Editoriali

Accordo insensato con l’Egitto

Il 17 marzo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è arrivata in Egitto insieme ai capi di governo dell’Italia, della Grecia e dell’Austria, portando in valigia un programma di aiuti da 7,5 miliardi di euro che dovrebbe permettere al paese nordafricano di limitare il flusso di migranti verso l’Europa e stabilizzare la sua economia. L’iniziativa ha suscitato una vasta eco non tanto per la somma promessa, visto che qualcun altro si era già presentato con molti più soldi: gli Emirati Arabi Uniti avevano assicurato alla banca centrale egiziana 35 miliardi di dollari in cambio del permesso di costruire un grande resort turistico sulle coste del mar Mediterraneo; e poi il Fondo monetario internazionale aveva portato a otto miliardi di dollari i crediti concessi al Cairo.

I soldi arrivati da Bruxelles sono poco più di una piccola aggiunta. Studiando il pacchetto, inoltre, si nota che l’accordo è spalmato negli anni e che contiene tutto il possibile, dagli impianti per il trattamento delle acque reflue ai cavi sottomarini. Che questi aiuti siano stati etichettati come accordo sulle migrazioni chiarisce quali siano gli obiettivi di politica interna dei capi di governo d’Italia e Grecia, dove arriva un numero crescente di migranti. L’Egitto non è solo parte della rotta che comincia in Africa occidentale e arriva prima in Libia e poi in Europa, ma è anche la terra d’origine di molti migranti. L’accordo concluso con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi è simile a quelli già firmati con altri leader autoritari chiamati a frenare le migrazioni. Patti simili possono anche essere comprensibili, visto che riflettono le posizioni dell’opinione pubblica in molti paesi. Un’altra questione è capire se abbiano senso. L’Europa ha una lunga tradizione di accordi che sostengono governi autoritari da cui fuggono molti cittadini. L’esempio migliore è il Niger, che ha ricevuto centinaia di milioni di euro per chiudere la rotta attraverso il deserto. Di questi soldi ha approfittato una piccola élite, non la popolazione, motivo per cui molti hanno festeggiato il colpo di stato del 2023. Ora i confini del paese sono di nuovo aperti, e milioni di euro sono stati gettati nella sabbia. ◆ al

I cubani tornano in piazza

Il 17 marzo a Cuba si sono svolte le proteste più partecipate dalla mobilitazione del luglio 2021. La grande manifestazione contro i tagli dell’energia elettrica e la carenza di generi alimentari è partita da Santiago, la seconda città dell’isola, estendendosi in poche ore ad altre province. La contestazione, che si è conclusa con arresti e vari episodi di violenza della polizia, è scemata rapidamente, ma il governo ha comunque inviato carichi di riso e latte per placare il malcontento.

Il problema è strutturale. I cubani, soffocati dall’inflazione e dai tagli, subiscono le conseguenze di una crisi che ha provocato il maggior esodo della storia del paese. Le autorità sono consapevoli dell’emergenza, ma danno la colpa alle ingerenze degli esuli. Questa reazione, tipica del regime, ha l’obiettivo di distogliere l’attenzione dalla questione di fondo, cioè la necessità di trovare una via d’uscita alla crisi. È innegabile che l’embargo imposto dagli Stati Uniti incida pesantemente da decenni sui cubani, ma allo stesso tempo le politiche dell’Avana hanno fallito ripetutamente a causa dell’incapacità del governo di accettare una vera apertura. L’ultimo grande progetto, la cosiddetta Tarea ordenamiento (Svolta normativa) del 2021, aveva promesso alla popolazione miglioramenti sostanziali con la fine della doppia moneta, ma alla fine ha provocato solo l’aumento dei prezzi. L’emergenza si manifesta nella carenza dei generi alimentari, nello smantellamento di settori essenziali come la produzione di zucchero, nei tagli alla spesa pubblica e in un deficit di bilancio aumentato del 18,5 per cento rispetto al 2014. A questo si aggiungono la repressione del dissenso e le tensioni all’interno dell’apparato di governo, emerse all’inizio di febbraio con la destituzione del ministro dell’economia Alejandro Gil Fernández. Il presidente Miguel Díaz-Canel ha annunciato che l’ex ministro è indagato per corruzione. Molti hanno visto in questa manovra un tentativo di scaricare le colpe su di lui. Ma il presidente ha il compito di trovare una soluzione. Il primo passo è ascoltare le richieste della popolazione. ◆ as

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1555 - 22 marzo 2024
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