All’inizio dell’estate mi è successa una cosa che metterebbe in agitazione ogni scrittrice: il giorno in cui è uscito il mio libro c’è stato un intoppo nella catena di rifornimento di Amazon, e migliaia di copie sono scomparse. A quel punto è partita una corsa per capire in quale punto del ciberspazio fossero finite o, più precisamente, in quale magazzino fossero ferme. Intanto sembrava che il libro non fosse mai stato pubblicato.
Per fortuna in un paio di giorni il problema si è risolto. L’episodio, però, rappresenta bene una questione molto più ampia: ci siamo abituati a contare su reti di distribuzione ultracomplesse che non capiamo e di cui tendiamo a dare per scontato il funzionamento.
Nell’ultimo anno molte di queste reti si sono bloccate temporaneamente o si sono interrotte, e continuano ad avere problemi anche oggi.
A volte le conseguenze sono trascurabili: io, per esempio, tempo fa ho ordinato una lavastoviglie e, nonostante il sito dicesse che me l’avrebbero consegnata in una settimana, sono passati dei mesi. Altri intoppi sono decisamente più gravi: la Goldman Sachs stima che quest’anno la carenza di microprocessori colpirà 169 settori, riducendo la crescita degli Stati Uniti dell’1 per cento. Il British Medical Journal ha denunciato che nel settore sanitario il blocco avrà effetti non solo sui dispositivi di protezione individuale ma potrebbe addirittura “mettere a rischio la salute dei pazienti”.
Il fatto che questi intoppi continuino a verificarsi è sorprendente. Da mesi gli economisti ripetono che con la partenza dei piani vaccinali la domanda di beni e servizi sarebbe esplosa. In più, i colossi tecnologici ormai ci conoscono fino nei più intimi dettagli, e conoscono ancora meglio le nostre abitudini d’acquisto. Eppure, uno shock improvviso e localizzato, come il blocco temporaneo del canale di Suez, provoca spasmi lungo tutta la catena di distribuzione. E la pandemia e la successiva ripartenza hanno contribuito a mandare in crisi il sistema.
Perché è successo? In parte la risposta è ovvia: la pandemia ha fatto chiudere le fabbriche. Il punto, però, è anche un altro: i produttori e i rivenditori al dettaglio occidentali si sono così abituati a rincorrere l’efficienza e la riduzione dei costi che hanno tagliato al minimo le scorte di magazzino, limitando la capacità del sistema di assorbire gli scossoni.
O, come osserva l’esperta di catene di approvvigionamento Nada Sanders, “di fronte a consumatori che chiedono prodotti sempre più economici e consegne sempre più rapide, le reti di distribuzione non hanno più margine di manovra”.
Rischio di perdite
C’è poi un ulteriore problema: un sistema di gestione del rischio che può sembrare sensato per singole
realtà può essere deleterio per il sistema nel suo complesso. Ne abbiamo avuto un esempio durante la crisi del 2008, quando molte banche decisero di assicurarsi contro il rischio di perdite sui loro complicati prodotti finanziari. Era una scelta logica a livello individuale; il guaio, però, è che molti di questi istituti scelsero di usare gli stessi strumenti concentrando, e quindi amplificando, i rischi.
Qualcosa di simile sta succedendo oggi con le catene di distribuzione: le singole aziende le hanno apparentemente ottimizzate per le loro specifiche esigenze. Ma siccome hanno seguito quasi tutte la stessa strategia, l’attività si concentra in nodi che possono saltare o cedere. Sembra logico che la produzione di microprocessori si concentri a Taiwan, che può sviluppare economie di scala e competenze diffuse a vantaggio dei clienti. Ma è pericoloso per il sistema in generale.
La rigidità di pensiero aggrava il problema. Prendiamo l’industria casearia britannica, analizzata da Richard Bruce, economista dell’università di Sheffield, in Inghilterra. Il settore è organizzato in tre diverse reti di distribuzione: quella per le strutture ricettive, quella del latte e quella dei prodotti lavorati. Anche se con lo scoppio della pandemia c’era un fortissimo bisogno di coordinamento, all’inizio ci sono state delle difficoltà, perché le normative antitrust impedivano alle aziende coinvolte nelle diverse reti di condividere i dati.
La buona notizia, dice Bruce, è che nel 2020 è stato creato un organismo semistatale che imporrà un metodo più coordinato.
Ma, soprattutto, i problemi legati al covid-19 hanno convinto “molte aziende e pubbliche amministrazioni a ripensare le loro reti di distribuzione”, non solo nel settore caseario.
Le società di consulenza, per esempio, cominciano a promuovere il concetto di “resilienza” in caso di shock, oltre a quello di “efficienza”.
La filosofia del just in case (pianificare le scorte per essere pronti alle emergenze) sta sostituendo il mantra del just in time (produrre solo in presenza di una domanda). Nel frattempo, gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno cercando di creare database più centralizzati delle reti di forniture, in particolare per alcune tipologie di merci come le attrezzature mediche. E innovazioni digitali come la tecnologia blockchain potrebbero favorire un maggior coordinamento.
La cattiva notizia è che non è mai facile instillare un cambio di mentalità, tanto meno in un mondo in cui i dirigenti aziendali spesso hanno i paraocchi e i costi e le conseguenze dell’eccessiva “efficienza” delle forniture non sono immediatamente visibili ai consumatori e agli investitori. Questo, ironia della sorte, è il tema centrale del mio libro (temporaneamente) scomparso. Gli dei della letteratura evidentemente si divertono con le nostre sfortune. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati