proseguo, “e devo proprio darle ragione, a quell’età i maschi sono lunatici. Che poi, sinceramente, cosa avranno da arrabbiarsi tanto?”.
È diventata un’abitudine, dire cose fuorvianti su Hugh. Mi diverte vedere come l’interlocutore scala di marcia mentre corregge il suo giudizio su di me. A volte dico che Hugh è cieco dalla nascita, o che è un pezzo grosso del movimento antiabortista, ma il massimo è quando ha quarant’anni meno di me.
“Be’… buon per lei”, mi rispondono, pensando – ne sono certo – “Povero ragazzo!”. Perché una differenza del genere è inquietante, da vampiri.
“Per i fidanzati più giovani c’è una formula”, mi ha detto una volta Aaron, un amico di Seattle. “Devi prendere la tua età”, ha spiegato, “dividerla per due e aggiungere sette”. All’epoca avevo cinquantanove anni, per cui il fidanzato più giovane che potessi permettermi non doveva averne meno di trentasei e mezzo. Non è una differenza sconvolgente, ma – per quanto la cosa possa sembrare seducente – una persona sotto i quaranta difficilmente saprebbe chi era George Raft, o che odore avevano gli hippy. Poco a poco le piccole differenze non si accumulerebbero, fino a farti sentire più vecchio di quel che sei?
È vero, Hugh è più giovane di me, ma di appena tre anni. Però pensavo che ai sessanta non ci sarebbe arrivato. Per me esserci già arrivato – essere ufficialmente vecchio, sul lato giovane della vecchiaia ma vecchio – non era affatto divertente. Dai Hugh, pensavo, sbrigati. Il suo compleanno è a gennaio, il che fa di lui un Acquario. Per me non ha alcun significato, anche se mia sorella tenta con tutta se stessa di farmi cambiare idea. Il suo astrologo aveva previsto la vittoria di Joe Biden alle presidenziali del 2020, e quando poi le ha vinte davvero lei me l’ha presentata come la prova degli straordinari poteri di Rakesh, che quindi meritava non solo il mio rispetto, ma i miei soldi.
“Devi almeno prendere appuntamento e parlarci”, mi ha detto.
“No che non devo”, ho risposto. “L’aveva previsto anche quello della tintoria. Come tanti altri”.
Io sono Capricorno, e secondo l’astrologa Lisa Stardust i segni con cui ho meno affinità di coppia sono l’Ariete e il Leone. I migliori sono Cancro, Scorpione e Pesci.
Non ho verificato con quali segni astrologici debba evitare di uscire Hugh, anche perché è irrilevante. Poco dopo che ha compiuto sessantun anni, abbiamo festeggiato il nostro trentesimo anniversario. Arriveremo a trentacinque? A cinquanta? In ogni caso, devo davvero farmelo dire da Rakesh?
Mia madre cominciò a interessarsi all’astrologia negli anni ottanta. Non era ossessionata, si limitava a leggere l’oroscopo del News & Observer di Raleigh. “Il 17 vi aspetta un miglioramento sul fronte economico”, mi diceva al telefono al mattino presto, se la previsione era ottimista e pensava potesse rischiararmi la giornata. “Ti arriveranno un bel po’ di soldi, ma con un piccolo intoppo”.
“Oh, no!”, esclamavo. “Stai morendo?”. A me sembravano scemenze, ma immancabilmente in un angolino del cervello mi si accendeva una lucina. Doveva essere la speranza: la mia vita stava per cambiare, e in meglio! Il 17 arrivava e passava, e io, anche se ero deluso, mi sentivo anche vendicato: “Te l’avevo detto che non sarei mai stato felice”.
Non si era mai fatta fare la carta astrale, mia madre, ma aveva diversificato cominciando a leggere gli oroscopi di Redbook e di Ladies’ Home Journal, una rivista che a casa nostra arrivava da che ho memoria. L’unica rubrica che m’interessava, l’unica che leggessi con regolarità, s’intitolava Matrimoni in bilico.
Ciò che sapevo allora sulle relazioni stabili sarebbe entrato per intero in un guscio di una ghianda. Ero convinto che, perché la coppia durasse, tu e tua moglie, tu e il tuo fidanzato o altro avreste dovuto avere qualche interesse in comune. Anche niente di profondo, bastava una passione per il campeggio, per il découpage o i bidoni del latte vintage. La sorpresa è che a volte basta una comune avversione per le luci a soffitto o per la tv accesa prima delle undici di sera. A te piace essere ordinato e puntuale, all’altro pure, e in un attimo sono passati trent’anni e la gente ti chiede di dispensare la tua grande saggezza. “Innanzitutto”, dico, “non bisogna mai, per nessun motivo, ficcare il naso nei meccanismi di coppia. Porta solo guai”. Lo psicologo di coppia, aggiungo in tono da psicologo, è il primo passo verso il divorzio.
Da qualche tempo quella rubrica del Ladies’ Home Journal mi torna in mente spesso, e mi chiedo se negli anni settanta e ottanta i problemi di coppia fossero più semplici. Lei beve. Lui si è fatto la cognata. Lei ha le mani bucate ed è razzista, lui è ossessionato dal controllo, eccetera.
Una coppia non litigava sulle opzioni della prole in fatto d’identità sessuale; mariti e mogli non si facevano inghiottire da QAnon né si univano a gruppi paramilitari. C’erano le teorie del complotto, certo, ma prima che esistesse internet era più difficile sprofondarci. Uno dei coniugi poteva avere una dipendenza dal Valium, ma non dai videogiochi o dalle scommesse online. Tecnicamente non so se si possa essere dipendenti dalla pornografia, ma in un matrimonio il suo peso ce l’ha, soprattutto ora che è a portata di polpastrello e non guardarla è praticamente impossibile.
Ultimamente mi capita di vedere diversi film e serie tv in cui i matrimoni si sgretolano senza cause apparenti. Guardando Ted Lasso ho detto a Hugh: “Mi sono perso l’episodio in cui uno dei due tradiva?”. Lo stesso con Storia di un matrimonio di Noah Baumbach: “Ma perché divorziano?”.
Non è che chi si sente vagamente insoddisfatto nella coppia ha semplicemente troppo tempo libero? Uno decide che deve scoprire il suo vero sé, la sua indipendenza, ed è un attimo che si ritrova a fare reiki o dall’iridologo. Quest’ultimo, ho scoperto, è uno che ti fissa intensamente negli occhi e vede gli organi interni. Mia sorella Amy ci è andata, e lui le ha detto che aveva qualcosa impigliato nel colon.
Lei ha riferito la diagnosi all’agopuntore, secondo il quale, invece, ciò che l’iridologo le aveva visto negli occhi era un trauma.
“Un trauma?”, ha detto Amy.
E lui: “Si ricorda che il mese scorso mi ha detto di aver visto in cucina un topo e una blatta nello stesso giorno?”.
“Sì”.
“Ecco il trauma”.
Mia sorella è single, ed è un bene, perché ha troppo tempo libero. Ecco il motivo principale, secondo me, per cui tante coppie non ce la fanno. Troppo tempo libero e troppo insieme. Io in genere passo dai quattro ai sei mesi all’anno lontano da Hugh, e quando la pandemia ha cancellato i tour che avevo in programma mi ha preso il panico. Siccome eravamo a New York, mi sono rivolto alla sua vecchia amica Carol. “Lui com’è davvero?”, le ho chiesto. “Una volta lo sapevo, mi pare, ma sono passati venticinque anni”.
Intrappolato con lui per vari mesi, ho scoperto che Hugh, un pittore, legge un sacco. Tipo ogni singola pagina del New York Times, del Washington Post e della New York Review of Books. Curiosamente, però, non sembra trattenere molto. Quando avevamo ospiti a cena e si finiva a parlare di politica, Hugh, che avrebbe tranquillamente potuto esprimere, che so, un parere informato sulla proposta di Trump di uscire dall’Organizzazione mondiale della sanità, diceva: “Secondo me bisogna radunarli tutti e abbatterli”.
“Tutti chi?”, gli chiedevo, pur conoscendo la risposta.
“Tutti i fessi secondo cui dovremmo uscire”.
Per la sua famiglia quello è l’insulto più infamante: fesso. “Be’, non succederà”, gli rispondevo. “Non è una soluzione praticabile”.
“Per i fidanzati più giovani c’è una formula”, mi ha detto una volta Aaron, un amico di Seattle. “Devi prendere la tua età”, ha spiegato, “dividerla per due e aggiungere sette”
“Allora non ne voglio parlare”.
Quando non legge e non cucina, Hugh va nel suo studio a guardare dalla finestra, immagino strafatto di esalazioni di pittura. Non conosco nessuno che sappia star fermo quanto lui. Muove solo gli occhi, che fanno avanti e indietro come quelli degli orologi di plastica a forma di gatto con la coda-pendolo. Quando è lì non ascolta musica né la radio. Una volta ho messo un disco di Eudora Welty che leggeva i suoi racconti; Hugh ha detto che gli piacevano, ma dopo L’uomo pietrificato non ha più voluto ascoltarne. Gli piace starsene solo con i suoi pensieri, mentre io non riesco a immaginare nulla di peggio.
Quando non legge e non cucina e non guarda il nulla dalla finestra, Hugh studia il piano. Aveva cominciato a prendere lezioni su un pianoforte verticale a dieci anni, mentre viveva in Etiopia, ma il padre non sopportava di sentirlo studiare. Non che fosse particolarmente inetto, ma il rumore, di qualsiasi tipo, dava fastidio a suo padre, uno scrittore che di giorno lavorava come diplomatico. Poi la famiglia si trasferì in Somalia, dove i pianoforti scarseggiavano, figuriamoci gli insegnanti, e il padre scrisse un altro libro.
Dopo una pausa di cinquant’anni, Hugh ha ripreso le lezioni, stavolta su un pianoforte a mezza coda regalato da un amico, e anche se ci s’impegna molto a me sembra sempre che abbia cominciato da una settimana. “Non riesco a suonare con te nella stanza”, mi ha detto. “Mi sento giudicato”.
Dopodiché ha deciso che non riusciva a suonare con me in casa.
E quindi abbiamo comprato l’appartamento al piano di sopra.
“Perché tu abbia un posto dove andare quando lui suona il piano?”, mi ha chiesto Amy, che ha comprato l’appartamento di sopra per sfuggire al suo coniglio.
“Esatto”.
“In effetti”.
Ora sono sempre lassù. Tra i due appartamenti non c’è una scala interna, e quando ci sono novità Hugh mi manda un’email. “A tavola”. “C’è qui il custode per riparare l’anta del tuo armadio”. Cose così. Abbiamo firmato il rogito mentre a New York iniziava il lockdown, e nel nostro palazzo le consegne di mobili erano vietate. Per fortuna il precedente proprietario ha accettato di lasciarci un divano e un letto. Per strada ho recuperato qualche sedia, un tavolo pieghevole e un secchio da capovolgere e usare come poggiapiedi. Per mesi è sembrato il nascondiglio di un dodicenne. Il che non ci ha impedito di passarci del tempo. Di sopra, Hugh può fare tutto quello che fa sotto, tranne suonare il piano. Abbiamo ribattezzato il secondo appartamento “Luigi”. “Stasera si cena al diciannovesimo o su da Luigi?”.
Luigi, abbiamo deciso, è per le cene informali.
A un certo punto abbiamo spostato di sopra la camera da letto. Dopo trent’anni insieme, dormire è il nuovo fare sesso. “Non è stato bellissimo?”, dice uno dei due svegliandosi al mattino.
“Ti ho tenuto abbracciato”.
“No, io ti ho tenuto abbracciato”.
“Sembra che il sonno l’abbiate inventato voi”, direbbe mia madre.
Ma non è un po’ così? Io e Hugh proviamo nuove posizioni (“Mi hai sbavato sul polpaccio!”). Facciamo sveltine (pennichelle). Tre volte alla settimana cambio le lenzuola perché sembri sempre il letto di un bell’albergo. Sistemiamo il piumone come le coppie nelle pubblicità dei detersivi: “Che profumo di fresco!”.
Per il trentesimo anniversario si dovrebbero regalare perle, ma io, più o meno per la stessa cifra, sono andato da Porthault in Park avenue e gli ho preso una parure di lenzuola. Sul loro sito, nella sezione “Cura del tessuto”, si leggono frasi come “Evitate di caricare troppo l’asciugatrice: le lenzuola devono poter danzare”.
Come abbiamo fatto, mi chiedo, a diventare così?
Dice Hugh che se mai volessimo dormire separati sarebbe finita, almeno per lui. So che per molte coppie funziona, gli va bene anche dormire nella stanza accanto, ma io non lo sopporterei. “È la cosa che mi mancherà quando morirai”, gli dico spegnendo la luce, riferendomi – credo – alla sensazione di essere morti in coppia.
Hugh per me resta un mistero, ma la cosa non è reciproca. “Scusa”, mi capita spesso di dirgli.
E lui: “Perdonato”.
“Di cosa mi stavo scusando?”, chiedo.
“Di aver detto al portiere che mia madre somiglia a Hal Holbrook”, mi risponde, o: “Di avermi augurato il covid per poterne scrivere”.
E ci azzecca sempre! Non era il caso di dirgli che una volta vaccinati tutti e riaperti i teatri non mi rivedrà mai più. “Ho chiesto al mio agente di riempirmi tutta l’agenda. Farò trecentosessantacinque sere di fila, una di riposo e poi di nuovo da capo”, gli ho detto. “Voglio recuperare il tempo perso, con gli interessi”.
Hugh mi accusa di essere avido, ma magari fosse così semplice. Io, a dire il vero, bramo le attenzioni.
“E io?”, mi chiede. “Le mie attenzioni non contano?”.
Gli rispondo che lui non fa testo, anche se ovviamente è una delle pochissime persone – con le mie sorelle, i miei cugini e un paio di vecchi amici – che nella mia vita contano. È che non ho bisogno di avercelo accanto in ogni istante della giornata. A volte mi basta appoggiare l’orecchio sul pavimento del salotto al piano di sopra, e sentirlo lontano mentre si esercita al pianoforte, fissando imbronciato i tasti, immagino, e lo spartito che ha davanti, di nuovo bambino. Decisissimo a non sbagliare. ◆ mc
David Sedaris
è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Calypso (Mondadori 2019). Questo racconto è uscito sul New Yorker con il titolo Pearls.
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati