Qualche tempo fa, mentre ero seduta alla scrivania, un pitone reticolato lungo più di tre metri è caduto proprio davanti alla mia finestra. L’ho visto sporgersi dalla grondaia nel tentativo di raggiungere una magnolia champaca poco lontana. Si è allungato troppo ed è scivolato dal tetto, capitombolando senza eleganza sui rami più bassi dell’albero. Un paio di scoiattoli ardimentosi hanno squittito dal vicino albero di mango e un codaventaglio si è inutilmente lanciato in picchiata sul serpente mentre raccoglieva le spire intorno al tronco dell’albero. Indifferente, il pitone si è riposato un attimo e poi è strisciato lentamente, silenziosamente, nel mio giardino.
Casa mia si trova al centro di Bangkok, una città costruita su una acquitrinosa pianura alluvionale. Decenni di rapido sviluppo – tonnellate di cemento e innumerevoli grattacieli – non sono riusciti a dissipare l’aria e l’ombra della palude su cui sorge la città, e il suo simbolo migliore è la persistente, primordiale presenza del pitone. Il servizio comunale dei vigili del fuoco viene chiamato più spesso per i serpenti che per gli incendi; ogni anno nella capitale se ne catturano decine di migliaia, e migliaia sono pitoni reticolati (Malayopython reticulatus), il serpente più grande del mondo. Muovendosi nelle fogne della città, questo vigoroso predatore si nutre di topi, ratti, rane, uccelli e gatti randagi e domestici, e popola la città in numeri molto più alti di quanto chiunque si curi di immaginare.
Abito nel centro di Bangkok e ho un atteggiamento “vivi e lascia vivere” nei confronti dell’onnipresente fauna selvatica, dagli enormi varani che dilagano nei pochi parchi e nei canali in disuso della città al chiassoso koel che emette un verso di accoppiamento capace di sfondare i timpani alle tre del mattino e sembrerebbe più di casa nel folto di una foresta pluviale. E non era il primo pitone a farmi visita in giardino; che io sappia ce ne sono stati tre, ma sicuramente molti altri lo hanno attraversato senza che me ne accorgessi. Ho sempre preferito lasciare in pace questi visitatori prevalentemente notturni e farli andare per la loro strada. Come ama ripetere un mio amico tailandese, “dopotutto loro erano qui da prima”.
Questo particolare pitone è caduto nel mio giardino in una bella mattina di sole, quando mi trovavo a casa da sola per qualche giorno, così ho chiuso dentro i nostri due gatti e un vecchio cane (mi erano tornati in mente dei documentari guardati distrattamente, dove i pitoni della giungla divoravano un cervo intero), e sono andata a una riunione, sperando che per il mio ritorno il serpente si sarebbe dileguato.
Più di un secolo fa, un giovane medico inglese di nome Malcolm Smith venne a Bangkok per collaborare con uno studio privato. Dopo qualche anno, fu invitato a lavorare alla corte interna del palazzo reale, dove vivevano in isolamento le mogli, le concubine e i figli del re del Siam (come era chiamata allora la Thailandia). Era un’occasione rara per un uomo e per uno straniero, perché l’accesso alla corte interna non era consentito a nessuno tranne che al personale femminile e al re in persona. Nel 1947, Smith pubblicò A physician at the court of Siam (Un medico alla corte del Siam), un resoconto affascinante della sua esperienza. Qualche decennio prima, la corte reale del Siam era stata resa famosa dall’autobiografia di Anna Leonowens, assunta per insegnare l’inglese ai suoi giovani componenti. Negli anni cinquanta il libro fu ripreso prima dal musical di Broadway Il re ed io poi dal film omonimo. Il testo di Smith è più affidabile del racconto a volte iperbolico di Leonowens, ma è altrettanto avvincente.
Quando Smith viveva a Bangkok, la corte interna ospitava la famiglia del re Chulalongkorn, che aveva più di novanta consorti e 77 figli. Smith descrive la corte interna come un mondo dentro un mondo, con “un suo governo, sue istituzioni, sue leggi e tribunali”, da cui nessuno poteva uscire senza un permesso speciale. Dopo la morte del re nel 1910, scrive Smith, le mogli anziane furono autorizzate a tornare dalle loro famiglie, ma le concubine dovettero restare fino alla loro morte; fuori dal palazzo, le donne erano note come nang ham, donne proibite. Cinque anni più tardi, quando gli venne chiesto di vaccinare chi era rimasto nell’harem del defunto re, Smith trovò circa 25 consorti, “ancora giovani per gli standard europei”, che vivevano con le stesse limitazioni imposte quando il re era vivo: “La vita per loro era un’esistenza monotona. Il domani sarebbe stato uguale a ieri e a tutti gli altri ieri, che si estendevano nel passato come una scia di fantasmi”.
A physician at the court of Siam è un libretto senza pretese, ma Smith scrive con un’empatia che si riscontra raramente nello sguardo di un maschio bianco sulla Thailandia. La sua prospettiva precisa e scientifica sconfina spesso nella poesia e la sua sensibilità per la condizione umana supera la profonda voragine culturale tra un medico moderno, educato in occidente, e donne immerse negli antichi e complicati cerimoniali reali, che fino a poco tempo prima erano state curate solo da sacerdoti bramini con decotti di erbe. Il libro è diviso in sette capitoli strutturati intorno alla principale consorte di re Chulalongkorn, la regina Saowapha. Smith narra la cronaca della dinastia nel corso della vita della regina (1863-1919), quando una successione di re – suo padre, suo marito e poi i suoi figli – aprirono il paese al commercio e all’influenza occidentali. L’empatia di Smith emerge con particolare intensità nel capitolo sugli anni dopo la morte del re, quando Saowapha lasciò per sempre i confini della corte interna.
Diventata vedova, la regina si trasferì in un palazzo tutto suo dove, con un piccolo esercito di servitori, conduceva un’esistenza notturna, svegliandosi ben di rado prima del tramonto e andando a dormire dopo l’alba. Chiedeva la presenza di Smith quasi ogni notte, a prescindere dalle sue condizioni di salute. Anche se a volte era chiamato dopo aver lavorato tutto il giorno, Smith descrive con affetto le loro conversazioni: i discorsi di Saowapha sulle vecchie usanze del palazzo, la sua curiosità per l’Europa (soprattutto i paesi dove ancora esistevano famiglie reali), i suoi racconti sui miti e le leggende di cui si era nutrita. Una notte la trovò in lacrime che si lamentava di aver avuto pochi visitatori. Lui si sedette sul pavimento accanto al letto e la lasciò parlare: “Lei si asciugò le lacrime e si soffiò il naso, e alla musica della propria voce i suoi problemi svanirono”.
Quando sono tornata a casa era già sceso il crepuscolo. Ho infilato un bastone nel groviglio di rampicanti alla base della magnolia champaca dove avevo visto il serpente l’ultima volta e, confidando che non fosse più lì, ho lasciato uscire i gatti e il cane. Poco dopo ho sentito un sibilo insistente che proveniva dal giardino e ho trovato uno dei gatti che fissava minacciosamente i cespugli addossati al muro posteriore. Con una torcia è stato facile scovare il pitone. Strisciava con disinvoltura avanti e indietro alla base del muro, e apparentemente aspettava che me ne andassi per poter fare un tentativo con il gatto. Mi è tornata alla mente una cosa che aveva scritto Malcolm Smith. Oltre a lavorare come medico, Smith era un appassionato erpetologo. Fondò la Società di storia naturale del Siam (e, al suo ritorno nel Regno Unito, la Società erpetologica britannica). In Thailandia organizzò una rete di abitanti del posto che catturavano esemplari selvatici e allevava serpenti a casa sua per studiarne il comportamento e la dieta. Scoprì quattro nuove specie di serpenti nella regione, tutte battezzate in suo onore e, come socio onorario del museo di storia naturale di Londra, compilò tre volumi sui rettili per la grande serie The fauna of british India, including Ceylon and Burma. Le parole che mi sono tornate in mente mentre guardavo il pitone affamato nel mio giardino erano: “Ci sono molti modi di affrontare grandi serpenti, ma il seguente metodo è semplice quanto gli altri”.
La frase veniva da un articolo che Smith aveva scritto per la rivista della Società di storia naturale del Siam intitolato Un pitone di Bangkok, in cui affermava di aver catturato uno o due pitoni all’anno nel suo giardino. Nell’articolo raccontava il metodo che aveva messo a punto, che consisteva nell’avvolgersi varie volte un asciugamano intorno a una mano, spingerla sul muso del serpente e poi, quando lui mordeva l’asciugamano e prima che potesse liberare le fauci per un altro morso, afferrarlo per il collo. Smith osservava con nonchalance che anche se la forza costrittiva di un pitone di circa quattro metri non è poi così grande, “è sempre meglio avere qualcuno a portata di mano per afferrare la coda e srotolarla qualora si attorcigliasse intorno al collo”.
Ci ho pensato per un paio di secondi, poi ho tirato fuori il cellulare per chiamare i vigili del fuoco. Nel giro di mezz’ora, tre pompieri in tuta fluorescente arancione erano nel mio giardino. Ci hanno messo meno di dieci minuti a catturare il serpente (con un apposito uncino). Lo hanno chiuso in un sacco di tela cerata e lo hanno lanciato senza tante cerimonie nel retro del loro pickup. Anche se molti abitanti di Bangkok credono che i pitoni catturati siano consegnati ai mercanti di pelle di serpente, i vigili insistono che sono lasciati liberi in natura. “Questo è destinato a una vacanza a Khao Yai”, mi ha detto un vigile quella notte alludendo a un parco nazionale non lontano da Bangkok.
Smith catturò il suo ultimo pitone di Bangkok nell’aprile 1920, poco più di un secolo fa. Stava tornando a casa in macchina dopo cena quando lo avvistò. Non avendo a disposizione un asciugamano, gli gettò addosso il suo cappotto restandogli seduto sopra finché riuscì a localizzare la testa. Il suo rientro in patria era fissato per due giorni dopo, perciò lo portò con sé. Si trattava – come nel caso del mio pitone – di un esemplare di più di tre metri e di circa due anni, che a un esame ulteriore risultò essere una femmina. Smith la donò alla Società zoologica di Londra, dove raggiunse i 19 anni di età crescendo fino a raddoppiare le sue dimensioni e riproducendosi tre volte. È molto probabile che i suoi discendenti vivano ancora in cattività nello zoo di Londra. ◆ gc
Emma Larkin è lo pseudonimo di una giornalista statunitense nata e cresciuta in Asia. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Sulle tracce di George Orwell in Birmania (Add Editore 2018). Questo articolo è uscito sulla Literary Review con il titolo A Bangkok python.
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 124. Compra questo numero | Abbonati