Il 14 luglio 2023 tre caccia dell’Indian air force hanno sorvolato Parigi, sulla scia della pattuglia acrobatica francese. Duecentocinquanta soldati indiani hanno sfilato sugli Champs-Elysées insieme alle truppe francesi. Il presidente Emmanuel Macron ha riservato grandi onori al primo ministro indiano Narendra Modi che, nonostante il suo autoritarismo, non è mai stato tanto corteggiato sulla scena internazionale.
Il 9 settembre Modi riceverà a New Delhi i leader delle prime venti economie mondiali – Russia compresa – per la riunione annuale del G20. Dal 22 al 24 agosto è stato al vertice dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a Johannesburg, in Sudafrica. Il primo ministro indiano è un sostenitore del “multiallineamento” e si preoccupa di tenere aperto il dialogo sia con il presidente statunitense Joe Biden sia con il russo Vladimir Putin. Così si è imposto tra le personalità più in vista del “sud globale”, il nuovo “continente” emerso con la guerra in Ucraina.
Fin dalle prime ore dell’aggressione russa, il 24 febbraio 2022, una massa critica di paesi ha mostrato di volersi tenere a distanza – o equidistanza – dalle due parti in conflitto e dagli alleati occidentali dell’Ucraina. Il 27 febbraio, quando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Francia e Stati Uniti hanno chiesto una riunione d’emergenza dell’assemblea generale, gli Emirati Arabi Uniti si sono astenuti nel voto sul sostegno all’iniziativa, nonostante gli accordi militari che li legano a Washington e a Parigi. Il 2 marzo 2022 si è riunita l’assemblea generale: trentacinque paesi – tra cui Cina, India, Algeria, Sudafrica e altri quindici stati africani – si sono nuovamente astenuti sulla proposta di esigere dalla Russia “l’immediata cessazione del ricorso alla forza contro l’Ucraina”. Da allora i segnali di sfida si sono moltiplicati, testimoniando l’affermazione del cosiddetto sud globale.
Definizioni
Questa nuova costellazione di stati, in cui vive più della metà della popolazione mondiale, porta un nome antico. Nel 1969 Carl Oglesby, un attivista statunitense contro la guerra in Vietnam, aveva denunciato quel conflitto come il punto culminante della “dominazione del nord sul sud globale”. Con quelle parole indicava le stesse entità geopolitiche che il demografo ed economista francese Alfred Sauvy aveva chiamato “terzo mondo”, in riferimento al terzo stato (il ceto più basso nella società francese prima della rivoluzione del 1789). In quel periodo i paesi poveri, concentrati nell’emisfero sud, cercavano di distanziarsi dai due blocchi creati dalla guerra fredda: a est, gli stati del patto di Varsavia stretti intorno all’Unione Sovietica; a ovest, quelli dell’Alleanza atlantica (Nato), sotto la sfera statunitense.
“Rispetto ai decenni passati, il nuovo ‘non allineamento’ scaturisce da una situazione in cui i paesi in via di sviluppo sono in una posizione più forte”, scrive l’ex ambasciatore cileno Jorge Heine, ricercatore del Wilson Center di Washington, in un articolo sul sito The Conversation. Nell’economia mondiale i Brics hanno ormai superato in termini di pil i paesi del G7. Presentare l’attuale frammentazione come una semplice divisione tra l’occidente e il resto del mondo, come sostengono alcune voci del nord, è ingannevole.
“Perché questi paesi dovrebbero essere considerati il resto del mondo?”, si è chiesta Fiona Hill, un’ex consigliera della Casa Bianca in un discorso tenuto a maggio in Estonia. Quei paesi “sono il mondo”, ha detto Hill, lamentandosi di “una terminologia che puzza di colonialismo”. Il concetto di sud globale è però contestato. “È profondamente riduttivo e non tiene conto dell’eterogeneità del gruppo”, scrive Samir Saran, direttore dell’Observer research foundation di New Delhi. “Pochi paesi vorrebbero essere inseriti nella categoria ‘sud’, mentre portano avanti il loro sviluppo e contribuiscono a dare forma ai sistemi mondiali”.
La definizione può disorientare: non indica un punto cardinale intorno al quale graviterebbero alcuni paesi ben identificati, ma quegli stati che votano in modo affine nelle sedi dell’Onu. L’insieme comprende varie regioni, storiche ed economiche. Alcune organizzazioni internazionali, come i Brics o l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (fondata nel 2011 da sei paesi dell’Asia centrale), in parte si sovrappongono.
Lo scorso giugno, a una domanda sull’appartenenza del Kazakistan al sud globale, il viceministro degli esteri kazaco Roman Vassilenko ha risposto in maniera evasiva, parlando delle temperature polari che si registrano d’inverno in quelle parti dell’Asia centrale. Tuttavia, nel suo sforzo di allontanarsi diplomaticamente dalla sfera d’influenza russa, senza peraltro allinearsi con Kiev, il presidente kazaco Qasym-Jomart Toqaev ha idealmente inserito il suo paese nel sud globale. Il concetto, anche se non permette di disegnare una mappa dai confini chiari, comprende quegli attori la cui esasperazione, a lungo inascoltata, si esprime ormai con forza contro l’occidente, il cosiddetto nord globale.
Quando ha deciso d’invadere l’Ucraina, Putin ha moltiplicato gli errori strategici, sottovalutando il sentimento nazionale ucraino e la determinazione dell’occidente. In compenso ha scommesso con successo sull’affermazione dei paesi del sud e ha fatto fruttare il capitale politico che Mosca aveva accumulato nelle ex colonie occidentali, mantenuto attraverso la rete diplomatica sovietica prima, e russa poi. Tutto questo contando sul sostegno della Cina, a rischio di diventarne dipendente. In queste condizioni per le capitali del sud è difficile scegliere tra Washington e Pechino, la cui rivalità è aumentata all’ombra della guerra in Ucraina. “Per molti paesi del sud globale”, osserva Heine, “mantenere buone relazioni con gli Stati Uniti e con la Cina è fondamentale per lo sviluppo economico, per gli scambi commerciali e i flussi d’investimenti”.
Putin ha fatto leva sul risentimento nei confronti delle ex potenze coloniali, soprattutto in Africa, dove la Francia è stata presa alla sprovvista dall’arrivo dei mercenari della Wagner, sostenuti da Mosca. Segno dei tempi, nel secondo film della saga hollywoodiana di Black panther, i soldati francesi sono descritti come saccheggiatori in cerca di minerali dalle proprietà straordinarie. Una rappresentazione “falsa”, l’ha definita il ministro della difesa francese Sébastien Lecornu.
Al di là delle ferite del passato, i paesi del sud si rifiutano di applicare le sanzioni adottate dagli Stati Uniti e dai loro alleati contro la Russia. Lo fanno anche quelli che, sull’esempio del Brasile, della Turchia e dell’Arabia Saudita, hanno condannato l’invasione dell’Ucraina. Alcuni hanno perfino aumentato gli scambi commerciali con Mosca dall’inizio della guerra. L’India importa il petrolio russo colpito dall’embargo europeo, e poi esporta nel vecchio continente i prodotti raffinati.
La posizione degli occidentali, che considerano le sanzioni legittime e appropriate di fronte alla violazione di princìpi fondamentali dello statuto dell’Onu, è in forte contrasto con la percezione che ne ha il sud globale. L’8 giugno, in apertura del Forum internazionale di Astana, il presidente kazaco ha denunciato l’arbitrarietà di misure che contribuiscono a “un processo di distruzione delle basi dell’ordine mondiale elaborato dopo la creazione delle Nazioni Unite”.
Il capo di un gruppo industriale francese attivo in molte parti del nuovo continente geopolitico conferma il trauma creato dalle ripetute restrizioni agli scambi con la Russia: “Finora gli europei erano considerati come più misurati, più rispettosi dello stato di diritto. Molti leader del sud si sono detti: ‘Se si comportano così con Putin, un giorno potrebbero farlo con noi’”.
La presa di distanza nei confronti del conflitto ucraino si concretizza in un grande fermento d’iniziative di pace. A febbraio ha cominciato la Cina, seguita dal Brasile ad aprile, dall’Indonesia a giugno e da una delegazione africana guidata dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, che è andata a Mosca e a Kiev (ad agosto è stato il turno della mediazione saudita). Con un Consiglio di sicurezza paralizzato dalla minaccia di un veto russo e con l’allineamento occidentale con Kiev, questi paesi hanno il campo libero. Queste iniziative rispondono all’esigenza comune di risolvere un conflitto che non riguarda solo l’Europa, ma che ha conseguenze devastanti sul prezzo dell’energia, dei prodotti alimentari o sul livello del debito, a causa dell’aumento dei tassi d’interesse. Tutte queste preoccupazioni nazionali spingono il sud a chiedere la sospensione – anche temporanea – delle ostilità. Appelli per abbassare le tensioni, ma senza parlare della presenza di un esercito straniero sul territorio ucraino; richieste di un cessate il fuoco “sulle posizioni attuali”; possibilità di un referendum nelle “zone contese” con la supervisione dell’Onu; richiami alla sovranità degli stati e dei popoli “conformemente allo statuto delle Nazioni Unite”, ma senza ricordare che l’articolo 2 difende l’integrità territoriale degli stati. Queste proposte sono state respinte dagli ucraini, che hanno parlato di proposte favorevoli ai “piani russi”.
Per il momento Kiev dice di avere un solo obiettivo: riprendere l’insieme dei territori occupati dalla Russia dal 2014, compresa la Crimea. Gli alleati occidentali dell’Ucraina assicurano di non averne altri. Ma tutti sanno che la via d’uscita dal conflitto potrà essere trovata solo grazie a paesi come l’India e il Brasile, capaci di influire – almeno si spera – sulla Russia di Putin.
Spese aumentate
Anche se la guerra in Ucraina ha permesso al sud globale di prendere consapevolezza dei suoi numeri, ha anche ravvivato un sentimento di frustrazione verso un ordine internazionale considerato dominato dagli occidentali dalla fine della guerra fredda e caratterizzato, secondo i leader del sud, dall’ipocrisia e dalla politica dei “due pesi e due misure”. I leader del sud fanno un parallelo tra l’invasione russa dell’Ucraina e quella statunitense dell’Iraq nel 2003. Washington non aveva un mandato dell’Onu e il presidente statunitense George W. Bush, responsabile di questa decisione che si è rivelata devastante per il Medio Oriente, non ha mai dovuto renderne conto.
Anche l’intervento occidentale in Libia dopo le primavere arabe del 2011, guidato dalla Francia e dal Regno Unito con il sostegno della Nato, è considerato allo stesso modo. Ha causato l’implosione del paese dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi e la sua uccisione, mentre il mandato dell’Onu era limitato alla protezione dei civili.
Gli occidentali cercano di ridurre le tensioni suscitate dal conflitto ucraino, ma la rabbia è forte e in varie occasioni la Francia ne ha pagato le conseguenze. Nel luglio 2022, in Camerun, il presidente francese Macron ha definito la Russia una potenza “imperialista” e “coloniale” nel tentativo di limitare l’influenza del Cremlino in Africa. Ha inoltre criticato “l’ipocrisia” dei paesi africani che non avevano denunciato l’aggressione russa in Ucraina. Poco tempo dopo, un collaboratore del presidente camerunese Paul Biya ha commentato: “Dall’Iraq alla Libia, gli occidentali hanno moltiplicato le bugie. Il conflitto in Ucraina è una guerra europea con cui non abbiamo nulla a che vedere”.
Gli attuali interessi geopolitici non sono l’unico motore di questa opposizione. Possiamo citare la crisi finanziaria del 2008, causata dalle storture del sistema bancario statunitense. O la gestione della pandemia di covid-19, cominciata in Cina alla fine del 2019, che ha portato a gravi accuse contro l’egoismo occidentale, sottolineato dalla gestione della distribuzione dei vaccini.
Ogni volta le potenze occidentali stanziano somme considerevoli per contenere gli effetti di eventi devastanti. Invece, la nuova crisi del debito, provocata dall’aumento dei tassi d’interesse per frenare l’inflazione, ha drammaticamente indebolito i paesi poveri, dallo Sri Lanka al Ghana. Più di una cinquantina di economie vulnerabili rischiano di diventare insolventi. Senza dimenticare il peso della guerra in Ucraina. “Non siamo ai livelli dell’Europa, ma anche le nostre spese in petrolio e gas sono molto aumentate, proprio nel momento in cui cercavamo di risollevarci dalla pandemia”, ha spiegato Mia Mottley, prima ministra di Barbados, in un’intervista a Le Monde. “Non che i discorsi russi siano particolarmente attraenti, ma la retorica occidentale rifiuta di riconoscere gli abusi e le ingiustizie compiuti nelle ex colonie. In un mondo che non è più guidato da una logica imperialista possiamo esprimere le nostre opinioni con maggiore libertà”. Un altro esempio è rappresentato dal brasiliano Lula, che continua a denunciare l’egemonia del dollaro e propone ai partner dei Brics di adottare una moneta alternativa, che almeno permetterebbe scambi commerciali al riparo delle sanzioni extraterritoriali statunitensi.
Sono altrettanto forti le critiche sulla lotta contro il riscaldamento globale, come hanno mostrato i dibattiti che si sono svolti a Parigi a metà giugno in occasione di un vertice sul nuovo patto finanziario mondiale. L’iniziativa doveva permettere di ridurre la frattura tra nord e sud. Ma, per quanto necessari, questi progetti si annunciano difficili. “Il nord è in gran parte responsabile dei danni provocati dal cambiamento climatico. E il sud ne deve sopportare le conseguenze anche se ha contribuito molto poco”, ha ripetuto con insistenza il presidente keniano William Ruto. “La promessa di versare cento miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo per aiutarli ad adattarsi e a ridurre le loro emissioni di gas serra non è mai stata mantenuta”.
L’occidente si vede rimproverare la sua inerzia di fronte alle economie in difficoltà. “La maggior parte delle nazioni, in particolare quelle del mondo in via di sviluppo, si sono ispirate al modello democratico liberale, nella speranza che attori dominanti come gli Stati Uniti s’impegnassero con sincerità nel progetto d’instaurare un ordine mondiale giusto, fondato su quei principi”, osserva Ram Madhav, ex segretario generale del partito di Narendra Modi, il Bharatiya janata party (Bjp, destra nazionalista indù). “Ma l’esperienza mostra che la volontà occidentale di ‘democratizzare il mondo’ è guidata da un’agenda politica, non ideologica. Per i paesi del sud il libero scambio e il capitalismo sono rimasti delle chimere”, ha scritto Madhav nel libro _Guerre en Ukraine et nouvel ordre du monde _(Editions de l’observatoire/Institution Montaigne 2023).
Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha usato parole molto dure a margine del vertice del G7 in Giappone, quando ha affermato che “l’architettura finanziaria mondiale sta diventato obsoleta, disfunzionale e ingiusta”. A sua volta la leader di Barbados Mia Mottley denuncia la natura “postcoloniale” delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, di cui chiede un cambiamento nella struttura di governo. “La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sono stati creati alla fine della seconda guerra mondiale, molto prima dell’indipendenza di una buona parte dei paesi del mondo”, osserva. Ma gli Stati Uniti non vogliono sentir parlare di una riforma.
Per molti paesi del sud, esasperati dal vicolo cieco in cui si trova il progetto di allargare il Consiglio di sicurezza, il giudizio sull’intero ordine mondiale è altrettanto negativo. “Chi ha distrutto il multilateralismo?”, si chiede Anil Sooklal, incaricato dalla presidenza sudafricana a preparare il vertice dei Brics. “Non vogliamo un mondo unipolare né bipolare, ma uno multipolare e multiculturale”, ha detto.
◆ Dal 22 al 24 agosto 2023 i rappresentanti dei Brics (il gruppo delle economie emergenti che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) si sono incontrati per il vertice annuale a Johannesburg, in Sudafrica. Non era presente il presidente russo Vladimir Putin, su cui pende un mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Tra i temi all’ordine del giorno c’è l’adozione di una valuta alternativa al dollaro e la possibile espansione del gruppo per bilanciare il potere del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti). I candidati a entrare nei Brics vanno dall’Argentina all’Iran. Financial Times
Matias Spektor, docente di relazioni internazionali alla Fundaçao Getulio Vargas, una rinomata istituzione universitaria brasiliana, critica anche l’atteggiamento occidentale che consiste nell’esprimere “degli interessi nazionali in termini morali” e a presentare un “ordine mondiale basato su delle regole”, che serve a mascherare un insieme di imposizioni economiche, politiche e militari. “La maggior parte dei paesi del sud globale fatica ad accettare le argomentazioni occidentali per difendere l’ordine internazionale, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati violano ripetutamente le regole, compiendo atrocità nelle loro guerre, maltrattando i migranti, eludendo gli sforzi internazionali per limitare le emissioni e indebolendo decenni di accordi multilaterali nati per promuovere il commercio e ridurre il protezionismo”, ha scritto Spektor in un articolo su Foreign Affairs.
Ogni quattro anni
Durante la campagna per le presidenziali negli Stati Uniti del 2020, e dopo la sua elezione, Joe Biden ha diviso il mondo in due schieramenti: le democrazie e gli stati autoritari. Così facendo ha alimentato le critiche contro l’ipocrisia occidentale, che hanno messo in evidenza come Washington abbia fornito armi o stipulato programmi di aiuto militare con 35 dei 49 paesi definiti “non liberi” nella classifica di Freedom house, che monitora lo stato della democrazia nel mondo.
Da vent’anni tutti i presidenti statunitensi hanno alimentato in un modo o nell’altro i dubbi sul ruolo del loro paese nel mondo. L’invasione dell’Iraq decisa da George W. Bush nel 2003 ha messo in crisi la dottrina neoconservatrice in politica estera, che consisteva nell’imporre la democrazia dall’alto. I suoi sostenitori la presentavano come una garanzia di stabilità e di cooperazione con Washington, anche se in realtà finiva per favorire gli interessi statunitensi. Il pacifismo di Barack Obama è stato un rifiuto radicale di quel “wilsonismo in divisa”, secondo la formula usata dall’esperto di relazioni internazionali Pierre Hassner. Con il suo proclama “America first”, Donald Trump ha invece accentuato il ritiro dagli affari mondiali. Infine Biden è andato nella direzione opposta, rivitalizzando l’Alleanza atlantica nell’emergenza della crisi ucraina.
Tra i paesi del sud questi improvvisi cambiamenti di rotta hanno rafforzato la volontà di tenersi in disparte. “Vorremmo rimanere là dov’eravamo, ma il ‘dov’eravamo’ non esiste più”, confida un alto diplomatico di un paese del Medio Oriente, facendo notare che l’imprevedibilità statunitense fa nascere “dubbi” sulla solidità degli accordi di sicurezza che legano il suo paese a Washington.
Il sud globale sembra quindi destinato a durare e insieme a esso un “plurilateralismo a responsabilità limitata”, una definizione coniata dall’indiano Samir Saran. Alcuni paesi, come il Brasile, l’India e la Turchia, identificati come “stati cardine globali” da uno studio del German Marshall Fund, un’istituzione statunitense che promuove le relazioni transatlantiche, approfittano della situazione grazie alle loro dimensioni o alla rendita strategica derivante dalla loro posizione geografica.
Ai pionieri di questa diplomazia opportunista si sono aggiunti, nel corso di questi riallineamenti, paesi come l’Indonesia o l’Arabia Saudita. Riyadh, un tempo all’interno dell’orbita statunitense, si è allontanata da questa tutela sulla spinta del principe ereditario Mohammed bin Salman. Quest’ultimo ormai non esita più a sfidare apertamente Washington: non ha accolto le richieste di Biden per aumentare la produzione di petrolio e far scendere i prezzi, e si sta avvicinando al nemico iraniano grazie all’intervento di Pechino. Il suo attivismo si estende al soft power. Prima di Riyadh, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti avevano investito in Europa nello sport più globalizzato che ci sia: il calcio. Oggi i sauditi seguono la stessa strada.
Di fronte a questa sfida, il nord globale continua comunque a conservare i suoi attributi di potenza economica, diplomatica e militare. A questi si aggiungono la forte capacità di attrazione, come si può osservare dai flussi migratori, e un dominio culturale molto efficace, basato sul fascino dei suoi codici sociali, estetici o artistici. Consapevole di questa situazione il presidente del Kenya William Ruto ha dato prova di un atteggiamento piuttosto conciliante: “Da molto tempo abbiamo mosso le nostre accuse ma non abbiamo ottenuto nulla di concreto, forse è il momento di cambiare atteggiamento, di smettere di criticare e di trovare una soluzione che sia vantaggiosa per tutti. Questo è il mio approccio. Le tensioni tra nord e sud sono sterili quanto quelle tra gli occidentali e la Cina. Non dobbiamo considerarci delle vittime”.
Inoltre il sud globale, a causa della sua eterogeneità, è destinato a profonde divisioni, come quella che si prospetta tra Cina e India. “Nessuno vorrebbe perpetuare l’ordine mondiale attuale, a eccezione degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma bisogna bloccare anche l’ordine autoritario che l’alleanza russo-cinese vuole creare”, osserva l’indiano Madhav, “perché si contrappone ai valori etici fondamentali del sud globale, che uniscono il liberalismo occidentale a un nazionalismo culturale”. L’affermazione di questo nuovo continente sembra destinata a scombussolare ancora la tettonica geopolitica. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati