I l ministro dell’informazione somalo Osman Dubbe ha reso noto il 6 ottobre che, in base a un accordo con l’Italia, dopo trent’anni torneranno sull’emittente nazionale Radio Muqdisho (Radio Mogadiscio) i programmi in italiano. Per molti è stata una sorpresa, ma in realtà Roma ha svolto un ruolo importante nel processo di costruzione dello stato somalo dopo la guerra civile e recentemente ha intensificato la sua azione diplomatica con iniziative umanitarie, borse di studio, incentivi al commercio e, ultimamente, promuovendo la sua lingua. A metà settembre è stato firmato un accordo per l’avvio di corsi d’italiano all’Università nazionale somala. Quest’estate l’Italia ha contribuito con un fondo di due milioni di dollari al Programma per lo sviluppo dei settori produttivi della Somalia (Psdp), che ha l’obiettivo di promuovere il buongoverno e creare posti di lavoro nel paese africano.
Nel 2014 è stata riaperta l’ambasciata italiana a Mogadiscio e da allora i funzionari inviati da Roma incontrano con una certa regolarità le controparti somale. Alla fine del 2020 i due paesi hanno firmato un memorandum di cooperazione. Due anni prima, nel corso di una visita in Italia, il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo, aveva definito “storici” i legami tra i due paesi. All’inizio della pandemia la Somalia ha inviato una squadra di medici per aiutare l’Italia nella lotta contro il covid-19. Nonostante queste iniziative, l’eredità coloniale e il ruolo svolto dall’Italia nel crollo dello stato somalo hanno raffreddato gli entusiasmi.
Voce dell’ indipendenza
La Somalia italiana fu, insieme alla Libia e all’Eritrea, tra i pochi possedimenti coloniali italiani, perciò la lingua italiana era comune nel Corno d’Africa. Nel 1951, l’anno della sua fondazione, Radio Muqdisho trasmetteva in somalo e in italiano. Nonostante la storia controversa delle sue origini, essendo la prima, e per molti anni l’unica, emittente nazionale, Radio Muqdisho diventò comunque un’istituzione molto presente nella vita della Somalia indipendente, grazie alle sue trasmissioni regolari e alla ricca programmazione. “Ha un posto importante nella memoria culturale e in quella coloniale del paese”, afferma lo storico somalo Mohamed Haji Ingiriis.
Radio Muqdisho, che ha sempre subìto il controllo del governo, era per molti la principale fonte di notizie. Intorno agli anni cinquanta le persone si riunivano nei bar e nelle case per ascoltare i tre notiziari quotidiani e avere aggiornamenti sugli affari mondiali e regionali. Fu anche una fucina di talenti: da lì uscirono alcuni dei più importanti giornalisti, poeti, cantanti e produttori del paese.
Il primo cambiamento arrivò negli anni sessanta, dopo l’indipendenza: la radio cominciò a trasmettere canzoni e poesie in somalo dai toni nazionalisti, che mettevano in discussione i confini della neonata repubblica di Somalia. E dal momento che la radio era molto vicina al ministero dell’informazione, il Kenya protestò contro questi programmi incendiari, accusando Mogadiscio di aver istigato i disordini in una parte del paese abitata in maggioranza da somali durante la visita a Nairobi del ministro degli esteri somalo nel 1963. Il giorno dopo, in segno di sfida, la radio mandò in onda un brano ancora più provocatorio: “Oh somali, i nostri problemi non sono risolti. Non vinceremo se non andando in guerra”.
“Si è persa l’occasione per esplorare l’eredità del colonialismo in modo più costruttivo”
In seguito i toni si smorzarono e questi contenuti furono sostituiti da canzoni e poesie d’amore fino al colpo di stato del 1969, con cui s’instaurò il regime militare di stampo socialista di Siad Barre. Il palazzo della radio fu uno dei primi occupati dai golpisti. In breve tempo l’emittente cominciò a trasmettere musica marziale e lodi al valore del soldato somalo “che rifiuta le genealogie (il potere dei clan), e non conosce nepotismo”.
Sotto Barre, Radio Muqdisho assunse una posizione apertamente rivoluzionaria e anticolonialista, con un mix di programmazione e musica socialista e nazionalista somala. Quando non celebrava la rivoluzione del 1969, la radio mandava in onda dibattiti, programmi per bambini, concorsi musicali e commenti al Corano. Fu in quel periodo, spiega Ingiriis, che l’uso dell’italiano, alla radio e più in generale nella società, cominciò a declinare. “Dopo l’adozione del somalo come lingua nazionale nel 1972, la lingua italiana perse influenza”, racconta Ingiriis, “ma conservò uno spazio all’Università nazionale somala e su Radio Muqdisho”. I programmi in italiano si ridussero a 45 minuti al giorno e furono affiancati da servizi in altre lingue. Nel momento di massima diffusione, negli anni settanta e ottanta la radio trasmetteva in tutto il Corno d’Africa e nel Medio Oriente in arabo, amarico, oromo, swahili, oltre che in somalo e in italiano.
Quando lo stato somalo implose all’inizio degli anni novanta e i somali scapparono in paesi dove si parlava arabo o inglese, l’inglese – che si stava affermando come lingua franca globale – soppiantò l’italiano. Per un periodo la radio fu controllata dal famigerato generale Mohammed Farah Hassan, detto Aidid, che la usò per diffondere la sua propaganda. Poi chiuse i battenti.
Radio Muqdisho ha riaperto all’inizio degli anni duemila su iniziativa del governo di transizione di Abdiqasim Salad Hassan. Anche se oggi deve vedersela con un’agguerrita concorrenza, cerca di restare al passo con i tempi, attraverso il sito web e la presenza sui social network, dove pubblica notizie in inglese, somalo e arabo (la seconda lingua ufficiale).
Timori e ostilità
La decisione di far ripartire le trasmissioni in italiano ha suscitato in alcuni somali timori che derivano dal passato coloniale, ed è stata accolta con ostilità. L’ex ministro Abdirashid Hashi ha fatto notare che “da quei tempi sono cambiate molte cose, non ultima la nostra indipendenza”. Hodan Ali, un importante attivista e operatore sanitario somalo, ha dichiarato che “dal colonialismo italiano deriva in buona parte il malgoverno somalo”. Il professore universitario Omar Jimale si lamenta del fatto che l’italiano non è più una lingua internazionale.
Il ricercatore Abdinor Dahir fa notare che oggi poche persone in Somalia parlano l’italiano e di conseguenza le opportunità offerte dallo studio della lingua ai giovani sono ridotte. “La generazione che parlava italiano è morta o ha lasciato il paese, perciò trasmettere in una lingua che nessuno conosce è uno spreco di risorse. Non sono contrario all’apprendimento di nuove lingue, ma che vantaggi offre l’italiano in un mondo sempre più globalizzato?”.
Secondo Simone Brioni, esperto di letteratura postcoloniale della Stony Brook university di New York, a questa iniziativa culturale manca del tutto il contesto storico. “L’italiano fu imposto ai somali. Parlare del suo ‘ritorno’ come se fosse qualcosa di normale significa non tener conto delle relazioni di potere squilibrate che si svilupparono con il colonialismo”, spiega Brioni.
Vale la pena osservare che Radio Muqdisho e l’Università nazionale somala furono create all’epoca coloniale e che oggi sono le due istituzioni al centro delle iniziative italiane. Il problema, prosegue Brioni, non è solo come sono state presentate queste operazioni: si è persa l’occasione per esplorare quell’eredità in modo più costruttivo e interessante, evitando di riprodurre le gerarchie del passato.
“Molti scrittori somali hanno usato l’italiano per dar voce al loro rifiuto del colonialismo, ma anche per chiedere di accedere agli archivi storici. Imparare l’italiano potrebbe favorire l’accesso a quei materiali. Invece in questo caso l’influenza culturale viene esercitata dall’alto verso il basso, senza scambi o collaborazioni”, osserva Brioni.
Imparare l’italiano potrebbe avere senso per gli aspiranti ricercatori somali che vogliono esplorare il loro passato, afferma Dahir, ma reintrodurre l’italiano in questo modo dimostra che l’Italia non si è riconciliata con il modo in cui i somali interpretano la sua lunga presenza nel paese. “Imporre l’italiano (attraverso gli aiuti condizionati) potrebbe sembrare una nuova forma di imperialismo culturale”, afferma. “Credo che sia ora per l’Italia di fare i conti con il suo passato”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati