“Questa scoperta, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi”.
Platone era preoccupato che la parola scritta minacciasse l’arte della retorica, basata sulla memoria. Nei suoi dialoghi sosteneva che la scrittura avrebbe dato alle persone “non la verità, ma solo l’apparenza della verità” e che gli studenti avrebbero creduto “di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano”, diventando “portatori di opinione anziché sapienti”.
Se Platone fosse vivo oggi, direbbe cose simili su ChatGpt? È la domanda che si è fatta qualche settimana fa sul New York Times la sociologa turca Zeynep Tüfekçi. ChatGpt è un programma basato sull’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, ed è specializzato nella conversazione con gli esseri umani.
Non è solo un altro gadget nell’affollato mondo dell’intelligenza artificiale di cui si parla tanto oggi. “Rappresenta un progresso significativo ed è in grado di produrre testi paragonabili a buoni saggi scritti da studenti di scuola superiore”, scrive Tüfekçi. Proprio per questo, sostiene la sociologa, è nelle scuole e nelle università che i suoi effetti si faranno sentire di più. Non solo.
Secondo il saggista Seth Godin, tutto il clamore intorno a programmi come ChatGpt, su cui le aziende tecnologiche statunitensi stanno cominciando a investire grandi quantità di denaro, potrebbe distrarre dalla questione essenziale: “Il vero impatto dell’intelligenza artificiale non sarà nella capacità di produrre risultati stabilmente molto migliori del miglior sforzo umano, ma nell’essere diffusa, economica e sempre presente”. Perché “l’ubiquità è il cambiamento silenzioso che raramente vediamo arrivare”. Per certi versi proprio come la scrittura di cui parlava Platone. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati