La casa della famiglia di Ehab al Wazni si trova in fondo a una strada senza uscita in un dedalo di case basse, uno dei tanti blocchi residenziali anonimi che formano la città di Kerbala, a sudovest di Baghdad. Le facciate fatiscenti battute dal sole non hanno niente a che fare con le eleganti guglie dorate del santuario dell’Imam Hussein alla periferia della città, uno dei luoghi più sacri dell’islam sciita. Polveroso e desolato nell’afoso caldo estivo, il vicolo sembra poco rassicurante.

Con una abaya nera addosso e uno sguardo preoccupato sul volto pallido, Samira, la madre di Ehab, tiene d’occhio un televisore nell’angolo del salotto. Le telecamere di sicurezza trasmettono le immagini sullo schermo, catturando qualunque movimento all’esterno. Coprono un’area che arriva a pochi passi dal punto in cui suo figlio è stato ucciso l’8 maggio, colpito da due proiettili al petto e tre alla testa.

Ehab al Wazni era uno degli attivisti politici più importanti dell’Iraq. Nell’ottobre 2019 il paese è stato travolto da un’ondata di proteste, alimentata dalla rabbia contro la corruzione del governo e la sua incapacità di fornire servizi essenziali e posti di lavoro. Il movimento, cominciato nella piazza Tahrir di Baghdad, è diventato noto con il nome arabo del mese di ottobre: tishreen. Erano i giovani a scendere nelle strade: con circa 700mila persone che entrano ogni anno nel mercato del lavoro, almeno un giovane iracheno su quattro è disoccupato. Ma il malcontento andava oltre le rivendicazioni economiche. Una generazione cresciuta con il conflitto confessionale seguito all’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003 era stanca di vedere l’autorità delle armi prevalere sullo stato di diritto. Ne aveva abbastanza del ruolo sproporzionato del confessionalismo nella società e in politica, e dell’ingerenza dell’Iran negli affari iracheni.

A Kerbala e non solo, Ehab alimentava il dissenso trascorrendo interminabili ore nelle strade e sui social network. “Ehab voleva unificare il movimento. Ha incitato le proteste in tutto l’Iraq”, racconta suo fratello Ali al Wazni. Il suo è stato solo uno di una serie tragica e ininterrotta di omicidi. Man mano che le proteste, per lo più pacifiche, si diffondevano nel paese, i manifestanti sono stati raggiunti da una pioggia di proiettili e lacrimogeni. Negli ultimi due anni almeno settecento di loro sono stati uccisi dalla polizia e dalle milizie.

Nel movimento non ci sono dubbi sul fatto che dietro l’omicidio di Ehab al Wazni ci siano le milizie. Questi gruppi armati, che si sono formati in seguito all’invasione statunitense, sono cresciuti fino a diventare una forza ribelle sciita, ingaggiando una brutale guerra civile con gli estremisti sunniti. Hanno consolidato la loro posizione durante la guerra contro il gruppo Stato islamico, e sono stati fondamentali nella sconfitta dei jihadisti. Molti hanno stretti legami con l’Iran e hanno dei loro partiti politici. Intrecciate alle strutture di potere, le milizie hanno interesse a sostenere il sistema. Più potenti dello stato, hanno le loro leggi e non temono conseguenze.

Una manifestazione contro il governo a Baghdad, il 25 maggio 2021 (Ameer Al Mohammedaw, Picture alliance/Getty Images)

Ali al Wazni racconta che nei giorni precedenti alla morte Ehab aveva ricevuto minacce da profili Facebook falsi. Ma dice di sapere chi sono i responsabili dell’uccisione del fratello. Poco dopo l’omicidio la polizia ha arrestato Qassem Musleh, l’influente comandante di una milizia. Ehab lo aveva infastidito intromettendosi in un incontro in cui Musleh stava chiedendo agli anziani delle tribù di convincere i giovani a smettere di protestare e tornare a scuola. “Se potete riportarli in vita, gli studenti torneranno a scuola”, gridava Ehab in un video girato allora. “Ti facciamo fuori”, aveva sibilato Musleh, secondo il racconto di Ali. Musleh è stato rilasciato due settimane dopo l’arresto per mancanza di prove, ha riferito la polizia. Come tutti gli omicidi di attivisti, anche quello di Al Wazni rimane irrisolto.

Ritorno al passato

La repressione implacabile e la pandemia di covid-19 alla fine hanno attenuato le proteste. Ma gli attivisti restano nel mirino degli assassini, anche se gli omicidi attirano poca attenzione fuori dell’Iraq.

Reham Yacoub è stata uccisa a Bassora ad agosto del 2020. Salah al Iraqi, di Baghdad, è stato ucciso a dicembre. Neppure i familiari sono al sicuro: Ali Karim, figlio dell’attivista per i diritti delle donne Fatima al Bahadly, è stato sequestrato e ucciso il 23 luglio. Altri omicidi sono stati denunciati dalla stampa estera. Per esempio quello di Husham al Hashimi, noto analista politico e consulente dell’allora primo ministro ad interim Mustafa al Kadhimi. Come Al Wazni, anche lui è stato raggiunto dai proiettili mentre era al volante. Pochi dubitano che l’uomo ripreso dalle telecamere a circuito chiuso mentre scaricava un fucile d’assalto sulla sua auto fosse un sicario delle milizie. E mentre gli omicidi continuano, la paura scende sul movimento di protesta. “Non ho contatti con la maggior parte dei miei amici perché hanno cambiato numero di telefono. Molti cercano di ridurre le loro attività e starsene nascosti per un po’. Alcuni sono andati a Erbil (la capitale della regione autonoma curda dell’Iraq) o hanno lasciato il paese”, racconta Zainab, una fotografa di 25 anni. Per mesi Zainab ha ritratto la folla di giovani radunata in piazza Tahrir sulle sponde del Tigri. Tra i manifestanti e la polizia schierata a guardia del ponte che porta alla vecchia zona verde (un’area fortificata, sede di istituzioni governative e ambasciate) è salita la tensione, che ha prodotto vittime a ciclo continuo.

“Molte delle persone che ho fotografato sono morte”, dice Zainab, che non ha voluto rivelare il suo cognome per paura di rappresaglie. La giovane si occupava anche dei manifestanti feriti dai colpi d’arma da fuoco o dai candelotti lacrimogeni. Per lei è stato come tornare al passato. La sua infanzia era stata funestata dalla violenza confessionale, questo l’aveva convinta a impegnarsi per cambiare il paese: “Da bambini abbiamo visto cose terribili. Dopo la caduta di Saddam sono cominciate le uccisioni. I miei vicini sono stati assassinati perché avevano un nome sunnita. Vedevamo i cadaveri mentre andavamo a scuola. È da quando siamo bambini che vogliamo cambiare le cose”.

Scarso entusiasmo

Il movimento non è riuscito a realizzare i suoi obiettivi, ma ha fatto cadere il premier Adel Abdul Mahdi e ha ottenuto le elezioni anticipate del 10 ottobre. I partiti riformisti che si sono formati durante le proteste sperano di poter generare un cambiamento attraverso il voto. Ma è un’impresa ardua. In Iraq il potere è spartito secondo il sistema della muhasasa, che attribuisce alle diverse confessioni, religioni ed etnie una percentuale di cariche di governo in proporzione alle loro dimensioni. Questo sistema ha consolidato il confessionalismo e il clientelismo e ha disilluso l’elettorato.

Alaa al Rikaby vuole cambiare questa realtà. “Ci sono circa 20 milioni di elettori che non si sentono rappresentati dai partiti tradizionali”, afferma l’ex farmacista, che guida la sezione locale del partito Emtidad a Nassiriya, nel sud del paese. “In questo momento sono senza speranza e non vogliono votare”. Al Rikaby pensava di fare campagna elettorale, invece è dovuto scappare. “In questa provincia i sequestri, le torture e gli omicidi erano frequenti. Per questo ho lasciato la mia casa. Ora sono tornato, ma sono ancora preoccupato. C’è sempre il rischio di un attentato”, spiega. Con poche risorse a disposizione e costretto a guardarsi le spalle, per far circolare le sue proposte Al Rikaby si è affidato alle iniziative dal basso e ai social network. Dice che la campagna di Emtidad può contare su circa 20mila sostenitori in dieci governatorati, ma nel movimento Tishreen l’entusiasmo per le elezioni è scarso. L’esperienza di nuovi partiti finiti invischiati nei vecchi meccanismi spinge alla diffidenza anche verso le formazioni emergenti.

“Se sei iracheno e vivi prima sotto un dittatore assassino e poi altri diciott’anni nella corruzione pensi che tutti siano infettati da questa malattia”, ammette Al Rikaby che a 47 anni è un’anomalia nel movimento. Anche il suo lavoro in una società di consulenza lo distingue da una generazione che ha di fronte una drammatica prospettiva di disoccupazione. Ma lui si è sentito in dovere di unirsi alle proteste a Nassiriya, dov’è nato. La città è vicina ai pozzi di petrolio che pompano ogni giorno milioni nelle casse dello stato iracheno, ma ha beneficiato poco di quella ricchezza. Come nel resto dell’Iraq, una rete fatiscente garantisce solo poche ore di elettricità al giorno quando le temperature superano i 50 gradi. Anche l’acqua potabile scarseggia, soprattutto a causa dell’inquinamento e dell’incuria. I bordi delle strade piene di buche sono disseminati di spazzatura.

Mosul, 14 settembre 2021 (Ismael Adnan Yaqoob, Anadolu Agency/Getty Images)

Al Rikaby è diventato una voce importante per il cambiamento nella città soprannominata la “capitale della protesta”. Ha l’aria di qualcuno che sa di avere i giorni contati. “Chi ha paura di essere ucciso non deve entrare in politica”, sottolinea. Ma lui è determinato a continuare la battaglia: “Il cambiamento arriverà dalle urne”.

La strana alleanza

La classe politica è stata turbata dalle proteste di Tishreen. Era dalla rivolta fallita alla fine della prima guerra del Golfo, tra marzo e aprile del 1991, che la maggioranza sciita non si sollevava in modo così deciso. I giovani che nel centro e nel sud del paese hanno manifestato contro un governo dominato dagli sciiti hanno spinto gli osservatori a parlare del primo conflitto tra sciiti dell’Iraq.

La generazione dei giovani iracheni è sempre meno disposta ad accettare la religione come scusa per il malgoverno. “I manifestanti hanno rivendicato una nuova forma di identità nazionale a cui poter appartenere, senza differenze confessionali”, ha scritto di recente l’ong Crisis group in un rapporto sul movimento. Sui social network l’hashtag nurid watan (vogliamo una patria) è diventato il motto delle proteste.

Il conflitto tra conservatorismo religioso e ribellione giovanile era nato già prima che le proteste raggiungessero Najaf, città nota per essere la sede della marjaeya (la gerarchia religiosa sciita in Iraq) ma anche un centro del pensiero progressista. Nel 2012 un gruppo di universitari fondò Moja (onda in arabo), un movimento che guardava alla società civile per promuovere un programma laico. “Crescendo, ho notato tutta la corruzione e la distruzione nel paese: non ho una fornitura elettrica, un sistema sanitario o universitario degni di questo nome. Volevo trovare la causa, e ho scoperto che i partiti di governo erano islamici e operavano sotto il manto della religione”, dice Yaser Mekki, uno dei fondatori di Moja.

Da sapere
Incertezza sul voto

◆ In Iraq il 10 ottobre 2021 si svolgono le elezioni legislative, le quinte da quando l’invasione guidata dagli Stati Uniti ha rovesciato il regime di Saddam Hussein nel 2003, introducendo un complesso sistema multipartitico di cui fanno parte gruppi definiti principalmente dall’appartenenza confessionale o etnica. Il voto doveva svolgersi nel 2022, ma è stato anticipato dal premier Mustafa al Kadhimi (prima a giugno e poi a ottobre) come concessione nei confronti del movimento di protesta scoppiato nell’ottobre 2019 contro la corruzione e l’incapacità delle autorità. Quasi 25 milioni di elettori potranno votare per eleggere 329 deputati tra più di 3.200 candidati. La nuova legge elettorale garantisce alle donne almeno 83 seggi in parlamento. Inoltre sostituisce il voto a una lista con quello per un singolo candidato, che però può presentarsi a nome di un partito o di una coalizione, per cui i blocchi tradizionali e la rete delle clientele resteranno molto potenti. I sondaggi prevedono che il blocco sciita continuerà ad avere la maggioranza in parlamento, anche se si presenta diviso su vari temi, tra cui l’influenza del vicino Iran. Tra gli attivisti non c’è una posizione unitaria sull’eventualità di boicottare il voto e probabilmente i candidati usciti dal movimento non otterranno molte preferenze. Alle ultime elezioni del 2018 l’affluenza alle urne è stata del 44 per cento, ma molti temono che la mancanza di fiducia nelle istituzioni spinga tanti a non andare a votare. Reuters, Afp


Il gruppo era provocatorio. Una delle sue prime iniziative fu portare un albero di Natale su una strada importante della devota città musulmana. L’obiettivo era promuovere la tolleranza religiosa, ma la trovata suscitò le ire della marjaeya. I religiosi avviarono una campagna diffamatoria, affermando che gli attivisti erano gay o avevano rapporti sessuali fuori del matrimonio, tentando anche di farli espellere dall’università. Ma con il tempo la rabbia del clero sciita si è trasformata in curiosità. “All’inizio ci combattevano, poi hanno cambiato metodo e hanno cominciato un dialogo”, spiega Mekki, che è riuscito a finire gli studi e oggi dirige una clinica a Najaf.

I dibattiti tra religiosi e attivisti continuano ancora oggi, e hanno contribuito a plasmare la posizione della gerarchia religiosa nei confronti del movimento Tish­reen. Nei sermoni del venerdì l’ayatollah Ali al Sistani, la massima autorità sciita in Iraq, ha denunciato la violenza inflitta ai manifestanti e ha sostenuto i loro appelli per una riforma e per le elezioni anticipate. “Ho detto ai religiosi che questo è un momento storico che non va sprecato. I manifestanti guardano con rispetto ad Al Sistani. Ma se non li sosterrà, l’incendio potrebbe bruciare anche lui”, dice Mekki.

La strana alleanza tra i religiosi conservatori e il movimento di protesta laico è rafforzata da una causa comune: respingere l’egemonia dell’Iran. Non sorprende che i laici siano infastiditi dall’influenza che la Repubblica islamica esercita nelle stanze del potere a Baghdad, ma questa è da tempo una spina nel fianco anche per la marjaeya, che continua a rifiutare il sistema di governo teocratico di Teheran. Al Sistani e la sua base di Najaf ritengono che i religiosi non debbano avere un ruolo attivo nel governo. Sono contrari all’uso che l’Iran fa dell’islam sciita per scopi geo­politici in Iraq e nella regione, e sono sdegnati dai partiti iracheni che sostengono questa alleanza richiamando la religione e l’identità settaria mentre perseguono le loro ambizioni e si arricchiscono a spese dello stato.

“Noi non siamo contro l’Iran ma non vogliamo diventare come l’Iran. Il nostro sciismo è diverso da quello di Teheran, abbiamo un’altra idea di governo”, dice Mohamed Ali Bahr al Ulum, un importante religioso di Najaf. I manifestanti attribuiscono all’ingerenza iraniana molti mali del paese, e questa convinzione è rafforzata dalla repressione messa in atto dalle milizie sostenute da Teheran. “I partiti dominanti non hanno voluto seguire l’idea di Al Sistani sul fatto che il governo deve essere indipendente dall’Iran. È uno dei motivi per cui le proteste sono cominciate, e per cui noi le abbiamo sostenute”, spiega Al Ulum.

La marjaeya, i partiti riformisti e gli attivisti come Mekki sperano in un cambiamento graduale. Considerano le elezioni una prima opportunità per indebolire le vecchie strutture di potere. Ma la maggior parte dei manifestanti di Tishreen non crede che le urne porteranno a qualcosa. Questo non vuol dire che ha accettato la sconfitta. Significa che più di qualunque altra cosa desidera lasciarsi alle spalle un passato di sangue. “Vogliamo qualcosa di più che armi e proiettili”, dice Zainab. “Non abbiamo bisogno di elezioni, chiunque può comprare voti. Abbiamo bisogno di una rivoluzione, una rivoluzione pacifica. Le persone devono cominciare a capire che la situazione non cambierà se non cambieranno loro”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati